Nicaragua, quarant’anni dopo la rivoluzione, fra rivoluzione e dittatura. L’analisi di una comandante guerrillera del FSLN
di Mónica Baldotano, Traduzione di Cristiano Dan
Nel quarantesimo anniversario della rivoluzione popolare sandinista non posso liberarmi da sentimenti contraddittori che mi derivano dall’essere stata protagonista, e storica, di quegli avvenimenti che posero fine alla dittatura di Somoza. In occasioni come questa sempre riaffiorano alla memoria le migliaia di eroi popolari e di martiri di quegli anni Settanta, fra i quali, e il ricordo è lacerante, mia sorella Zulema, assassinata quando aveva 16 anni. Questi sentimenti si intrecciano con le cerimonie e le funzioni religiose con le quali in questi giorni rendiamo onore alle centinaia di persone assassinate appena un anno fa, ma questa volta per opera della dittatura di Daniel Ortega, uno dei protagonisti della lotta al somozismo.
Mentre la dittatura di Ortega ostenta allegria nelle sue celebrazioni di questo anniversario e si impossessa abusivamente dei simboli di quella eroica epopea, l’immensa maggioranza di coloro che vi presero parte – comandanti della rivoluzione, guerriglieri, combattenti popolari e gente del popolo che partecipò in massa all’insurrezione finale – condanna l’orteghismo, le sue atrocità e la repressione che ha scatenato, che s’è macchiata – secondo le conclusioni della Commissione interamericana per i diritti umani – di crimini contro l’umanità ai danni del popolo nicaraguense.
Il bagno di sangue cui è stata sottoposta la popolazione – ancor più aggravato, fra il giugno e il luglio 2018, dalla Operación Limpieza [Pulizia] – è stato perpetrato sventolando cinicamente la bandiera rossonera [sandinista], al grido di “¡patria libre o morir!”, dicendo che così si difendeva la seconda fase della rivoluzione, e indossando – i criminali – magliette con le effigi di Sandino e del Che. Ex combattenti degli anni Settanta, sino ad allora umiliati per essere stati emarginati dal dittatore e dal partito, sono stati urgentemente richiamati alla «lotta», con gli ovvi incentivi. Mescolati a poliziotti e militari in congedo, questi ex rivoluzionari hanno portato a buon fine il loro sporco lavoro, sparando, per uccidere, contro giovani audaci che dalle barricate gettavano pietre o maneggiavano “mortai” fatti in casa, contro gli studenti asserragliati nelle università, contro le barricate dei contadini, quasi tutti disarmati.
La sollevazione dell’aprile dell’anno scorso non era un’insurrezione armata, come quella di quarant’anni fa. In entrambi i casi, tuttavia, vi fu un’evidente massiccia partecipazione popolare. Quella di allora sfociò nella vittoria del 19 luglio [1979]; quella attuale, pacifica, repressa nel sangue, prepara una sconfitta certa del nuovo tiranno.
Il massacro perpetrato da Ortega ha acuito il rifiuto della dittatura, che in una parte della popolazione si esprime anche come rigetto di tutto ciò che odora di sandinismo. Come sciacalli opportunisti, sono ricomparsi anche alcuni ex somozisti, sentenziando: «Avevamo ragione noi, per questo volevamo sterminare i sandinisti».
Come se non bastasse, negli Stati Uniti, i vecchi falchi che con l’amministrazione Trump hanno ora ricoperto importanti incarichi, si sono affrettati ad aumentare la confusione, includendo il regime sandinista fra i “Paesi comunisti”, nell’«asse del Male». E c’è chi ci crede, per ingenuità od opportunismo. Ortega non è mai stato ideologicamente un comunista, e da quando è tornato al potere nel gennaio 2007 ha gestito il governo come un buon paladino del capitalismo e del libero mercato, delle concessioni alle transnazionali, del più brutale estrattivismo, dello sfruttamento delle risorse naturali e della privatizzazione di tutta la ricchezza pubblica.
A tal punto che, sino alla rivolta di aprile, i suoi principali alleati negli ultimi undici anni sono stati i banchieri, i principali imprenditori del Paese e il vertice del Consejo Superior de la Empresa Privada[COSEP, la confindustria nicaraguense]. Hanno governato tutti assieme, arrivando ad assegnare rango costituzionale a questo loro «modello d’alleanza». Stando a capo dello Stato, Ortega garantiva la stabilità sociale e le opportunità per fare affari e arricchirsi come mai prima, tanto lui quanto i suoi soci del grande capitale. Ortega, da vero caudillo, accompagnava la sua marcia neoliberale con palliativi sociali di tipo clientelare per assicurarsi la base elettorale. Vi sono stati alcuni intellettuali di destra che si sono spinti sino a definire «populismo responsabile» queste sue operazioni politiche.
