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La strana disfatta di Corbyn

Regno Unito. Una strana disfatta laburista, piena di promesse

di Cristiano Dan*

In uno dei suoi indimenticabili romanzi, A jangada de pedra, del 1986 (La zattera di pietra, Feltrinelli, Milano, 1988), il grande scrittore portoghese José Saramago immaginava che la penisola iberica si staccasse dal resto dell’Europa e prendesse il mare aperto, come una zattera alla deriva nell’Oceano Atlantico, avvicinandosi ai Paesi del “sud del mondo”e lasciando al suo destino un’Europa (allora c’era la Comunità economica europea, non la UE), sempre più succube del grande capitale finanziario, sempre più inumana.

Mai più Saramago, nonostante la sua fervida fantasia, avrebbe sospettato che, trent’anni dopo, la sua idea sarebbe stata metaforicamente ripresa, e snaturata, da un certo Boris Johnson, pittoresco personaggio che quasi certamente ignora anche il nome dello scrittore portoghese. Solo che a staccarsi dall’Europa e a prendere, metaforicamente, il largo, è ora il cosiddetto Regno Unito della Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord. E per sfuggire sì ai lacciuoli di un’Unione europea sempre più ridotta a un guscio vuoto, ma per affidarsi ancor più alle leggi della giungla del capitalismo globalizzato.

Su come si concluderà la vicenda della Brexit, che ci appassionerà – si fa per dire – per almeno un altro anno, non è il caso qui di azzardare previsioni. I fattori in gioco e le variabili possibili sono tanti che sarebbe una pura perdita di tempo.

Ciò su cui invece è forse opportuno ritornare a mente fredda è su cosa è accaduto nel Regno Unito con queste elezioni e sui suoi possibili riflessi.

Intendiamoci. Non si pretende, qui, di rimettere in discussione la vittoria di Boris Johnson, né il fatto che la sconfitta del Labour Party rappresenti anche una nostra, e pesante, sconfitta. L’articolo di Fabrizio Dogliotti qui pubblicato tempestivamente a ridosso dei risultati elettorali (Un bilancio del voto in Gran Bretagna) mantiene tutta la sua validità.

Quel che ci preme tentare di chiarire sono alcuni aspetti di questa vicenda di non secondaria importanza.

In breve: a) siamo sicuri che la vittoria di Johnson sia così travolgente come apparirebbe dai commenti della stampa? b) siamo sicuri di trovarci di fronte a un sovranismo del tipo di Trump o di Salvini? c) siamo sicuri che la sconfitta del Labour sia così “storica” e catastrofica come è stata giudicata? d) siamo sicuri che la sconfitta del Labour dipenda solo dall’“impopolarità” di Jeremy Corbyn, dal suo “antiquato” e “novecentesco” programma elettorale “troppo radicale”, dal suo non pronunciarsi chiaramente né pro né contro la Brexit, da una sua presunta tolleranza verso atteggiamenti “antisemiti”? Procediamo con ordine.

La vittoria di Johnson: ovvero, come pochi voti in più si trasformano in una valanga di seggi. La “strepitosa” vittoria di Boris Johnson c’è, naturalmente, se ci limitiamo a guardare i seggi. Ne conquista 365, 48 in più rispetto al 2017. Per trovare un numero di seggi superiore dobbiamo arretrare fino al 1987, quando i Conservatori ne ottennero 376.

Ma c’è corrispondenza fra questa “strepitosa” avanzata in seggi e l’avanzata in voti? No, nient’affatto. Con 13.967.000 voti (arrotondiamo le cifre) il partito di Johnson ne guadagna 330.000 rispetto al 2017, passando dal 42,3 al 43,6 %, con un aumento percentuale dell’1,3 %. Questi 330.000 voti e questo 1,3 % in più sono sicuramente un’avanzata, non lo si può negare. Ma per niente “strepitosa”, ci sembra. Se questo tutto sommato modesto aumento regala a Johnson una maggioranza assoluta che gli consente di ridurre il parlamento inglese al silenzio lo si deve solo all’ottocentesco, questo sì, sistema elettorale inglese, quel maggioritario che tanto piace anche a tanti “progressisti” di casa nostra (Prodi, Veltroni, Gentiloni, eccetera).

