Parole in fondo al bicchiere. La prima volta che mescolai un cocktail fu un Cocktail Champagne, me lo chiese il titolare del bar Jamaica di Brera
La prima volta che mescolai un cocktail ero davvero molto giovane, un ragazzino affascinato da quella Milano da bere, palazzinara e socialista, che prometteva una carriera lunga e redditizia a chiunque sapesse piegarsi al potere e al denaro, una Milano reduce dagli anni di piombo, dalle rapine di Renè Vallanzasca, ma dalla quale stava per emergere una nuova generazione criminale ben diversa e più pericolosa. La prima volta che mescolai un cocktail fu un Cocktail Champagne, ma non è solo di lui che voglio parlare questa volta.
Me lo chiese Elio Mainini, il titolare del bar Jamaica, nel quartiere di Brera, una sorta di isola felice all’interno di quella realtà industriale che stava prendendo sempre più piede nell’Italia del boom economico, oramai guarita dalle cicatrici della guerra. Un caffè letterario, un bar di cultura dove si incontrarono alcuni grandi personaggi del panorama culturale italiano e anche della più piccola realtà milanese. Non avevo ancora tra le mani il mestiere di barman, però ero molto scaltro e con una spiccata capacità di osservazione, in più la mia metà bellunese mi aveva già reso almeno un bevitore molto esperto. Improvvisai.
Ricordavo il flute in cui andava preparato, la zolletta di zucchero imbevuta di angostura, il cognacchino e lo champagnino. Ma sentitemi, una sola settimana a Brera e già fingevo di essere uno di Milano. A Elio piacque e decise di mettermi alla prova dietro al suo bancone per una serata soltanto. Sapevo che se avessi fallito sarei tornato a Genova con le pive nel sacco, per cui la notte seguente la passai a studiare un vecchio libro di ricette di cocktail, con il menu del Jamaica che ero riuscito a rubare durante il colloquio. Studiai a memoria tutto quello che potevo, nonostante non avessi un bancone, né un solo liquore, né un attrezzo con il quale fare pratica, cercai tuttavia di utilizzare la mia immaginazione per provare ogni passaggio, ogni movimento, ogni utilizzo dell’attrezzatura da bar che il giorno seguente avrei dovuto saper usare. Non riuscii a presentarmi fresco come una rosa all’ora dell’aperitivo, come avrei voluto, perché dormii poco e niente quella notte, ma ero davvero molto motivato.
Il primo cliente fu un giornalista romano de l’Unità, che stava scrivendo un libro sulle rivolte studentesche degli anni ’60 e ordinò un Mint Julep. Mi raccontò dei suoi articoli scritti in quegli anni, durante i quali non ero nemmeno nato, mentre io tentavo di ricordare la ricetta. Menta fresca e zucchero, massaggiati nel tumbler basso con un cucchiaio di whisky scozzese, poi spaccare il ghiaccio e versare altro whisky. Mi chiese per quale motivo non avessi messo la soda nel suo drink, io tentennai perché me l’ero scordata, ma poi risposi che secondo la ricetta originale era facoltativo, a discrezione del cliente. Lui preferì la versione senza soda, da buon intenditore, poi ci salutammo, ci presentammo e a onor del vero ci rivedemmo molti anni dopo, e ancora oggi, spesso, torna a bere alla Bottega del Conte.
Del secondo cliente invece, non seppi mai nulla, se non che era un individuo parecchio strano, evitato dalla maggior parte dei presenti. La prima cosa che mi disse fu che avevo una bella cravatta azzurra, lui invece era vestito con un completo bianco e un foulard variopinto intorno al collo, portava occhiali da sole scuri e i capelli laccati tutti tirati da una parte. Mi chiese un Negroni Sbagliato. Io deglutii in preda all’ansia perché non capivo cosa intendesse. Il Negroni era sul menù, ma per quale motivo lo voleva sbagliato? Cercai di prendere tempo, ma nessuno degli altri colleghi voleva avere niente a che fare con quel tizio, e io non riuscii nemmeno a spiegare loro che avevo solo bisogno di capire che cosa volesse da me. Iniziai a sudare freddo, pensai che sarebbe bastato un errore così piccolo per farmi perdere il posto, mi osservai intorno, tra i tavoli, tra le mensole, tra gli specchi sponsorizzati dalla Martini, per cercare di capire, ma niente. La mia mente si era svuotata di tutto quello che sapevo.
Presi un bicchiere dalla mensola alle mie spalle, lo stesso tumbler basso che si usa per il Negroni originale e osservai il cliente, per cercare di capire almeno da una sua qualche espressione se stessi facendo la cosa giusta ma niente, quell’uomo era una maschera atarassica. Cercai di darmi un tono, sorridendo, mentre con la pinza da ghiaccio versavo nel bicchiere un cubetto di ghiaccio dopo l’altro, poi la fetta d’arancio. Il cliente poco rassicurante continuava ad osservarmi, come l’impressione ottica di un ritratto, che ovunque ti sposti con lo sguardo lui ti segue. E non ricordo nemmeno di avergli visto battere le palpebre una sola volta. Mi presi un paio di secondi per asciugarmi la fronte dal sudore freddo, ma tanto sentivo già la seta della camicia appiccicarsi alla pelle, per colpa di altro sudore. Riposi il fazzoletto in tasca e mi ricordai di quella notte con i miei cugini, Cristian e Mauro, ricordai che dopo essermi svuotato lo stomaco per tutto, e di tutto, quello che avevo bevuto durante la sera, dopo essermi ripulito feci lo stesso gesto. E mi ricordai di quello che avevo bevuto. Spritz. Come si usa su dalle mie parti. Ricordai quanto fosse sbagliato esagerare nel bere a quel modo. Presi un profondo respiro e cercai di tirare fuori tutta la risolutezza possibile. O la va o la spacca, pensai. Senza riflettere, solo d’istinto, versai al tempo stesso Carpano e Campari, impersonando la parte di un vero barista e infine lo completai con quel prosecco che si usava per lo Spritz.
Il singolare cliente osservò prima il sottobicchiere, poi il suo drink e infine sollevò lo sguardo su di me. Lo mescolò con un paio di giri dello stecchino che si usa per il Negroni e infine lo bevve tutto d’un fiato. Trattenni il respiro per tutto quel tempo e ripresi a inspirare soltanto quando lo posò e si alzò. Nemmeno si diresse verso la cassa, non disse una parola e lasciò così il Jamaica. Chiesi a tutti i colleghi chi potesse essere quello strano cliente e il cassiere, Emanuele, mi disse che era uno dei sottoposti del vice capo dell’ufficio politico Luigi Calabresi, ritenuto responsabile dell’omicidio dell’anarchico Giuseppe Pinelli, almeno secondo l’opinione pubblica. Non male come primo giorno di lavoro al Jamaica. Primo e ultimo a dirla tutta, perché il giorno dopo Elio mi chiamò al telefono, riferendomi che aveva ricevuto una lamentela da un cliente, che aveva bevuto il suo drink nonostante gli fosse stato preparato con il prosecco e non con uno spumante. Mi disse che gli dispiaceva ma che avrebbe assunto un altro al posto mio. Lo ringraziai comunque per il tempo concesso.
Il giorno dopo ancora dovetti prendere il primo treno per Genova, perché avevo finito tutti i soldi. Durante il viaggio pensai che forse era stato meglio così, e che se avessi saputo prima chi era il cliente misterioso mi sarei almeno tolto lo sfizio di sputargli nel bicchiere.