Certi settori della sinistra istituzionale in Europa e in America latina, nonché alcuni nostalgici, hanno voluto credere alla favola per cui Ortega continuerebbe a essere un rivoluzionario e che il suo ritorno al potere rappresentava anche il ritorno al progetto elaborato nel 1979. Questi settori hanno irresponsabilmente fatta propria la versione orteghista secondo la quale la sollevazione popolare è un tenebroso «piano dell’imperialismo». In totale spregio dell’autentica etica rivoluzionaria, c’è chi sostiene ancora questa posizione anche dopo il massacro che ha provocato centinaia di morti, migliaia di feriti e mutilati e 70.000 espatriati come rifugiati politici. E nonostante che sia stato dimostrato il ricorso generalizzato alla tortura, alla violenza sessuale nei confronti di donne e uomini e al trattamento inumano delle migliaia di prigionieri. Almeno 800 di questi ultimi sono stati trattenuti in carcere per lunghi mesi in regime di massima sicurezza, totalmente isolati, senza diritto a una difesa, accusati di terrorismo e di qualunque altro tipo di delitto senza l’ombra di una prova.
Ingenuità, ignoranza, opportunismo, spudoratezza: questo si può dire, tra l’altro, di coloro che descrivono la sollevazione popolare come un “piano della CIA”. Sappiamo tutti che le grandi sollevazioni di massa – come quelle che si sono verificate per mesi in Nicaragua – non possono essere inventate, e chiunque sia mediamente informato sa perfettamente che sino al 18 aprile dell’altr’anno i rapporti fra Ortega e gli Stati Uniti erano ottimi. E non poteva essere diversamente, poiché Ortega favorì al massimo le politiche del libero mercato: trattati di libero commercio, facilitazioni per le maquiladoras [officine di assemblaggio di pezzi importati], concessioni senza condizioni al capitale straniero. Inoltre, adozione senza riserve della politica gringa sull’immigrazione: attraverso la frontiera meridionale del Nicaragua non passava nessuno che avesse l’intenzione di dirigersi verso gli Stati Uniti. Ortega è riuscito a trasformare le frontiere nicaraguensi nell’agognato muro di Trump. Inoltre, l’orteghismo ha accettato la presenza militare statunitense e l’intervento della DEA nel nostro Paese, col pretesto della lotta al narcotraffico. Tutto ciò ha fatto sì che il Nicaragua ottenesse le migliori valutazioni da parte del Fondo monetario internazionale (FMI), della Banca mondiale e della Banca interamericano per lo sviluppo (BID). Negli ultimi undici anni i rapporti con gli Stati Uniti sono stati tra i più cordiali, fondati sul principio che quel che contava era quello che il governo nicaraguense faceva effettivamente, non ciò che sembrava facesse o che occasionalmente sosteneva.
Stando così le cose, quel che poteva far sembrare Ortega “di sinistra” era qualche espressione occasionale, la manipolazione retorica della storia, l’adesione all’ALBA e gli opportunistici rapporti col governo venezuelano, col quale aveva concluso un vantaggioso accordo con evidenti ricadute sul suo patrimonio personale. Senza dimenticare, peraltro, i suoi rapporti personali con parte della vecchia guardia della rivoluzione cubana. Mentre tutto ciò avveniva, per una parte importante della popolazione nicaraguense, e in particolare per i giovani, il governo del nostro Paese apparve come una dittatura criminale “di sinistra”, una “dittatura sandinista”.
Come è stato possibile che una rivoluzione che aveva suscitato tanta ammirazione e tanta speranza sia stata sfigurata, ripudiata dalla maggioranza del popolo? Com’è stato possibile che l’immagine di quella lotta abbia assunto le sembianze mostruose di una dittatura personale, sanguinaria e criminale? Per rispondere a queste domande è necessario distinguere fra diversi giudizi. Per un settore della destra, i sandinisti e le persone di sinistra sono criminali in sé. Si tratta soprattutto di somozisti sconfitti nel 1979. Molti di questi fecero parte in seguito della controrivoluzione [i contras]. Ma, quarant’anni dopo, una parte di loro ha finito con l’accettare l’attuale Ortega, entrando come soci in molteplici affari, diventando deputati del Fronte sandinista, o ambasciatori o, in un caso, addirittura il vicepresidente dello stesso Ortega [si tratta dell’ex contra Jaime Morales Carazo], anche se si fa fatica a crederlo. Sono fatti inconfutabili: somozismo e orteghismo hanno finito con l’abbracciarsi.
La rivoluzione del 1979 era stata possibile perché dopo 20 anni di lotta il Frente Sandinista de Liberación Nacional (FSLN), fondato da Carlos Fonseca, era riuscito a coinvolgere la maggioranza del popolo in una strategia di lotta politico-militare. Dopo aver appoggiato per oltre quarant’anni il regime di Somoza, l’amministrazione statunitense cedette a malincuore alle pressioni della comunità internazionale che, scandalizzata dai crimini contro l’umanità del somozismo, appoggiava l’eroica resistenza del popolo. Somoza, dopo aver ripetutamente respinto le offerte di negoziati dell’Organizzazione degli Stati americani (OEA), dovette fuggirsene precipitosamente di fronte all’insurrezione popolare.