Ultima considerazione. Si è delineata chiaramente nelle urne una maggioranza per il Brexit? Sicuramente, ma solo una maggioranza relativa, non assoluta. Se aggiungiamo ai voti dei Conservatori quelli degli altri partiti pro Brexit (gli “unionisti” nordirlandesi, l’UKIP e il Brexit Party),

abbiamo un totale di 14.969.000 voti e del 46,8 %, un progresso rispetto al 2017 di 359.000 voti e dell’1,5 %. Ma può essere illuminante ricordare che nel referendum sulla Brexit del 2016 i voti dei Brexiters furono ben di più: 17.411.000, con il 51,9 %.

Se le cose stanno così, come spiegare la vittoria di Johnson? Innanzi tutto col fatto, incontestabile, che dal 2017 a oggi c’è sempre stata una maggioranza relativa favorevole alla Brexit.

In secondo luogo col fatto che anche l’elettorato dei Conservatori contrario o incerto sulla Brexit è tornato in gran parte a votare per questo partito, per timore di una possibile vittoria di Corbyn (ha avuto cioè un “sano” “riflesso di classe”). I conservatori “moderati”, usciti dal partito e presentatisi come indipendenti o candidatisi con i liberaldemocratici hanno raccolto solo le briciole.

In terzo luogo perché il Brexit Party di Nigel Farage (642.000 voti e il 2%, senza seggi in queste elezioni) ha presentato propri candidati solo in 275 dei 650 collegi, invitando i propri elettori a votare per Johnson negli altri collegi (per i distratti: solo sei mesi fa, nelle elezioni europee, il Brexit Party aveva ottenuto 5.249.000 voti, andati ora quasi tutti ai conservatori).

In quarto luogo ha contato anche il fatto che la lunga e farsesca vicenda della Brexit ha spinto un certo numero di elettori a credere che il parlamento uscente stesse facendo di tutto per annullare il voto pro Brexit del referendum del 2016. Che cioè si volesse non tener conto della volontà popolare. Impressione rafforzata anche dall’improvvida uscita della leader liberaldemocratica, Jo Swinson, che aveva proposto di “annullare” l’esito di quel referendum. Una “gaffe” secondo molti commentatori, ma in realtà una presa di posizione reazionaria, costata tra l’altro alla Swinson la rielezione.

Johnson eguale a Trump? Johnson un sovranista come Salvini? Con queste elezioni il vecchio Conservative and Unionist Party ha intrapreso una mutazione genetica, tuttora in corso, che lo sgancia definitivamente dalla vecchia e tradizionale famiglia dei partiti conservatori “classici”, iniettando nel suo corpo una buona dose di nazionalismo, di sovranismo. Non per questo, però, lo si può accostare al trumpismo o ai vari nazionalismi e sovranismi europei, e tanto meno a tentazioni fascistoidi. Il fascismo nel Regno Unito non ha una significativa tradizione e tanto meno una presenza. S’è sempre trattato di un fenomeno marginale, gruppuscolare (massimo raggiunto: l’1,9 % nel 2010). Nel suo programma non v’è traccia, almeno per ora, dei temi classici delle varie estreme destre europee, come l’omofobia o il razzismo. È vero che c’è l’intenzione dichiarata di “regolamentare” l’immigrazione ma questo provvedimento viene spiegato non facendo ricorso ad argomenti di tipo xenofobo, ma “economico”, e riguarderà non solo gli “extracomunitari” ma anche i cittadini della UE. E del resto nella nuova Camera dei Comuni britannica, nella quale il 10 % dei deputati è «nero o con origini nel subcontinente indiano» (Cécile Ducourtieux, Boris Johnson et sa nuovelle génération Brexit, «Le Monde», 18 dicembre 2019), i conservatori hanno 22 deputati “etnici”, oltre a 24 dichiaratamente gay o bisessuali (18 nei laburisti). A questi dati si può attribuire più o meno importanza, ma non si può negare che rendano alquanto difficile incasellare questo partito fra gli altri movimenti o partiti nazionalisti di destra o d’estrema destra europei. E nonostante la tentazione sia forte, anche il paragone col trumpismo non può essere spinto oltre la somiglianza di certi tratti “caratteriali”: il trumpismo, per limitarci a un solo esempio, è ultraprotezionista in economia, mentre Johnson è per fare del Regno Unito il centro del nuovo capitalismo finanziario internazionale. Le cose possono rapidamente cambiare, e il partito di Johnson può evolvere nel tempo, facendo proprie posizioni ancor più retrive. Ma per il momento occorre sottolineare il fatto che il partito di Johnson non può essere combattuto sul piano “culturale” (non è omofobo, non è razzista, non è dichiaratamente antifemminista), ma su quello sociale, di classe. Proprio quello che s’era proposto Jeremy Corbyn.

