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Tortura in carcere, arrestati sei agenti della penitenziaria a Torino

Tortura. Calci, pugni, minacce, umiliazioni e vessazioni. Malapolizia dietro le sbarre in un carcere torinese. Le vittime sarebbero almeno cinque

Le randellate della polizia esistono. Io lo so. Ho visto detenuti arrivare in gabbia in uno stato tale che il sorvegliante capo manifestava le sue riserve. Ho sentito uomini urlare sotto i colpi. Ma, nel 1949, il libro, anche se esaurito rapidamente, non provocò nessuna reazione tra le alte sfere. Solo coloro che avevano fatto esperienza della Giustizia potevano credermi, perché sapevano che niente di quella storia pietosa era inventato. Era un racconto genuino, crudo e distinto come un grido di rabbia.

Dal testo di sopraccoperta scritto da André Héléna per la 2a edizione del ‘52 del suo romanzo  “Gli sbirri hanno sempre ragione”

 

Dopo San Gimignano e Monza, nell’arco di pochi giorni sembra emergere quello che sarebbe un nuovo caso di presunte violenze contro detenuti ad opera di operatori della Polizia Penitenziaria. Stavolta i fatti si riferiscono al carcere di Torino, dove sono accusati di tortura i sei giovani agenti di polizia penitenziaria della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno arrestati questa mattina e finiti ai domiciliari. Il reato contestato nei loro confronti è infatti quello previsto dall’articolo 613bis del codice penale.

Calci, pugni, minacce, ma anche umiliazioni e vessazioni. Malapolizia dietro le sbarre. Le vittime sarebbero almeno cinque, gli episodi contestati commessi tra l’aprile 2017 e il novembre 2018. Secondo il racconto fatto dai detenuti agli investigatori, i poliziotti avrebbero colpito i detenuti dopo aver indossato guanti per non lasciare traccia dei colpi e in posti, come lo stomaco, dove i lividi non sono visibili. Le violenze sarebbero avvenute in stanze, corridoi, sulle scale o nei passaggi tra una sezione e l’altra, e comunque sempre lontano dalle videocamere di sorveglianza.

Difficilmente i detenuti, dopo le presunte violenze, si recavano dal medico del penitenziario per farsi medicare e anche quando questo accadeva le lesioni, secondo il loro racconto, venivano dalle vittime giustificate con finte cadute. A far scattare le indagini una segnalazione della Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Torino, che venuta a conoscenza di una presunta violenza in occasione di un colloquio con alcuni detenuti. Nelle indagini risultano anche altri agenti indagati a piede libero che, secondo l’accusa, pur non avendo materialmente partecipato alle presunte violenze, avrebbero assistito o comunque ne sarebbero stati a conoscenza. Le indagini proseguono per verificare se ci siano stati altri episodi analoghi, oltre a quelli finora denunciati.

“Nei casi come questo di Torino non resta che augurarsi che si faccia al più presto chiarezza su quanto avvenuto – dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – quello che è certo è che avevamo più volte segnalato negli scorsi mesi come il clima all’interno delle carceri stesse andando peggiorando. Come cattivi maestri al potere stessero esacerbando il linguaggio, rendendo comprensivo, se non addirittura benevolo, quell’uso e abuso di una violenza “illegale”, “arbitraria” e “rapsodica”, con il rischio che questa possa venire percepita come parte della pena stessa, nella certezza interiore dell’impunità. Un uso del linguaggio riscontrabile anche su blog informativi della polizia, con detenuti appellati come “bastardi” o nella migliore dell’ipotesi camosci, riproponendo uno slang carcerario antico, offensivo e violento” sottolinea il presidente di Antigone.

“Dopo la notizia delle presunte violenze nel carcere di San Gimignano, il senatore ed ex ministro Matteo Salvini si era recato fuori dal carcere per portare solidarietà agli agenti indagati. Avevamo sottolineato come questo fosse un tragico errore proprio per il messaggio di tolleranza e comprensione verso chi è indagato per quello che è un crimine contro l’umanità, utilizzato in molti regimi autoritari e che le democrazie avanzate devono impegnarsi a combattere”, sottolinea Patrizio Gonnella che aggiunge “non è certamente così che si fa un favore ai tanti operatori che svolgono il proprio lavoro nel rispetto del dettato costituzionale”.

