Così vicino, così lontano. Nel Canton Ticino ancora nessuna misura restrittiva e scuole aperte. E ogni giorno 70mila frontalieri dalla Lombardia
da Lugano, Eliseo Martini
C’è un luogo in Europa dove i casi di Coronavirus salgono a vista d’occhio, nel quale però le autorità sanitarie ancora si rifiutano di prendere misure restrittive come la chiusura delle scuole, dei luoghi pubblici e di imporre limitazioni al movimento dei cittadini.
Questo luogo è il piccolo Canton Ticino, al confine con la Lombardia, regione periferica della Svizzera che conta circa 350.000 abitanti e che registra ogni giorno il movimento pendolare di 70mila frontalieri che arrivano dalla Lombardia per lavorare e che tornano a casa la sera.
L’aplomb ticinese di fronte alla diffusione del virus – sicuramente arrivato nella regione dalla Lombardia – risulta ancor più stupefacente se si considera che nel cantone (il corrispettivo di una provincia italiana) ad oggi, 9 marzo 2020, i contagiati sono saliti a 68: questo vuol dire che la proporzione è di un contagiato ogni 5.200 persone circa, più o meno la stessa che si registra in provincia di Reggio Emilia (un contagio ogni 5.173 persone), considerata zona rossa e sottoposta a ben altro regime.
Mentre lì sono vietati spostamenti in entrata e in uscita ed è prevista la chiusura di luoghi pubblici come strutture sportive e musei, nel Canton Ticino per il momento nessuna di queste misure è stata presa. L’unica indicazione ad oggi delle autorità è stata quella di vietare le manifestazioni pubbliche e private con più di 150 persone.
Fa discutere in particolare la decisione di tenere aperte le scuole: secondo il direttore della Divisione della salute pubblica del Cantone Paolo Bianchi,
«Quando i bambini non vanno a lezione, vanno accuditi, ci vogliono forme alternative. Ad occuparsene, spesso, sono i nonni, che potrebbero in caso di contagio essere più a rischio; oppure una mamma che si occupa di più bambini. Si tratta di opzioni che in verità aumentano il rischio di diffusione rispetto all’andare a scuola.» (Corriere del Ticino, 27.02.2020)
Il medico cantonale Giorgio Merlani (incaricato di vigilare sugli operatori e sulle strutture sanitarie) ha invece sostenuto come “La chiusura delle scuole è una misura da usare al momento giusto. Non è chiudendole adesso, senza sapere quando le riapriremmo, che possiamo fermare la diffusione. Quando ci sarà un’impennata forse ci sarà una chiusura, per rallentare la diffusione.” (La Regione, 8.03.2020)
D’altra parte anche gli esperti del comitato tecnico scientifico nominato da Conte hanno fatto notare alla vigilia della chiusura delle scuole in Italia che c’è una limitata evidenza scientifica sull’efficacia di una misura del genere.
E proprio ieri
è arrivata la notizia di un primo caso di contagio in un asilo nido ticinese, dove una maestra è stata trovata positiva al virus: la struttura – hanno annunciato i responsabili – resterà comunque aperta.
Il governo ticinese, dotato per la struttura federalista della Svizzera di ampi poteri, va dunque avanti per la sua strada e ha addirittura deciso di diminuire il periodo di quarantena da 14 a cinque giorni perché – come ha spiegato il medico cantonale Merlani – “le osservazioni sul campo permettono di stabilire che questo lasso di tempo è sufficiente per verificare l’esistenza di un contagio tra i contatti stretti” (La Regione, 8.03.2020).
L’altro tema spinoso al centro del dibattito di questi giorni nel Canton Ticino è la necessità di chiudere o meno le frontiere ai 70mila frontalieri che ogni giorno si recano al lavoro nelle aziende della regione. Una forza politica come la “Lega dei ticinesi” ha fatto della battaglia contro i lavoratori italiani la sua più potente arma politica, all’improvviso spuntata dalla minaccia molto reale di un crollo dell’economia locale se le sbarre in dogana venissero abbassate.
Il decreto del governo Conte che ha imposto nuove restrizioni fino al 3 aprile per la Lombardia e 14 Province del nord ha fatto sudare freddo gli imprenditori ticinesi, preoccupati che questo potesse significare l’arresto delle loro attività economiche e che il provvedimento avrebbe messo in crisi anche tutto il settore della sanità, dove medici e infermieri italiani sono la maggioranza.
Questa prospettiva da incubo per l’economia e la società ticinesi è poi rientrata grazie alle precisazioni giunte dopo la diffusione del decreto: i frontalieri sono esonerati dalla limitazione di movimento imposte alla Lombardia e potranno continuare a recarsi al lavoro in Svizzera.
A loro però viene chiesto di tenere a portata di mano il permesso di lavoro, in modo da poter legittimare il proprio viaggio in Ticino davanti alle Guardie di confine o alla Polizia cantonale.
Dal mondo imprenditoriale era arrivata anche la proposta di ospitare i frontalieri in strutture ad hoc messe a disposizione sul territorio cantonale. Ma certe cose non cambiano, anche di fronte al Coronavirus: le autorità cantonali non hanno previsto deroghe alla regola che impone ai lavoratori italiani il rientro settimanale in Italia.
La strategia adottata dal Canton Ticino per limitare la diffusione del virus pare essere dunque molto diversa da quella adottata nella vicina Lombardia.
Il quotidiano “Il Giorno” rendeva così il senso di straniamento indotto da scelte che paiono opposte, in particolare per quanto riguarda la chiusura delle scuole:
“La scuola media di Chiasso che dista solo 5 km dalla Ugo Foscolo di Como; oppure la media di Stabio, distante poco meno di 2 km da quella di Clivio, sulla sponda varesina del valico italo-svizzero. Così vicini eppure così lontani.”
Vedremo se e come il Ticino manterrà questo approccio low profile, ma soprattutto – finita l’emergenza – il caso di questo territorio “così vicino, così lontano” fornirà un’interessante prova a contrario della reale efficacia delle restrizioni di movimento e della chiusura delle scuole, decise in Italia per arginare la diffusione del virus e che tanto stanno facendo discutere in questi giorni.