Nicoletta Dosio da stasera ai domiciliari ma alle Vallette e nell’universo carcerario la situazione resta esplosiva per il rischio di contagio e di abusi
«Nicoletta è uscita poco fa dal carcere delle Vallette per andare a scontare l’ingiusta pena ai domiciliar per le misure introdotte con l’emergenza Corona Virus. Gli sono stati concessi i domiciliari con il massimo delle restrizioni possibili, compreso l’ingiusto divieto di comunicare!». L’annuncio sul sito del movimento NoTav che, a sua volta, ha appreso dal marito di Nicoletta, Silvano, che la situazione alle Vallette è pesantissima: «Invece che scarcerare, al contrario continuano a tradurre in carcere persone, anche con la febbre».
E’ dimagrita, Nicoletta, e molto «perchè mangiare in carcere è difficile per tutte, ma è orgogliosa delle sue compagne di detenzione che si sono sostenute a vicenda in questo periodo e uscire da sola le crea rabbia. Rabbia per persone a cui hanno concesso le videochiamate al posto dei colloqui, ma è un diritto mai esercitato dalle tante che non hanno parenti con uno smartphone o anziani non capaci di utilizzare la tecnologia».
In tutti i messaggi che l’attivista No Tav ha lanciato dalla sua detenzione ha sempre detto che «Il carcere è un luogo dove la normalità non esiste per chi fa la guardia, anzi l’arroganza è l’unica vera normalità. L’indulto e l’amnistia sono assolutamente necessari!». Le medesime parole d’ordine delle rivolte scoppiate dall’8 marzo a partire dal carcere di Modena, poi in 49 istituti penali, dalla consapevolezza dei detenuti dell’impossibilità di applicare le cautele antivirus in prigioni fatiscenti e sovraffollate.
Nel giro di poche ore ci sono stati 13 morti fra i detenuti. Per trovare un precedente bisogna riavvolgere il nastro fino al 1989, quando, il 3 giugno, l’incendio nella sezione femminile del carcere torinese delle Vallette uccise 9 recluse e 2 vigilatrici. All’epoca furono subito chiare le cause, i media garantirono una copertura adeguata, si arrivò a un processo penale. Oggi colpisce l’opacità burocratica, mediatica e politica. Se non fosse stato per l’Associazione Yairaiha Onlus che, nel suo profilo Facebook il 19 marzo (dieci giorni dopo i fatti), ha deciso di pubblicare i nomi dei tredici morti, la cappa di silenzio e di “omertà istituzionale” avrebbe già insabbiato tutto. Undici delle persone decedute erano straniere, a uno mancavano solo alcune settimane per uscire.
Intanto, dalle galere continuano ad arrivare segnalazioni di vendette più o meno sadiche contro i protagonisti delle rivolte, trasferiti in carceri spesso irraggiungibili per i familiari, e esclusi da eventuali benefici dal recente decreto di Conte. Antigone e Acad hanno riferito di aver raccolto denunce di brutali pestaggi di massa che avrebbero coinvolto, ad esempio a Milano Opera, anche persone anziane e malati oncologici, con mascelle, setti nasali e braccia rotte.
Solo il 20 marzo Dosio aveva scritto denunciando il disinteresse dell’amministrazione per la condizione delle persone detenute. «Per accedere alle misure sostitutive della galera, si dovrebbe compilare un modulo che non è ancora disponibile (anche se preannunciato e atteso con impazienza). Tale possibilità riguarda comunque una minima parte dei detenuti e non si annuncia immediata, nonché sarebbe subordinata alla lista di braccialetti elettronici. Oggi sui giornali è comparsa la notizia di due agenti delle Vallette contagiati. Di questo, da dentro, non ci arrivano né conferme né smentite. Sulla situazione delle prigioni pesano il silenzio e il disinteresse generale. Lo stesso quotidiano che riferisce degli agenti contagiati, non spreca una parola sull’angoscia dei prigionieri, sul sovraffollamento delle celle, sulla presenza di tanti malati cronici, anziani, anche bambini di detenute, né sulle problematiche condizioni igieniche. Quanto al governo e al parlamento, le voci che alzano non sono certo a nostro favore: il “giustizialismo” del Ministro dell’Infanzia Bonafede fa il paio con le dichiarazioni di Salvini, il quale oggi, dalla TV, ha negato un’emergenza carcere e preannunciato opposizione al decreto perché “non farebbe altro che rimettere in circolazione rapinatori, spacciatori e clandestini, vanificando gli sforzi dei tutori dell’ordine che si sono impegnati ad arrestarli”. Per il resto, tutto tace, tra opportunismo e cattiva coscienza».
Sul sito bolognese di movimento, Zic.it, che ha condotto una lunga e dettagliata inchiesta, alcune cifre indicative: nel 1991 i detenuti erano 31.000, nel 1998 48.000, nel 2015 52.000, nel 2017 tremila in più e, alla fine di febbraio del 2020, sono 61.230, ventimila dei quali in custodia cautelare. Con buona pace del fatto che il 40% di questi ultimi, in media, risulta innocente. Solo 2500 le scarcerazioni dal 29 febbraio a oggi. Dalla relazione in Parlamento del ministro della Giustizia Bonafede sappiamo che i detenuti trovati positivi al Covid-19 sono almeno 15, mentre oltre 200 quelli in quarantena. Dal 29 febbraio sono oltre 2.500 i detenuti scarcerati. A conti fatti significa che ci sono ancora 12.000 persone non hanno un posto regolamentare. Una situazione di sovraffollamento che può trasformarsi in un veicolo drammatico di contagio. Per ora il decreto ha riconosciuto che i semiliberi, invece di vedersi sospesa la misura, come scioccamente era stato previsto in quello di dieci giorni fa, possano godere di una licenza straordinaria, pernottando fuori dal carcere fino al 30 giugno. E poi ha previsto qualche semplificazione nell’esecuzione della pena al domicilio. Procedure semplificate che non si potranno applicare agli autori di gravi reati, ai cosiddetti delinquenti abituali, professionali o per tendenza ma nemmeno ai protagonisti delle rivolte della scorsa settimana e a quelli che hanno avuto sanzioni disciplinari per sommosse, evasioni o reati commessi in carcere.