Le dimensioni reali, e quelle immaginarie, della sconfitta del Labour. Che il Labour esca sconfitto da queste elezioni è d’una evidenza palmare, e non si cercherà qui di indorare la pillola. Quel che invece si cercherà di fare è di ricondurre questa sconfitta alle sue reali dimensioni, al suo reale contesto.

Cominciamo dall’aspetto più evidente, i 203 seggi ottenuti dal Labour, con una perdita di una sessantina di questi. Si tratta, a questo livello, di una sconfitta storica, senza alcun dubbio, perché occorre ridiscendere sino al lontano 1935 per imbattersi in un numero inferiore di seggi laburisti. Ma, lo si è già detto ma occorre ribadirlo, nell’ottocentesco sistema elettorale inglese non c’è alcuna corrispondenza fra il numero di seggi e il numero di voti a livello nazionale. In queste elezioni v’erano una sessantina di seggi ritenuti “in bilico”, dove cioè nel 2017 il parlamentare era stato eletto con una manciata di voti in più rispetto all’avversario. E si trattava in gran parte di seggi laburisti, conquistati con un vantaggio, rispetto ai conservatori, anche di soli 14 o 20 voti. Ci riferiamo a casi reali, non teorici.

Guardiamo questi dati. Nel 2017, con il 40 % dei voti, il Labour aveva 262 seggi, e cioè il 40,3 % dei 650 seggi che compongono la Camera dei comuni. In queste elezioni, con il 30,2 % dei voti, ha 203 seggi, e cioè il 32,2 % di quelli totali. In altre parole, il Labour ha avuto sia nel 2017 sia quest’anno esattamente i seggi che gli spetterebbe con un sistema elettorale proporzionale puro. La distorsione sta altrove. I conservatori, infatti, già nel 2017 erano stati avvantaggiati dal sistema elettorale maggioritario: col 42,3 % dei voti avevano ottenuto il 48,8 % dei seggi e ora, con il 43,6 % ne ottengono il 56,2 %. Con un incremento in voti dell’1,3% si assicurano un guadagno del 7,4 % in seggi, quanto basta e avanza per garantire loro una maggioranza assoluta parlamentare.

Questo per fare chiarezza sul carattere “storico” della sconfitta del Labour. Lo “storico” si giustifica solo e soltanto se si guarda ai seggi e non si guarda alle distorsioni grottesche provocate dal sistema elettorale maggioritario britannico, che esercita un’attrazione quasi erotica anche presso tanti studiosi e politici di casa nostra.

Quando poi passiamo dal numero dei seggi al numero degli elettori veri, in carne e ossa, la prospettiva cambia. Oggi il Labour è un partito con quasi 10.300.000 voti e il 32,2 %. Rispetto al 2017, perde oltre 2.500.000 voti e il 7,8 %. Quanto basta e avanza per parlare di una sconfitta secca, senza alcun dubbio. Ma è anche “storica”, catastrofica, terminale?

Spesso e volentieri i commentatori “progressisti” (soprattutto quelli nostalgici della Terza Via) fanno confronti fra i risultati elettorali esaltanti di Tony Blair e quelli, appunto, “catastrofici” di Jeremy Corbyn. Di solito questi confronti sono fatti in termini di seggi, che come si è qui sottolineato sino alla nausea hanno ovviamente un valore politico-istituzionale (permettono o meno di fare governi), ma ci dicono ben poco sugli umori e gli orientamenti dell’elettorato.

È comunque il caso di mettere i puntini sulle i. Tony Blair ha impresso al Labour una netta svolta a destra (o, se a qualcuno sembra eccessivo, diciamo pure al centro). Siamo a metà anni Novanta, l’avvenire appare roseo e il momento sembra quello giusto per gettare a mare tanta zavorra Old Labour, strizzando l’occhio alla City e riabilitando parzialmente la Thatcher. La svolta a destra (o al centro, se si preferisce) è un successo, come del resto accade o accadrà in quegli anni a tante socialdemocrazie europee in cerca di “modernità”. Nel 1997 Blair stravince, con il 43,2 % dei voti (curiosamente, la stessa percentuale ottenuta oggi da Johnson) e oltre 13.500.000 voti. Vincerà anche le due elezioni successive (2001 e 2005) fino a che la sua stella tramonterà del tutto, a causa anche del suo precipitarsi senza se e senza ma nella sciagurata avventura irachena.

