Giornata della memoria 2020. Charlotte Salomon: immaginate se Anna Frank avesse avuto quattro colori: il blu, il rosso, il giallo e il bianco
di Eliana Como*
Immaginate se Anna Frank, invece di una penna, avesse avuto quattro colori: il blu, il rosso, il giallo e il bianco.
È la storia di Charlotte Salomon, giovanissima pittrice tedesca di origine ebraica, morta ad Auschwitz nel 1943, a 26 anni e incinta, probabilmente il giorno stesso del suo arrivo. A differenza di Anna Frank, solo in pochi conoscono la sua storia, anche se ci ha lasciato una altrettanto potente testimonianza dei suoi due anni di esilio in Costa Azzurra, in fuga dal nazismo, prima della tragica fine in campo di concentramento. Una testimonianza che ha un valore artistico straordinario, oltre che di memoria (Leben? Oder Theater? 1943, Vita? O teatro?).
La differenza con quello di Anna Frank è che il suo è un diario per immagini. In pochi mesi, Charlotte dipinge quasi 1.000 gouaches (tecnica artistica realizzata con colori acrilici ad acqua, quasi come fossero acquarelli ma più densi e coprenti). Ha pochi colori a disposizione, quelli primari e tanto le basta a raccontare la sua vita (1)
la storia della sua famiglia, le sue paure, i suoi amori, la sua passione per l’arte (2).
Mentre inesorabilmente il nazismo avanza feroce in tutta Europa (3).
Charlotte si aggrappa disperata a quei fogli, come ci si aggrappa alla vita quando si è consapevoli della morte imminente.
A opprimerla, non è soltanto la vicenda sociale, con la repressione e le crescenti violenze contro gli ebrei, che subisce prima a scuola, poi all’Accademia di Belle Arti di Berlino e che la costringono a lasciare la Germania con i nonni materni, dopo che il padre è stato rinchiuso per alcuni mesi in un campo di lavoro.
È anche la sua vicenda personale a soffocarla. In esilio in Francia, Charlotte scopre, infatti, dal nonno materno che la madre, morta anni prima, quando lei è ancora bambina, si è suicidata, gettandosi dalla finestra (4).
Con la confessione improvvisa e brusca del nonno, esasperato e sfinito da quanto il destino gli ha riservato, il vaso che per anni ha nascosto i segreti di famiglia esplode. Così Charlotte, senza che nessuno sia più lì a consolarla e proteggerla, viene a sapere di una lunga catena di suicidi femminili nella sua famiglia materna. La zia, di cui lei stessa porta il nome, la madre e, ultima, la nonna, proprio nei giorni dell’esilio in Francia (5).
Si sente predestinata al suicidio e, così, intanto che l’Europa intera brucia tra le fiamme dell’inferno, decide di aggrapparsi alla sua unica possibilità di evasione, affidando alla pittura, in modo quasi
terapeutico, la sua salvezza.
Le gouaches di Charlotte hanno la forza e la potenza di un tratto stilistico quasi espressionista, a tratti cupo, a tratti vivace. In esse sono continuamente e sapientemente citati i grandi pittori
avanguardisti, soprattutto Van Gogh e Chagall, entrambi messi fuori legge in quegli anni dal regime nazista come ‘arte degenerata’, insieme a tutti gli espressionisti (6, 7).
Le immagini arrivano dirette, con pochi tratti essenziali e quei pochi colori. La potenza della sua pittura non ha bisogno di altro. Le parole spesso accompagnano le immagini, direttamente sul foglio (8),
come a voler riempire lo spazio oppure come didascalia, quasi come la partitura di un dramma musicale (come i Singspiel di tradizione tedesca e austriaca).
Le gouaches dedicate alla sua vita (9),
ai suoi amori (10)
e alla storia della sua famiglia (per la quale però usa pseudonimi, senza mai riferirsi a nomi reali di persone) sono intervallate dalle pagine dedicate al nazismo (11).
Anche gli avvenimenti politici più drammatici sono trattati con sobrietà e in modo essenziale. Come fosse costretta a raccontarli ma non volesse lasciarsene sopraffare.
Poco prima del rastrellamento che la porterà ad Auschwitz, insieme all’uomo che ha da poco sposato e di cui è incinta, consegna un pacco con le gouaches a un amico fidato, il dottor Moridis. Nel consegnargliele gli dice: ‘C’est toute ma vie’.
È il suo testamento, quello che le ha consentito di desiderare ancora la vita e che la renderà eterna, oltre la morte ad Auschwitz. E all’ultimo momento, ne cambia il titolo, aggiungendo due punti interrogativi alle parole che ha già scritto e disegnato nell’ultima gouache (12): Vita? O teatro?
Ci lascia, così, per sempre in sospeso, nel l’eterno dilemma tra realtà e finzione, senza sapere a cosa credere davvero, se alla vita che l’ha uccisa o all’arte che l’ha salvata.
*sindacalista Cgil. Cura su Facebook una pagina dedicata alle donne pittrici dimenticate dalla storia dell’arte, @chegenerediarte
NB: Scelgo di raccontare questa storia oggi, nel giorno della memoria, per ricordare il suo tragico destino ad Auschwitz, ma anche lei stessa. Una giovane donna pittrice, morta troppo presto e poi dimenticata dalla storia dell’arte, come tante altre donne pittrici altrettanto straordinarie.