Coronavirus. Perché, per capire quello che sta accadendo in Italia, “Morte a Venezia” di Thomas Mann è più utile del Decamerone o dei Promessi sposi
Due settimane fa ho inviato una e-mail da Roma, dove mi ero goduto un semestre sabbatico di ricerca e di scrittura, a un’amica cinese che vive in una di quelle piccole città di cinque o sei milioni di abitanti, molto lontana da Wuhan, l’epicentro originario dell’epidemia di coronavirus. Nella mia nota ho detto che ero certo che fosse al sicuro lontano dalla crisi attuale, ma che, comunque, pensavo a lei e le rivolgevo i miei più calorosi auguri. Mi ha risposto educatamente che era contenta che stessi vivendo un anno sabbatico così bello. Per quanto riguarda lei, invece, sebbene fosse in buona salute, la sua vita e quella di tutti quelli che le stavano intorno erano in subbuglio. Le strade della sua città erano vuote; i luoghi di lavoro erano tutti chiusi; lei e la sua famiglia erano confinate a casa; uno di loro al giorno poteva ricevere il permesso di uscire, mascherato, per fare acquisti di cibo e provviste; tutti vivevano nella paura. Ero adeguatamente imbarazzato dalla ridicola spensieratezza della mia e-mail, ma all’epoca non avevo compreso appieno l’entità della mia stupidità.
Ora lo capisco, grazie agli eventi che si stanno verificando in Italia. Le prime notizie di un’epidemia, in alcuni paesi del nord del Paese, erano abbastanza allarmanti, ma restavano notizie che arrivavano da lontano. Con una rapidità sorprendente, la situazione è peggiorata: in rapida successione, intere comunità sono state messe in quarantena; scuole e chiese hanno chiuso i battenti; musei, gallerie e palazzi sono stati chiusi; i concerti sono stati cancellati. Se qualcuno non si fosse già reso conto della gravità della situazione, due ulteriori eventi hanno reso la situazione ancora più evidente: sezioni della Settimana della Moda di Milano, il fiore all’occhiello di uno dei più grandi successi economici italiani, sono state chiuse al pubblico, e, cosa ancora più inquietante, la partita di calcio tra l’Inter e un rivale si è giocata davanti a uno stadio stranamente vuoto. Come ogni italiano sa, il calcio, molto più che la religione, è sacro; negare l’accesso dei tifosi alla partita è stato un segnale ancora più drastico che chiudere temporaneamente il Duomo di Milano ai turisti e ai fedeli.
A Roma il virus non era ancora comparso, e i segnali di allarme sono stati molto pochi, a parte il disinfettante per le mani. Ma, man mano che si accumulavano i continui servizi sui giornali e in televisione, l’umore cambiava. Le notizie dal nord, cominciammo a dirci, assomigliavano al tonfo delle granate d’artiglieria che esplodevano in una battaglia da qualche parte oltre le montagne, lontane dalla vista ma non più così lontane da essere impercettibili. E poi costantemente il nemico si spostava attraverso la Lombardia e il Veneto e a sud verso la Toscana e l’Umbria. Dove erano i nostri difensori? Se volevamo continuare la metafora militare, dovevamo ammettere che Venezia era gravemente minacciata, poi Bergamo, poi Firenze. Roma sarebbe presto caduta.
Ma, mentre le nostre conversazioni sul virus continuavano – ed era sempre più impossibile parlare d’altro – l’immagine di un esercito in avvicinamento lasciava il posto ad altri tentativi di capire cosa stava succedendo. Naturalmente, anche sulla stampa mainstream, non finivano gli articoli epidemiologici, spesso molto seri e dettagliati, scritti da esperti, e le liste di consigli familiari: lavarsi le mani, non toccare il viso, pulire tutte le superfici, continuare a lavarsi le mani, allontanarsi da chi tossisce, evitare la folla, cercare di stare ad almeno un metro di distanza da tutti gli altri. Ma, malgrado la mole di informazioni – e ne abbiamo consumato una grande quantità in pochi giorni – in situazioni di stress, è, come al solito, la letteratura che offre i modi più potenti per cogliere ciò che sta accadendo o che potrebbe accadere, non in senso biologico preciso ma nel suo svolgimento narrativo. Così le nostre conversazioni si sono rivolte alla “Cecità” di Saramago, alla “Peste” di Camus, al “Diario dell’anno della peste” di Defoe, ai “Promessi sposi” di Manzoni e, soprattutto – la più grande di queste rappresentazioni fittizie – al capitolo iniziale del “Decamerone” di Boccaccio.