I detrattori delle rivoluzioni e delle sollevazioni popolari dimenticano che queste non sono il risultato di atti volontari, machiavellici o morali. Le rivoluzioni sono possibili perché necessarie. Nel caso del Nicaragua, la situazione era già insostenibile per il popolo, non solo a causa della repressione, ma anche perché apparivano ormai improcrastinabili alcuni mutamenti. In primo luogo, era necessario ripristinare il diritto alla vita e alla libertà, i diritti civici elementari, come la libertà di organizzarsi e la libertà d’espressione, poiché il potere, le organizzazioni somoziste e il sindacalismo giallo stavano soffocando la società. Inoltre, c’era una richiesta di democrazia, poiché questa s’era ridotta a elezioni truccate e a patteggiamenti fra politici corrotti.
Nel programma e negli obiettivi della rivoluzione rientravano anche la scandalosa concentrazione della terra in poche mani – era urgente una autentica riforma agraria -, le diseguaglianze sociali, la povertà estrema, l’oscurantismo. Il Paese era stato ridotto a una proprietà dei Somoza. Era essenziale recuperarne anche la sovranità, che era stata concessa agli Stati Uniti. Il programma originale del Frente Sandinista contemplava anche l’integrazione economica e sociale di tutti gli abitanti del Paese – in particolare delle popolazioni autoctone e di quelle di discendenza africana del Caribe nicaraguense – e l’abolizione della «odiosa discriminazione della donna rispetto all’uomo». Ed è in queste direzioni che si cominciò a lavorare.
È noto come con la presidenza Reagan (1981-1989) ebbe inizio un crescendo di aggressioni contro la rivoluzione, ufficialmente definita un pericolo per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. E così la Nicaragua rivoluzionaria, estremamente fragile sul piano economico, dovette resistere per quasi dieci anni a una guerra “di bassa intensità” scatenata dai falchi della “rivoluzione conservatrice” capeggiata a livello internazionale dallo stesso Reagan e da Margaret Thatcher.
La rivoluzione fu sconfitta politicamente nel 1990, in seguito al combinarsi di un insieme di fattori. Ne ricorderemo qui solo i principali: la guerra d’aggressione imperialista che aveva organizzato la controrivoluzione, con un bilancio di migliaia di morti; le azioni brutali e criminali di entrambe le parti e il servizio militare obbligatorio, che produsse il malcontento nelle famiglie. Bloccata e asfissiata, la rivoluzione diventò insostenibile sul piano economico e su quello sociale. La direzione rivoluzionaria, per arroganza o inesperienza, non riuscì ad accordarsi collettivamente sulla strada da seguire. Si fece ricorso, allora, a provvedimenti d’eccezione, limitando la libertà d’espressione, perseguendo oppositori e confiscandone i beni. Ebbero una loro responsabilità anche l’arretratezza culturale del popolo, la scarsa formazione ideologica della direzione e dei militanti sandinisti, le sotterranee competizioni all’interno della direzione collegiale su base personalistica per la leadership e infine la congiuntura internazionale, caratterizzata dal collasso del “campo socialista” al quale il Nicaragua s’era allineato.
Con la sconfitta, rinacque e rifiorì il passato. Agli occhi di molti dirigenti l’utopia era arrivata al capolinea e pertanto c’era spazio solo per la realpolitik e per un adattamento pragmatico ai nuovi tempi. Il Frente Sandinista cominciò a disgregarsi, a suddividersi secondo logiche di spartizione dei poteri, di grandi affari per il vertice orteghista, di patteggiamenti con politici corrotti, di fanatica subordinazione all’economia capitalistica, di cieca obbedienza al caudillo e a sua moglie, gli unici che potevano decidere in materia di cariche, prebende e stipendi. Ortega ha privatizzato il FSLN sino a ridurlo al braccio elettorale dell’orteghismo.
Gli ideali della rivoluzione popolare del 1979 non sono però stati sconfitti definitivamente. Sandino, Fonseca e le nuove idee libertarie stanno già risorgendo nella parte migliore e più combattiva delle nuove generazioni, perché oggi come ieri la sconfitta di questa nuova dittatura è avvertita come necessaria da tutta la nazione.
*Mónica Baltodano è stata Comandante Guerrillera del FSLN, ministra degli affari regionali nel governo nicaraguense e ha fatto parte della Direzione nazionale del FSLN.
Titolo originale: Entre la revolución y la dictadura, pubblicato sul sito di «Brecha» il 19 luglio 2019