Gli apologeti di Blair amano ricordare queste sue tre vittorie consecutive, da contrapporre alle due sconfitte consecutive di Corbyn. E come dar loro torto, se ci si ferma a questo livello? Se però si scava appena un pochino, si impongono due contro-verità.

La prima, non decisiva ma che ha comunque una sua rilevanza, è che le tre vittorie di Blair non sono affatto una successione di trionfi elettorali, ma un lento ma continuo appannarsi dell’appeal del blairismo. Che vince ancora sì in seggi nel 2001 e nel 2005, ma iniziando una netta e inequivocabile parabola discendente: dal 43,2 % del 1997 al 40,7 % nel 2001 e al 35,3 % nel 2005, con perdite di quasi 2.800.000 voti nel 2001 (più delle attuali perdite di Corbyn…) e di altri quasi 1.200.000 voti nel 2005. Se si fa la somma, circa quattro milioni di voti in fuga dal blairismo in quattro-cinque anni. Verso dove? Non essendoci credibili alternative a sinistra del Labour, a beneficiarne furono soprattutto i liberaldemocratici, che paradossalmente apparivano meno sfrenatamente neoliberisti del New Labour di Blair.

Veniamo alla seconda contro-verità. Il partito che Blair lascia in eredità ai suoi successori è un partito non solo snaturato, ma sfiduciato. Larghi strati della sua tradizionale base elettorale cominciano a non sentirsi più rappresentati. Se le politiche austeritarie dei successivi governi conservatori e la globalizzazione hanno devastato in modo particolare la cosiddetta “cintura rossa”, se la deindustrializzazione ha lacerato il tessuto operaio che qui costituiva la più solida base elettorale del Labour, il germe della sfiducia era già stato seminato a piene mani dalle politiche di Blair. Quando Gordon Brown riceve in eredità la guida del Labour, il disastro è già stato fatto. Nel 2010 il partito scende ulteriormente al 29 % e a 8.600.000 voti. Solo nel 2015, con Ed Milliband e un programma più marcatamente orientato a sinistra, risale al 30,5 % e a oltre 9.300.000 voti. Nel 2017, con Jeremy Corbyn e un’ulteriore caratterizzazione a sinistra del programma, si ha il “miracolo”: quasi 12.900.000 voti e il 40 %, insufficienti per sconfiggere i conservatori (42,3 %) ma più che sufficienti per riportare il Labour al livello raggiunto da Blair nel 2001. Tutti coloro che si sono scatenati nel dipingere Corbyn come un visionario estremista destinato a essere sconfitto hanno omesso, o dimenticato, di scrivere che proprio due anni fa Corbyn era riuscito a risollevare il Labour a livelli che (a parte il 1997 di Tony Blair, di cui s’è detto) questo partito non aveva più raggiunto dopo il 1970. Già, ma allora come si spiega questa sconfitta?

Le ragioni reali, e quelle immaginarie, della sconfitta del Labour. La stragrande maggioranza dei commentatori, anche quelli seri e non pregiudizialmente antilaburisti, spiega la sconfitta del Labour in questo modo: lo scontro era fra Brexit e anti-Brexit e il Labour, non schierandosi apertamente né da una parte né dall’altra, s’è messo fuori gioco, scontentando tutti. C’è del vero in questa analisi, qui ridotta all’osso. È del tutto evidente che segmenti di elettori più o meno consistenti hanno abbandonato il Labour per l’uno o per l’altro degli schieramenti. Ma, tanto per ragionare in astratto, cosa sarebbe successo se il Labour avesse fatto una scelta fra i due campi? Ovviamente, la fuga di un segmento di elettori contrari alla scelta fatta si sarebbe verificata lo stesso, e quasi certamente in dimensioni ancora maggiori, col risultato che l’esito finale non sarebbe poi stato molto diverso.

Ma il punto non è questo. Il punto è che il Labour non poteva, né doveva, fare una scelta sulla Brexit. Non poteva, né doveva, scegliere fra un nazionalismo anacronistico (quello dei Brexiters) e un “europeismo” che non è altro che uno “pseudo-internazionalismo” vuoto di contenuto, e per di più, nel caso britannico, esposto a tentazioni che non si possono non definire quanto meno antidemocratiche (la sorpredente proposta della leader liberaldemocratica di annullare per legge l’esito favorevole alla Brexit del referendum del 2016).