“E’ proprio a questa parte significativa di operatori penitenziari, che ha una cultura democratica così radicata che non è comprimibile da un qualsiasi cattivo maestro, che bisogna ripartire per spezzare quel circolo di violenze che ha luogo negli istiuti penitenziari” aggiunge ancora Gonnella. “Da loro e dall’attività di denuncia e di presa in carico dei casi da parte della magistratura. In tal senso, lo stanno dimostrando i fatti, introdurre il reato di tortura nel codice penale è stato un passo importante per dare ai giudici tutti gli strumenti necessari ad indagare e punire i responsabili di questi crimini. Benché il testo della legge approvata non fosse il migliore possibile, avevamo sottolineato come a fare la differenza spesso non è solo la legge ma anche la cultura dei giudici che la devono utilizzare. E proprio i giudici stanno dimostrando un’importante cultura democratica”.

“E’ inoltre importante – dichiara il presidente di Antigone – che anche dall’Amministrazione penitenziaria arrivi un segnale forte. Nel caso di Torino questo sembrerebbe essere avvenuto, con gli arresti degli autori delle presunte torture che pare siano stati effettuati grazie al Nucleo Investigativo Centrale del Corpo di Polizia Penitenziaria. E’ bene però arrivi anche in altri casi (anche a livello disciplinare) come quello riguardanti le violenze nei confronti di un ex detenuto nel carcere di Lucera. Proprio in questi giorni è stata resa pubblica la sentenza e, mentre l’ex detenuto è stato condannato per aver resistito agli agenti, questi ultimi hanno usufruito della prescrizione, cosa che non ha però impedito al giudice di rilevare come nel loro comportamento ci fosse una inequivocabile responsabilità penale. Proprio in casi come questi è importante che arrivino dunque segnali forti dall’interno dell’Amministrazione, anche allo scopo di distinguere una piccola minoranza di persone che usano la violenza dalla grande maggioranza di operatori che si muovono nel solco della legalità”.

Uno dei sindacati di categoria se la prende col Dap: gli arresti dimostrerebbero «al di fuori di ogni possibile dubbio il grave stato di disorganizzazione e l’assenza di qualsiasi capacità gestionale da parte degli attuali organi centrali dell’Amministrazione Penitenziaria». La litania autoassolutoria di Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria, lascia basiti: ci sarebbero troppe attenzioni per i detenuti, nel Paese che ha visto ministri degli interni come Minniti e Salvini, e troppo poche per il personale in divisa! Il leader del sindacato, infatti accusa l’amministrazione di «non prendere atto in misura adeguata dello stato di abbandono e delle continue frustrazioni, offese e aggressioni subite ogni giorno dalle donne e dagli uomini della Polizia Penitenziaria in servizio nelle carceri italiane». Il timore dell’Osapp rispetto al reato contestato, quello di tortura, è «di un ‘effetto a catena’ che investa ogni criticità esistente nelle carceri italiane, stante l’elevatissima attenzione degli organi amministrativi e politici riguardo alle condizioni della popolazione detenuta italiana, a differenza del persistente disinteresse per l’effettiva vivibilità lavorativa delle carceri per il personale di polizia penitenziaria». «Indispensabile», per Beneduci è «l’avvicendamento urgentissimo dell’attuale Capo del Dap, Francesco Basentini», e che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede «assuma in prima persona al di là delle facili comunicazioni l’onere di una riorganizzazione integrale del sistema penitenziario oggi quanto mai inefficiente e dispendioso per la collettività anche in termini di sicurezza ed i cui disagi e le cui mancanze sono pagati principalmente sulla pelle dei 38mila poliziotti penitenziari italiani».

 

 

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