Erdogan alza la voce perché l’Europa non chiuda i cordoni della borsa e riconosca una safe zone per tenere a bada i curdi e mettere le mani su una bella fetta di Siria
“Safe zone in Siria o apro le porte ai rifugiati verso l’Europa”. Il monito è chiaro, il ricatto pure. Col suo consueto stile misurato, Erdogan avverte l’Ue: se non avrà mano libera in Siria se la vedrà con una nuova massa di migranti. La faccenda è anche economica: l’Unione ha sborsato ad Ankara sei miliardi di euro perché la Sublime porta s’aprisse alle torme di rifugiati fuggiti dalla guerra in Siria, in cui il neosultano ha tanta parte. Meno della metà sono stati versati, e mancano al saldo poche centinaia di milioni.
Erdogan alza la voce con un duplice obiettivo. Far sì che l’Europa non chiuda i cordoni della borsa e ottenere il riconoscimento d’una safe zone – meglio, zona cuscinetto – da ripopolare con buona parte dei tre milioni di profughi siriani, per lo più simpatizzanti islamici avversi al regime di Damasco. Un’area estesa da Jarablus al confine iracheno, 450 chilometri per una trentina di profondità, per tenere a bada i curdi e mettere definitivamente le mani su una bella fetta di Siria e le sue risorse di gas e petrolio, sottraendola all’odiato Assad e agli odiatissimi curdi.
La faccenda è anche geopolitica. L’area, occupata dalla Turchia, è pattugliata insieme alle forze d’occupazione Usa e anglofrancesi, in barba a diritto internazionale o risoluzioni Onu. Ed è utilizzata, buoni ultimi, dagli israeliani che dagli aeroporti strappati all’Isis conducono attacchi coi droni alle milizie sciite in Iraq. I russi, da parte loro, si limitano a sparacchiare di qua dal limes, tanto per mostrare i muscoli. Così Erdogan ha buon gioco nel fare la voce grossa, anche se buona parte dei profughi sono scappati altrove o non vogliono saperne del campo di concentrazione che s’apparecchia per loro, a cielo aperto. Nel risiko siriano la mano è dalla sua anche se le carte sono un bluff, checché ne dica l’Europa.
NON PERMETTIAMO CHE IL ROJAVA SI TRASFORMI IN UN’ALTRA GAZA !
Berxwedan jiyan e (“la Resistenza è vita”)
Gianni Sartori
Non vorrei dirlo (magari porta sfiga), ma il timore c’è, si insinua.
Ossia che nel nord e nell’est della Siria si compia l’ennesimo genocidio (o una serie di efferati crimini di guerra, pulizia etnica…fate voi, muta il concetto, ma rimane la sostanza). Stavolta contro i curdi e le altre “minoranze” invise alla Turchia.
Andiamo con ordine.
Almeno una trentina di combattenti sono stati complessivamente uccisi nel corso dell’ultima (per ora) offensiva sostenuta dalla Turchia (con l’impiego di aerei e droni) di domenica 8 dicembre nella regione di Manbij.
Qualche giorno prima le bande filo-turche avevano già occupato l’enclave curda di Tal Rifaat, in contemporanea con la rapida avanzata su Damasco degli islamisti di Hayat Tahrir al-Sham (HTS, versione edulcorata di Jabhat al-Nusra)
Stando a quanto comunicava l’OSDH (Osservatorio siriano dei diritti dell’Uomo, provvisto di una rete informativa in loco) “fazioni pro-turche hanno occupato diversi quartierri di Manbij dopo violenti scontri con il Consiglio militare di Manbij”. Il Consiglio (MMC), ricordo, è affiliato alle FDS (Forze Democratiche Siriane).
I feroci scontri di domenica avrebbe provocato una decina di morti nei ranghi delle bande filo-turche e una ventina in quelle del Consiglio militare.
Come già riportato, la resistenza arabo-curda avrebbe inflitto “seri colpi” ai proxi di Ankara, sia a Manbij che nella vicina città di al-Bab.
Da parte dei filo-turchi invece si sostiene (su Telegram) di aver già ”preso il controllo della città di Manbij a est di Aleppo dopo feroci battaglie”.
Diffondendo video di miliziani apparentemente già all’interno della città e altri, forse datati, di presunti combattenti del MMC fatti prigionieri (fake news ?). In realtà finora i mercenari turco-jihadisti avrebbero conquistato soltanto il villaggio di Al-Arima (dove i russi avevano costruito una base militare) alle porte di Manbij.
Altre fonti riferiscono della defezione di alcuni ex membri del MMC (arabi) che avrebbero raggiunto le linee degli occupanti turchi. Si tratterebbe di due noti leader della brigata Jund al-Haramayn (“Brigata dei soldati delle due sante moschee”): Abd al-Rahman al-Banawi e Ibrahim al-Banawi (lo stesso che nel 2014, sconfitto dall’Isis, aveva trovato rifugio con i suoi presso le YPG a Kobane, quantomeno un ingrato).
Sia chiaro a tutti: se Manbij dovesse cadere nella mani delle bande jihadiste filo-turche, si aprirebbe la strada per Kobane, la città martire che aveva sconfitto Daesh (non a sproposito talvolta definita “incubo di Erdogan”).
