In anteprima l’editoriale del nuovo numero della rivista Zona Letteraria dedicato alla satira
di Giuseppe Ciarallo
“Il riso è un vento diabolico, che deforma il volto e rende gli uomini simili alle scimmie.” Con queste parole il monaco Jorge da Burgos si rivolge – nel film Il nome della rosa, tratto dal bellissimo romanzo di Umberto Eco – a Guglielmo da Baskerville (Bascavilla nel testo letterario), per chiarire, in seguito, il vero motivo dell’avversione per quella manifestazione così specificamente umana (“Ma le scimmie non ridono.” ribatte Guglielmo “Il riso è proprio dell’uomo.”): “Il riso uccide la paura. E senza la paura non ci può essere la fede. Senza la paura del demonio non c’è più necessità del timor di Dio!”. Ne deriva che il riso, quindi, fa paura a chi fomenta la paura.
Dunque, più che la “coscienza di sé”, caratteristica che secondo molti distingue l’essere umano dalle altre creature del mondo animale, l’elemento che rende unico l’uomo è in realtà la capacità di ridere (anche perché l’individuo del terzo millennio sembra avere meno coscienza di sé di uno scarabeo stercorario). Altra teoria interessante è quella dell’indimenticato e mai abbastanza lodato Gualtiero Schiaffino, il quale sosteneva che ciò che differenzia l’uomo da qualsiasi altro animale non è l’intelligenza, bensì la coglionaggine.
Comunque stiano le cose, l’Homo sapiens, inspiegabilmente, ride in qualsiasi situazione: ride per gioia, per spensieratezza, per cattiveria, per disperazione, per follia.
Anche nei momenti più duri e bui nella vita di un uomo, la risata (che può esplodere in qualsiasi contesto e con qualsiasi stato d’animo, non ultima la disperazione) ha la funzione di valvola di sfogo, onde evitare che quella pentola a pressione che è il nostro cervello, possa giungere a tali livelli di tensione da deflagrare poi improvvisamente.
Quando diciamo “c’è poco da ridere”, per sottolineare la gravità di una data situazione, ci riserviamo inconsciamente la possibilità di ridere, magari poco, ma di ridere. E anche nei casi estremi, quando esclamiamo gravemente “non c’è niente da ridere”, evidentemente ci stiamo rivolgendo a qualcuno che nonostante tutto, una grassa ghignata se la sta facendo.
Il riso non ha rispetto di nulla, non conosce tabù, non riconosce confini, si diffonde sorvolando indifferentemente le cose più alte e quelle meschine, le sacre e le profane.
Niente e nessuno può controllare l’esplosione liberatoria della risata, non c’è regime dittatoriale o fondamentalismo religioso che possa reprimerla o arginarne la potenza rivoluzionaria. Chiunque abbia tentato di farlo, nel passato come nel presente, è miseramente caduto nel ridicolo: le più grasse risate si fanno proprio alle spalle di chi cerca di sopprimerle.
Il riso (che non a caso abbonda in Cina oltre che sulla bocca degli sciocchi) è taoista: ha in sé potenza devastatrice (yin) e forza liberatrice (yang). La risata è anarchica: con una bella sghignazzata si può demolire un avversario (sarà una risata che vi seppellirà!) o salvare sé stessi anche nella situazione più fosca. E a proposito di riso e situazione estrema, la morte, mi piace ricordare il caso più straordinario, anche se poco conosciuto, che è quello del cosiddetto Risus Pascalis, una pratica in uso fino a qualche secolo fa in certi paesi di lingua tedesca, dove i predicatori, durante la messa del giorno di Pasqua, per esorcizzare il dolore per la morte di Cristo e preparare il passaggio della Resurrezione, incitavano i fedeli presenti nelle chiese a ridere sguaiatamente, spesso ricorrendo a pantomime oscene o raccontando storielle licenziose. La risata, dunque, come espressione di vitale forza salvifica.
Da sempre l’ironia, e la sua parente più nobile, la satira, non sono altro che elementi che il popolo assume, ad esempio durante una dittatura, per combattere il veleno del potere. Oggi, invece, nel “mondo roverso” nel quale ci tocca vivere, c’è chi ha voluto, non si comprende se consapevolmente o meno, rovesciare il concetto: i potenti raccontano a ritmo continuo barzellette, per combattere gli effetti devastanti di quella che essi ritengono una terribile malattia infettiva, e cioè la democrazia. Un nostro vecchio Presidente del Consiglio, per giustificare le sue quasi quotidiane gaffe in ogni contesto possibile e immaginabile, raccomandava ai propri seguaci di diffidare delle persone che non sanno ridere, spingendosi ad affermare, nel rivolgersi ai giovani del suo partito: diffidate di quelli che non sanno farvi ridere. Una persona con un minimo di cervello, merce che sembra essere sempre più rara in un Paese dimentico di essere stato la patria di sommi pensatori, risponderebbe che sono molto più pericolose le persone che non sanno essere serie, nemmeno quando le circostanze lo richiedono.
