L’Emilia resiste alle orde leghiste, i Cinque stelle no. E il Pd già chiede il conto
C’era una volta l’Emilia rossa. All’indomani delle regionali l’Emilia resta fucsia. La via Emilia è per il Pd quel che il Piave è stato per l’Italia prefascista della Grande guerra: la linea dove s’è infranta l’orda ieri austroungarica, oggi leghista. Nessuno ci avrebbe scommesso, ma è successo. L’Emilia la sfanga, resiste al citofonatore e già Zingaretti presenta il conto ai malassorti alleati, sacrificati sulla linea del Piave. Gli equilibri di governo sono destinati a mutare a stretto giro. Conte resterà in sella, ma più traballante di quanto sarebbe stato se la Lega l’avesse spuntata: in quel caso la maggioranza sarebbe stata blindata. Adesso si trascinerà con i Pentastellati destinati all’insussistenza, proni a digerire l’indigeribile, fino all’uscita di scena tra fischi e pernacchie. E tanto peggio per loro se vorranno tornare a far da sé o tra le braccia di Salvini.
Eccolo il dato politico emerso da questa doppia tornata elettorale: i Cinquestelle sono andati a morire là dov’erano nati, nell’Emilia non più rossa ma fucsia, come una balena ormai spiaggiata. L’inedito spettacolo d’un capopartito che si dimette a due giorni dalle elezioni dà il senso e la misura della pochezza dei propri dirigenti. Grillo sembrava aver trovato la quadra affidando il partito nato dal nulla, una massa di milioni d’elettori, a un gruppo dirigente in grado di succedergli. Poteva tornarsene alle sue guittate, lasciando le chiavi della gioiosa macchina pentastellata al posteggiatore di turno. I resti della sua armata dispersa vagano alla rinfusa, come nell’incipit dei Fiori blu di Quenau. La resa di Giggino, alla vigilia della rotta, è più simile alla fuga del sorcio che lascia la barca prima ch’affondi che al mutar rotta d’un oculato dirigente. Anche per lui, come per Conte, si prospetta un qualche predellino di scampo dall’armata dei dispersi.
I Pieddini, di contro, sono rinati dalle proprie ceneri, come l’Araba Fenice della leggenda, sotto l’egida del già presidente Bonaccini. Dati per spacciati e prematuramente scomparsi, hanno resistito sul Piave e s’apprestano alla controffensiva. Dalla loro hanno Zingaretti nei panni di Diaz, un capo almeno presentabile, e un banco di sardine invece dei ragazzi dell’‘89, ma difficilmente trasformeranno la sconfitta leghista nella loro Vittorio Veneto. Per la Lega è una battuta d’arresto, più che una rotta. Rispetto alle ultime regionali, prende dieci punti percentuali, quel che il Pd perde. Salvini li talloneggia da presso, farà come Mario coi Cimbri, in attesa di spacciarli dopo averle prese. A meno che la cottura a fuoco lento a cui sarà sottoposto da qui alle elezioni legislative, le sardine e le sue castronerie, non lo ricaccino nel fosso. Ma la sua è una Lega nazionale, oramai, come dimostra l’aver sbancato in Calabria.
Qui non è bastato al Pd il sacrificio dell’ottimo Callipo, re del tonno, alla sua seconda sconfitta personale dopo quella del 2010. Buoni secondi (ma primo partito, col 15%) anche qui i Democratici perdono una decina di punti. Gli stessi racimolati dalla Lega che alle scorse regionali manco s’era presentata da sola e ora raccoglie oltre il 12%, e sbanca grazie alla candidata di Forza Italia. La bella Jole torna a ungere il Cavaliere, dato per spacciato ma redivivo pur’esso. Insomma, la corsa del citofonatore rallenta, ma il quadro è tutt’altro che chiaro e la sconfitta risolutiva. Niente più che una battuta d’arresto, la sua, sulla via del ritorno a Montecitorio. Ma tre anni sono lunghi, nel Belpaese. Mettersi la kippà oltre che baciar crocefissi, darsi una ripulita e genuflettersi a Bankeuropa può non bastare a Salvini per farne un capo, oltre che un capitone. Soprattutto col Pd risorto, nei cuori dell’Europa che conta e della piazza che spiazza. Aspettando il primo congresso nazionale delle sardine a Scampìa chi ha più filo tesserà la tela, per dirla col povero Nenni.