I radicali hanno fatto ricorso contro la delibera capitolina sull’affidamento all’Atac ma per il Tar non ne hanno legittimità
Non si ferma la strenua lotta dei radicali per regalare ai privati il piatto ricco del trasporto pubblico locale. Però non sempre gli va dritta. E’ stato dichiarato “inammissibile per difetto di legittimazione dei ricorrenti” il ricorso con il quale il deputato Radicale, Riccardo Magi, e il consigliere regionale Radicale, Alessandro Capriccioli (entrambi quali rappresentanti del Comitato promotore ‘Mobilitiamo Roma’, disertato dalla stragrande maggioranza dei cittadini), impugnavano la delibera dell’Assemblea capitolina del gennaio 2018 recante la “Proroga dell’affidamento alla società Atac del servizio di trasporto pubblico locale di superficie, del servizio di gestione della rete delle rivendite e di commercializzazione dei titoli di viaggio, nonché del servizio di esazione e di controllo dei titoli di viaggio relativi alle linee della rete periferica esternalizzata” per il periodo 4 dicembre 2019-3 dicembre 2021. L’ha deciso con sentenza il Tar del Lazio. Accanto a Magi e Capriccioli, nella qualità di ricorrenti, figuravano anche l’Associazione Aduc Lazio e l’Associazione Primo Consumo.
Si erano rivolti ai giudici, assumendo – ne dà conto il Tar in sentenza – di essere direttamente colpiti dal provvedimento “nella loro qualità di promotori della proposta di consultazione referendaria e di associazioni per la tutela dei consumatori e sostenitori della stessa”; consultazione referendaria sul destino di Atac che si è svolta nel novembre 2018.
Per i giudici è “evidente che nel caso di specie non ricorrono in capo a nessuno dei ricorrenti i presupposti perché possa essere loro riconosciuta la legittimazione a agire”. Una volta espletata la consultazione referendari, infatti, “non sussiste più alcuna legittimazione degli odierni ricorrenti a impugnare la delibera di Roma Capitale che ha disposto la proroga dell’affidamento alla società Atac. del servizio di trasporto pubblico locale di superficie e delle ulteriori attività connesse, non trovandosi gli stessi in una situazione differenziata rispetto al resto della collettività e non potendosi loro riconoscere l’effettiva attitudine a rappresentare una determinata categoria organizzata, cioè vale a dire a renderli enti esponenziali di interessi collettivi di un gruppo non occasionale”.
La corazzata delle privatizzazioni ha potuto, nel novembre del 18, contare su testimonial d’eccezione – da Walter Tocci a Carlo Verdone – e sui giornali “per bene”, anche quelli che si danno un tono di sinistra ma poi “pompano” le grandi opere e il jobs act, ma quelli che furono il refrain degli anni ’80, “più mercato meno stato” oppure “privato è bello”, su una città stremata dalla crisi non fanno più presa. E non avrebbero mai fatto presa se le privatizzazioni fossero state oggetto di un vero debat public e non imposte dall’alto sulla scorta di un altro ritornello: “è l’Europa che ce lo chiede”.
Il referendum sulla privatizzazione di Atac era un inganno, spacciava la privatizzazione per liberalizzazione e ha fatto leva su un elemento reale: sul degrado in cui il definanziamento del fondo nazionale trasporti e le gestioni corrotte e clientelari hanno ridotto il servizio di tpl della Capitale. Anche oggi, mentre scriviamo, la linea Termini-Centocelle è bloccata per la mancanza di personale.
Uno degli ingredienti dell’inganno è che chi ha imposto definaziamento e clientelismo sono proprio i fautori delle privatizzazioni e di quei processi del neoliberismo che hanno frantumato le nostre vite, emarginato le periferie, governato costruendo meccanismi di colpa (sulla questione del debito), repressione e paura (il razzismo come collante). La città conosce già l’inganno della privatizzazione, voluta dalla giunta di centrosinistra Rutelli, delle linee periferiche e più di tutti lo sanno i lavoratori del consorzio Tpl pagati meno e a singhozzo.
