Fino al 29 marzo la mostra “Il secondo principio di un artista chiamato Banksy” al Sottoporticato di Palazzo Ducale a Genova
“Banksy c’est Moi…” In fondo potrebbe dirlo benissimo – parafrasando Marcel Proust – ognuno di noi. Perché nessuno sa chi è, nessuno lo ha mai visto, nessuno conosce il suo viso, né circolano foto che lo ritraggano. Uno nessuno e centomila, tanto per rimanere nel campo delle citazioni letterarie. E allora potrebbe essere benissimo anche uno dei visitatori della mostra Il secondo principio di un artista chiamato Bansky che Palazzo Ducale di Genova gli dedica negli spazi del Sottoporticato fino al 29 marzo. Proprio lui, magari venuto a mischiarsi al suo folto pubblico così, per vedere l’effetto che fa.
Conosciuto da tutti eppure per tutti un fantasma, il cui volto rimane celato dietro a una serie di maschere. Una metafora dell’invisibilità della soggettività sociale che – dal Subcomandante Marcos della Selva Lacandona alla fisionomia di Guy Fawkes portata a notorietà dal film V per Vendetta, fino al ghigno dell’ultimo Joker dipinto sulle facce dei manifestanti di Hong Kong e Santiago del Cile – si è ormai fatta pratica di viralità mediale come unica condizione di agibilità politica. Condizione preziosa e ancor più necessaria per chi, come i writer, pratica un’attività artistica illegale, catalogata come vandalismo e severamente sanzionata dalle autorità giudiziarie e dalle amministrazioni locali. Salvo finire, come è successo a lui, nell’olimpo dell’arte con la “A” maiuscola. Che poi la sua tecnica a stencil è tutta un gesto seriale di spruzzar vernice di bombolette su sagome prestampate. Proprio quel genere di cose che fanno dire: “son capaci tutti così!”. E allora provateci un po’ voi, nell’era della visibilità liquida democratizzata dei social media, a diventare il più grande artista globale vivente. Semplicemente sottraendo sé stesso. Escapismo radicale come strategia di comunicazione: fare il vuoto dove tutti si aspettano un (troppo)pieno. O meglio, fare di sé stessi niente altro che la traccia (luminosa) del proprio movimento di assentazione. Niente di meno che il Budo delle arti marziali orientali applicato all’arte (e alla comunicazione) contemporanea.
E ancora: quotatissimo eppure ostinatamente contrario al mercato dell’arte, ai suoi meccanismi e ai suoi riti. Incluse le mostre. Inclusa, è bene saperlo, pure questa. Anche se poi i curatori assicurano di essere in contatto con lui e di averlo informato dell’operazione, che lui non avvalla ma non ostacola neanche, in quel suo modo paradossale che fa dell’ambiguità la specificità di un agire comunicativo che afferma solo negando. Perché, nelle sue stesse parole “Se vuoi dire qualcosa e vuoi che la gente ti ascolti, allora indossa una maschera. Se vuoi dire la verità, allora devi mentire”.
Contraddizioni di un artista che di contraddizioni si nutre e che è riuscito a diventare il punto cieco intorno al quale è organizzato tutto il sistema della visione collettiva globale. A lui e suoi paradossi, lucidi e azzeccatissimi, rende omaggio l’esposizione a cura di Gianluca Marziani, Stefano Antonelli e Acoris Andipa. Un centinaio i pezzi originali dell’artista britannico, comprese oltre trenta serigrafie originali. Ci sono i dipinti a mano libera del primissimo periodo, esito della scoperta di Blek le Rat e del suo uso dello stencil. Ci sono le serigrafie che Banksy considera artigianato seriale per diffondere i suoi messaggi. Ci sono oggetti esito dell’incontro con artisti come Brad Downey, e altri oggetti di Dismaland, il luogo distopico, tutto ispirato al sogno/incubo americano dal quale proviene la scultura Mickey Snake, con Topolino inghiottito tutto intero dalla pancia di un pitone. O il ritratto di Winston Chuchill con la cresta punk. E poi la famosissima Ballon Girl, la ragazza col palloncino rosso che le scappa via di mano, Devolved Parliament, l’Assemblea legislativa britannica popolata di scimmie del 2009, anticipazione profetica di un Regno Unito che si è tuffato a occhi chiusi nel salto nel vuoto della Brexit. O Umbrella Girl, la ragazza che non riesce a ripararsi dalla pioggia perché piove dentro e non fuori l’ombrello, apparsa su un muro di Venezia proprio nei giorni della grande acqua alta di quest’autunno. E ancora, Kissing Coppers, i due poliziotti che si baciano teneramente, o Mickey Mouse e il clown di McDonald’s che tengono per mano Napalm Girl, la ragazzina che fugge piangendo ustionata nello scatto di Nick Út, divenuto un’icona della guerra del Vietnam. E poi diversi pezzi numerati, artigianali o industriali, molti certificati e altri solo attribuiti, che raccontano un artista senza confini linguistici e sperimentali. Che molto deve alla lezione warholiana ma imparata e poi corretta, rimasticata e sputata, con attitudine molto punk, su un muro qualsiasi. A completamento di un percorso espositivo imponente anche alcune mappe grafiche che raccordano informazioni, tracce, depistaggi, operazioni nascoste. E infine un’utile infografica sulla cronologia dell’artista, oltre ai 3 black books, diversi poster da collezione, le banconote Banksy of England, alcune t-shirt rarissime, le copertine di vinile e una selezione di video. Il tutto descrive i contorni di un immaginario semplice ma non elementare, perfetto per tempi e modi di produzione, confezionato per la comunicazione di massa molecolarizzata al tempo dei social. Un nucleo di messaggi immediati che si misurano coi temi del capitalismo, della guerra, del controllo sociale e della libertà in senso esteso. E che affilano le armi della critica verso un nemico che è diventato un Leviatano ubiquo, che non è più possibile affrontare frontalmente. Perché forse un altro mondo non sembra più possibile e, nelle sue stesse parole, “non possiamo fare nulla per cambiare il mondo fino a quando il capitalismo non si sgretolerà. Nel frattempo dovremmo tutti andare a fare shopping per consolarci.” Amen, così sia.