Già Tacito sottolineava quanto fosse terribile l’arma del ridicolo, sembra però che il potere non abbia mai appreso la lezione e non sappia dunque sottrarsi a comportamenti grotteschi e caricaturali. Come altro definire, ad esempio, quella ossessione esterofoba che durante il Ventennio faceva tradurre ogni termine straniero in un italiano per forza di cose approssimativo, che faceva cambiare (sui giornali, a futura memoria) il nome del musicista di “musica negroide” Louis Armstrong in Luigi Fortebraccio, quello del direttore d’orchestra Benny Goodman in Beniamino Bonomo e il titolo del brano jazz Saint Louis Blues in una strappalacrime versione dal titolo, però, scoppiettante La tristezza di San Luigi?
E la satira? Che ruolo ha nelle società moderne, oltre a quello di essere una spina nel fianco del Potere, costante, fastidiosa, implacabile? La satira è sì risata (curioso anagramma) che seppellisce, è sì il bambino ingenuo e coraggioso, unico tra una folla ossequiante e prona, ad avere il coraggio di urlare che il re è nudo, ma sarebbe un errore attribuirle una capacità taumaturgica in grado di sconfiggere i mali sociali. La satira è un modo per esprimere la propria rabbia, ma anche la propria impotenza, data dall’angosciosa consapevolezza di essere una rotellina assolutamente insignificante per i disegni dei poteri forti. La satira potrebbe essere incisiva se fosse in grado di scoprire e denunciare le magagne anziché limitarsi a commentare quelle già note. Altrimenti, questa somma forma d’arte rischia di essere solo una sorta di strumento psicanalitico per gli autori che, nell’illusione di incidere sulle grandi questioni, scaricano sui lettori la loro rabbia e la loro impotenza.
Riguardo a un altro tema molto dibattuto, quello dei limiti che la satira si deve imporre, mi viene in mente Daniele Luttazzi, che in una battuta (“Cristo d’un Dio – dice Scalfaro – quello zoppo d’un negro è una checca!”) infrangeva in un sol colpo le cinque tematiche tabù, sulle quali qualcuno vorrebbe fosse proibito fare satira: religione, Capo dello Stato, handicap fisici, razzismo e omosessualità. A tal proposito concordo in pieno con quanto detto da Ro Marcenaro, Maestro che di satira ne ha masticato e ne mastica ancora: “La satira un limite deve averlo: la gratuità. La satira dell’offesa personale è una finta satira. La satira che vuol far ridere ad ogni costo non è satira. Per il resto la satira non ha limiti, non ha confini, non ha educazione. La satira deve porre un’alternativa, la satira deve essere volgare nel senso pieno del termine: volgo, popolo, protesta. La satira non ha prezzo nel senso che non può (mi azzardo a dire: non deve) essere pagata. Chi paga chiede, spesso pretende. La satira è agnostica e non ha pregiudizi. La satira non è integralista, ma quando si incazza, cioè sempre, è feroce e non ha alcun timore delle conseguenze”.
In questo nuovo numero di Zona Letteraria, si parlerà di umorismo ebraico, di satira in Gran Bretagna (nel cinema, nella fotografia e nelle serie TV inglesi), di Andrea Pazienza e del disegnatore messicano Rius, di Walt Kelly e del suo Pogo, del fumetto e delle pubblicazioni negli anni caldi della rivolta studentesca e operaia (’60 e ’70), di satira e femminismo, di satira presente in letteratura (Gruppo 63, Bulgakov, Wu Ming), di canti anarchici dell’Ottocento, di satira borghese, di satira e dittatura franchista, delle canzoni di Georges Brassens e di Gianfranco Manfredi, di stand-up comedy, di politically correct e di satira nell’era digitale.
Insomma tanti modi diversi di declinare la satira, argomento la cui raffinatezza e importanza fa discutere fin dall’antichità (non dimentichiamo che la genealogia del termine viene dal latino Satura lanx, che era il vassoio ricolmo di primizie della terra, che veniva offerto agli dei nei cerimoniali), e che ancora oggi fa parlare (e litigare) di sé: il Potere a volte la tollera, spesso la detesta, la censura o cerca di inglobarla; il popolo la ama, la sente come arma di rivalsa, spesso non la comprende, la critica e vorrebbe limitarla. Ciò detto, resta aperta la fatidica domanda: “È ancora utile la satira?”
P.S. Per quanto riguarda la parte iconografica, che per scelta editoriale ha sin qui rappresentato – sempre restando attinente alla tematica individuata – un racconto a sé rispetto agli scritti, è in questo numero – e solo per questo numero – rappresentata da scatti che una sessantina di disegnatori satirici di diverse nazionalità ci hanno gentilmente inviato, e che li rappresentano insieme alle loro opere grafiche.
Hanno partecipato alla realizzazione di questo numero:
Silvia Albertazzi, Francesco Benozzo, Riccardo Burgazzi, Pat Carra, Giuseppe Ciarallo, Lido Contemori, Luigi Franchi, Luca Gavagna (per la parte grafica), Rudi Ghedini, Margherita Giacobino, David Ginsborg, Agostino Giordano, Gabriella Elina Imposti, Gianfranco Manfredi, Giovanni Marchetti, Carmine Mezzacappa, Cristina Muccioli, Moni Ovadia, Alberto Patrucco, Sergio Rotino, Alberto Sebastiani, Paolo Vachino.