Questa la situazione che definire “grave” è il minimo.
Quasi che si sia compiuto un passo indietro di 14 anni. Assad è scappato, ma per i curdi non cambia molto. Circondati, attaccati dalla Turchia e dai suoi ascari da nord e da ovest, mentre a Raqqa e a Deir ez-Zor le cellule di Daesh fuoriescono dalle fogne.
Quanto alla “coalizione internazionale” a trazione USA, osserva e lascia fare…
Invece gli islamisti ex (ex ?) al-Nusra, ex (ex ?) al-Qaida etc. e ora HTC, hanno già fatto sapere che non c’è posto per l’AADNES nella formazione di un nuovo governo siriano (quello teoricamante “inclusivo” e garante dei diritti di tutte le comunità etnico-religiose). Come c’era da aspettarsi visto da chi prendono ordini e finanziamenti.
Nella serata di domenica 8 dicembre, la Turchia ha fatto ampio uso dell’aviazione in appoggio a quelle che ormai i curdi definiscono semplicemente “le bande” (i mercenari filo-turchi).
Bombardando l’edificio dell’Amministrazione Autonoma nel centro di Manbij, mentre le formazioni jihadiste avanzavano – grazie al supporto aereo e ai veicoli blindati forniti dai turchi – in corrispondenza dell’entrata sud della città. La percezione, secondo alcuni amministarori locali, è quella di trovarsi in una “sistematica operazione speciale militare”, propedeutica all’attacco su larga scala al Rojava.
Manbij di fatto rimane l’unico territorio ancora amministrato dall’AADNES a ovest dell’Eufrate. Era stato liberato dall’Isis nel 2016 per mano delle FDS e si considera la prima area autogovernata nel nord e nell’est della Siria. Attualmente tra Manbij e le località circostanti qui convivono circa mezzo milione di persone (curdi, arabi, assiri, armeni e altre “minoranze”).
Sempre l’8 dicembre, un veicolo turco da combattimento senza equipaggio (UCAV) ha bombardato la zona in prossimità del ponte Qereqozaq che unice le due sonde dell’Eufrate nel sud di Kobanê.
Un inquietante segnale premonitore di quanto potrebbe presto accadere.
Ma intanto – come già segnalato – cogliendo il nuovo clima favorevole, anche l’Isis fuoriesce dalle fogne. A Raqqa i sostenitori di Daesh (o Isis che dir si voglia) hanno imbastito addirittura una manifestazione. Alimentando tra gli abitanti il timore di dover presto ancora assistere ai violenti attacchi (con veri e propri massacri di civili) degli anni passati. D’altra parte questo è ancora il minimo, visto che l’ormai spompata “coalizione internazionale” (sorta per contrastare l’Isis) appare cieca e indifferente di fronte al fatto che la Turchia continua impunemente a colpire i curdi, prima linea nel contrasto ai fanatici islamisti.
La sconfitta eventuale dei curdi rappresenterebbe anche la sconfitta di tutti quei principi di democrazia, diritti, giustizia, libertà, coesistenza pacifica…( talvolta sbandierati magari a vanvera dai paesi democratici) di cui il Conferalismo democratico si è fatto carico in Medio oriente. L’alternativa è quella già sperimentata di ripiombare in una guerra di “tutti contro tutti”.
Del resto questo potrebbe essere l’obiettivo della Turchia (e non solo): seminare il caos, approfittare dell’incerta e disordinata situazione (a cui ha ampiamente contribuito) sabotando la ricostruzione di “un’altra Siria possibile”. Pacifica, democratica, inclusiva, rispettosa dei diritti di ogni sua componente. Dove “l’aspro rumore delle armi ceda il posto al dialogo”. Un progetto irrealizzabile senza l’attiva partecipazione dei curdi.
Come ha ribadito il CDK-F (Consiglio democratico curdo in Francia ) “l’esclusione dei curdi dai negoziati e dalle discussioni politiche rappresenterebbe un errore storico”.
Diverso, diametralmente, il punto di vista di Ankara.
Per Erdogan il rovesciamento del suo personale nemico Bachar al-Assad porta al rafforzamento del peso specifico, dell’influenza della Turchia che risulta il vero vincitore di questa rapida operazione bellica. E non solamente a livello regionale, ma per – esempio – anche nei confronti di Mosca.
Oltretutto è l’occasione per rimandare in Siria qualche milione di rifugiati (circa tre), magari insediandoli nei territori attualmente controllati dai curdi. Un piano di “sostituzione etnica” in parte già sperimentato, invasione dopo invasione, da Ankara negli ultimi anni.
Senza dimenticare l’altro invadente soggetto perennamente attivo nell’area, Israele che non è certo rimasta a guardare. Superando il confine nella zona delle Alture del Golan (occupate illegalmente dal 1967) con l’obiettivo di tornare alla linea del 1974. Occupando tutto il governatorato di Quneitra (quello della famosa “città fantasma”) ora lasciato sguarnito dall’esercito siriano allo sbando.
Gianni Sartori