Il problema è che, per quanto brillanti siano questi racconti, essi raffigurano culture in preda a malattie epidemiche come il collasso nel caos, la violenza e la rottura dei legami sociali. Ma questo non è affatto ciò di cui si leggeva sui giornali o che si viveva in prima persona. In Cina, se i conti sono esatti, c’è qualcosa di simile al contrario: una straordinaria intensificazione dell’ordine sociale, rappresentata nel software con cui il governo segue la salute e i movimenti di molti cittadini. In Italia non c’è stata un’intensificazione paragonabile – a parte la tecnologia, tale controllo è del tutto estraneo al carattere nazionale – ma piuttosto la presenza marcata del calore e della gentilezza che rendono la vita quotidiana qui così piacevole, nonostante le famigerate disfunzioni politiche del Paese. È come se le persone sentissero istintivamente, anche quando i loro livelli di ansia aumentano e la loro economia affonda, che la loro versione dell’ordine sociale si basa sul buon umore, sulla pazienza, sull’inventiva e sulla flessibilità. Madre e figlio che gestiscono il chiosco di frutta e verdura al mercato all’aperto, il genio locale che inventa gusti di gelato del tutto improbabili, il commesso della vicina palestra che in qualche modo si è ricordato (o ha fatto finta di ricordarsi) che avevo un’iscrizione temporanea quattro anni fa e ha rinunciato alla quota di iscrizione – tutti sembrano, sotto la pressione della crisi, trattenere in qualche modo la loro innata dolcezza.
È una narrazione diversa – e un modello letterario diverso – che aiuta a spiegare perché sto scrivendo questi paragrafi non a Roma, ma su un aereo di ritorno negli Stati Uniti. Vivendo in cima a un’alta collina, in un quartiere non frequentato dai turisti, all’inizio non avevo notato nulla di strano, ma poi ho camminato per il centro storico, e mi ha colpito: nelle ultime settimane, con la diffusione del virus, la città si è svuotata. La folla in fila per entrare nel Colosseo o per visitare il Foro si è assottigliata; la folla che lanciava monete nella Fontana di Trevi o che si arrampicava sulla scalinata di Piazza di Spagna è quasi scomparsa; i ristoranti e i bar, di solito traboccanti di avventori, sono quasi vuoti. È consuetudine, naturalmente, lamentarsi del fenomeno del turismo di massa in Italia; anche i turisti stessi brontolano e sognano (come me) quanto sarebbe bello visitare la Cappella Sistina in solitario splendore. Ma l’effetto reale dello svuotamento, almeno per il motivo attuale, è terrificante. Tre sere fa, andando a cena a casa di un amico alle 20, abbiamo passeggiato per Piazza Navona, la più bella piazza del mondo, e siamo rimasti completamente soli.
Il modello letterario qui non è il “Decamerone”, con i portantini che portano tavole ammucchiate in alto con cadaveri e sopravvissuti divisi tra l’isolamento in case chiuse e l’indulgere in eccessi tumultuosi. È invece “Morte a Venezia” di Thomas Mann, con l’eroe condannato, follemente innamorato del bel ragazzo, che non si accorge che tutti gli altri ospiti dell’albergo sono fuggiti dall’epidemia di colera. Naturalmente, gli abitanti del luogo che gestiscono l’hotel non fuggono, è la loro città, e non hanno altra scelta se non quella di rimanere. Ma il povero Aschenbach avrebbe potuto tornare a casa. Forse la peste l’avrebbe seguito lì, ma almeno avrebbe ripreso il suo mondo, come sto per fare io quando atterrerà il mio aereo.