Ma se un merito ce l’ha l’incursione dei radicali, truppe d’assalto del Pd per la guerra santa del liberismo, è quello di averci fatto ragionare su che città siamo diventati, di che tipo di trasporto pubblico ci sarebbe bisogno e, dunque, di cosa potrebbe diventare questa città se fosse capace di democrazia partecipata.
Questo ragionamento avrebbe potuto proseguire, all’indomani dello scampato pericolo, per costruire un’alleanza di lavoratori e cittadini per rivendicare che Atac e tutte le partecipate diventino aziende speciali pubbliche, per rivendicare una gestione partecipata e un audit pubblico sul debito perché il debito illegittimo è uno degli strumenti per imporre l’austerità, comprimere i diritti, trasformare i servizi in merce e trasferire la ricchezza verso l’alto. Così non è stato, o non ancora.
La consapevolezza sempre più diffusa per una giustizia climatica rende ancora urgente la costruzione di quell’alleanza. Proprio ieri Legambiente ha presentato l’annuale rapporto Pendolaria, a dieci anni dall’entrata in funzione delle linee ad alta velocità con l’Italia spaccata in due, con il Sud in emergenza. In Campania, per esempio, tornano a calare i passeggeri, passando dai 467 mila del 2011 a 262 mila, nonostante negli ultimi anni il trend fosse in miglioramento. In negativo anche i dati in Molise (-11% e la Termoli-Campobasso chiusa), in Umbria e soprattutto in Basilicata (-34%). Nel Paese i numeri sono in aumento, sia per i treni a lunga percorrenza, sia per i regionali e le linee metropolitane. Cinque milioni e 699 mila persone prendono ogni giorno in Italia treni regionali (+1,6% nel 2018 rispetto all’anno precedente) e metropolitana (+2,4%). I passeggeri che usufruiscono del servizio regionale sono 2 milioni 919 mila, di cui 1,413 milioni utilizzano i convogli di Trenitalia e 1,506 milioni quelli degli altri 20 concessionari. L’aumento passeggeri sui regionali, dal 2010, è stato dell’8,2%. In 10 anni il bilancio dell’alta velocità è imponente: 74 nel 2008, 144 nel 2019. I passeggeri trasportati sui treni Av di Trenitalia sono passati dai 6,5 milioni del 2008 a 40 milioni nel 2018, con un aumento del 517%. Per il vicepresidente di Legambiente, Edoardo Zanchini, «l’obiettivo è raddoppiare il numero di viaggiatori giornalieri sui treni regionali e metropolitane, dagli attuali 5,7 a 10 milioni». Per i pendolari ci saranno più treni (attualmente quelli in servizio nelle regioni sono 2.894, gestiti dai diversi concessionari (Trenitalia, Trenord, Cti, Atac, etc.). L’età media dei convogli sulla rete ferroviaria regionale sta calando (in particolare al Nord) arrivando a 15,4 anni. I più vecchi sono in tre regioni del Sud: Puglia, Basilicata e Campania (19,7 anni), seguiti da Sicilia (19,1) e Calabria (18,9), a pari merito con l’Umbria. La Provincia di Bolzano ha i treni più giovani, 8,8 anni. Nelle aree urbane spicca il maggior ritardo rispetto ai Paesi europei. Le linee metropolitane si fermano a 247,2 chilometri (nelle 7 città che le ospitano, dove vivono 15 milioni di persone), lontano dai valori del Regno Unito (672 km), della Germania (649,8) e della Spagna (609,7). Il totale di chilometri di metropolitane italiane è inferiore o uguale a quello di città come Madrid (291,3 km), Londra (464,2 km) o Parigi (221,5 km). Drammatica è la situazione al Sud, dove i treni sono vecchi (età media 19,3 anni rispetto ai 12,5 anni al Nord) e pochi (sono stati addirittura ridotti gli intercity e i regionali negli ultimi dieci anni) e viaggiano su linee in larga parte a binario unico e non elettrificate.