Il Labour ha fatto l’unica scelta possibile per un partito che si dice socialista. Ha cercato di riportare il discorso sulle condizioni materiali, concrete, reali, delle classi subalterne britanniche, sulle loro condizioni di vita e sui provvedimenti a suo avviso necessari per modificarli in meglio. Quanto alla Brexit, non è affatto vero che non ha fatto una scelta. L’ha fatta, eccome. Ben consapevole del fatto che nella sua base elettorale v’erano orientamenti contrapposti e ben consapevole del fatto che, ora come ora, la Brexit rappresentava un salto nel buio le cui conseguenze nessuno oggi è in grado di valutare e il restare nell’Unione europea era un salto nel noto le cui conseguenze non entusiasmanti siamo tutti in grado di valutare, il Labour ha scelto di proporre un nuovo referendum sulla Brexit, nel quale vantaggi e perdite potessero essere ben valutati.

Posizione difficile? Indubbiamente. Molto più facile dire “andiamocene”, senza spiegare dove, oppure “restiamo”, senza dire per far cosa.

Posizione difficile, che però, a quanto pare, è stata condivisa da circa un terzo degli elettori. E ciò nonostante il potente fuoco di sbarramento di Boris Johnson e gli attacchi ai fianchi dei liberaldemocratici, che hanno puntato tutto non sullo sfondamento nell’elettorato conservatore, ma sulla caccia al voto laburista, ricorrendo anche a sporchi trucchi, come le reiterate accuse di “antisemitismo” rivolte sia personalmente a Corbyn, sia al Labour nel suo complesso (tema, questo, sul quale ritorneremo dettagliatamente in un prossimo articolo).

Nonostante tutto ciò, il Labour, elettoralmente sconfitto, è riuscito, col suo programma “estremista” a farsi votare da quasi un terzo degli elettori, ripetiamolo. Forse, dirà qualcuno, con un po’ più di moderazione, con un po’ più d’attenzione al famigerato centro, sarebbe andata meglio. Come no? Basta vedere, per limitarci ai Paesi europei demograficamente paragonabili al Regno Unito, quanto una buona dose di moderazione abbia pagato nelle rispettive ultime elezioni. Spagna 2019: il PSOE ottiene il 28,7 %, con un lieve arretramento (meno 700.000 voti e meno 0,7 %) rispetto a pochi mesi prima. Italia 2018: la coalizione renziana ottiene il 22,9 %, perdendo il 6,7 %, 2 milioni e mezzo di voti e 227 seggi. Germania 2017: la SPD è al 20,5 %, con perdite del 5,2 %, di un milione e 700.000 voti e di 40 seggi. Francia 2017: il Partito socialista ottiene il 7,4 %, perdendo il 22 %, quasi sei milioni di voti e 250 seggi.

Inoltre, e per concludere su questo punto, se il programma di riforme radicali proposto da Corbyn era così lunare, come si spiega il fatto che Boris Johnson abbia sentito il bisogno di accompagnare il suo monologo sulla necessità di “completare” la Brexit con una serie di assicurazioni sul mantenimento del welfare, sulla costruzione di 50 nuovi ospedali, sull’assunzione di decine e decine di migliaia di medici e infermieri, eccetera? Mica scemo, e comunque più sveglio dei liberaldemocratici che si nutrono solo di “ideali” europeisti e pretendono che anche gli altri seguano la stessa dieta.

Per finire: un’occhiata al Labour, questo partito cosi “vecchio”, così “radicale”, così demodé. Il Labour è un partito che conta 500.000 iscritti, regolarmente certificati. Tutti vecchi barbogi? La composizione del suo gruppo parlamentare può darcene un’idea. Innanzi tutto, dei 203 parlamentari eletti 104 sono donne e 99 uomini. Non male per un partito “ottocentesco”, no? Inoltre, fra questi 203 vi sono 18 gay o bisex dichiarati e 41 “etnici”, e cioè cittadini britannici originari per la maggior parte del subcontinente indiano o black (africani o caribici). Infine, ciliegina sulla torta, sembra che il 57 % dei giovani fra i 18 e i 24 anni abbia votato Labour (Emmanuelle Avril e Pauline Schnapper, La victoire de Boris Johnson pose la question du déclin du débat public, «Le Monde», 18 dicembre 2018). Diciamoci la verità: cifre da capogiro per qualunque altro partito non solo di sinistra, ma anche di centrosinistra o di centro.

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