Ancora da quell’inchiesta: «significa che, oggi, nelle prigioni italiane ci sono quasi 10mila persone che vedranno la loro innocenza riconosciuta dopo aver trascorso in cella un periodo più o meno lungo della loro vita». E grazie al proibizionismo infame della Fini-Giovanardi, mai intaccato dai governi “di centro-sinistra”, il 35% dei detenuti è fatto di tossicodipendenti. Inoltre, cinquemila detenuti sono over 60, spesso malati e per i quali è solo un miraggio lo strumento della sospensione della pena per “condizioni di salute incompatibili col regime di detenzione”.
Raffronto con l’Europa: a maggio del 2019 il tasso di affollamento delle carceri del Vecchio Continente era del 93% mentre in Italia, a fine febbraio 2020, è di oltre il 120%. Nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per trattamenti inumani e degradanti legati al sovraffollamento carcerario.
E’su questo macrocosmo di sofferenza fisica e psichica, negli spazi ristretti e insalubri dove sono ammassati i detenuti che è piombata l’emergenza coronavirus con la stessa paura del contagio che abbiamo tutti e la consapevolezza che le misure di protezione in cella sono impossibili, specie per persone spesso debilitate da un passato di tossicodipendenza e da altre gravi patologie. A questo si è aggiunto l’annullamento dei colloqui con i propri cari, la sospensione dei permessi che molti attendevano da tempo. E prima ancora erano stati chiusi tutti i progetti culturali e di socialità gestiti dai volontari che entravano negli istituti ed erano stati annullati i colloqui con gli avvocati (salvo casi di eccezionalità). Misure che da fuori, razionalmente, possono sembrare motivate, ma che sono stati comunicate quasi sempre nelle modalità arroganti e vendicative della burocrazia carceraria.
Più di un mese dopo l’inizio dell’emergenza i primi quattro bimbi con le loro mamme sono riusciti a essere scarcerati nel Lazio sulla scia del ‘Cura Italia’ che prevede, alla luce dell’emergenza coronavirus, una normativa semplificata per scontare la pena a domicilio. Sono ancora nove nel Lazio e tutte a Rebibbia le detenute madri, con altrettanti figli minori, che si trovano in carcere in barba a una specifica raccomandazione dell’Oms di privilegiare l’uscita delle persone vulnerabili e in particolare delle donne con bambini. Il decreto prevede una normativa semplificata per l’esecuzione della pena a domicilio per chi deve scontare meno di 18 mesi. Purché ci sia disponibilità del braccialetto elettronico e il requisito di un domicilio idoneo. Clausole che tagliano fuori buona parte di una popolazione carceraria selezionata con criteri classisti e razzisti. Che il decreto sia «inadeguato» lo dice perfino il Csm con un parere di giovedì 26 marzo sulle misure varate per ridurre il sovraffollamento carcerario e così il rischio contagio da Coranavirus nelle carceri. E questo anche per «l’indisponibilità» dei braccialetti elettronici a cui è stata subordinata la concessione della detenzione domiciliare a chi deve scontare pene residue sino a 18 mesi. Sul documento i consiglieri di Palazzo dei Marescialli si sono divisi. Dodici sono stati i voti a favore, 7 i contrari, 6 gli astenuti. Non ha votato il parere l’intero gruppo di Area che avrebbe voluto che il Csm chiedesse al governo, vista la gravità della situazione, «scelte drastiche»: come l’applicazione automatica della detenzione domiciliare a tutti coloro che hanno una pena da scontare sino a due anni, con esclusione solo dei condannati per i delitti più gravi. Una misura che porterebbe fuori dal carcere 21mila detenuti e consentirebbe di realizzare anche nelle carceri quel distanziamento sociale che «tutti gli esperti ci dicono essere l’unico presidio efficace contro la diffusione del virus», oggi «impossibile da garantire» con 60mila detenuti e altre 60mila persone, tra poliziotti e operatori penitenziari, che quotidianamente entrano nei penitenziari. Per altri togati il Cura Italia sarebbe niente meno che «un indulto mascherato. Un provvedimento «grave», secondo l’ex pm di Palermo perché «questi benefici sono stati concessi all’indomani del ricatto allo Stato», così viene rappresentata la rivolta nelle carceri, voluta e promossa, secondo costoro, da “organizzazioni criminali”. Hanno votato contro anche i membri laici della Lega e dei Cinquestelle, alcuni di loro perché convinti che il Csm sia andato oltre le proprie competenze. Un dibattito che rispecchia la dialettica tra il ceto politico, una sorta di 50 sfumature di giustizialismo: Piercamillo Davigo (ex Pm di Manipulite, ex capo dell’Anm, attualmente consigliere del Csm), ritiene che il sovraffollamento nelle prigioni non esiste, casomai sarebbe troppo benevola la norma che prevede che ogni detenuto abbia diritto a tre metri quadrati di spazio. Un’idea di pena che si sovrappone a quella dichiaratamente fascistoide di Salvini e Meloni, ma anche al grillismo manettaro di Travaglio e Bonafede – più arresti, pene più alte, abolizione della prescrizione e annullamento della presunzione di innocenza – e anche all’intransigenza dei dem, eredi della fermezza mortale di Dc e Pci, un pasticcio ai gusti di Kossiga e Violante, o Minniti. “Perché nessuno vuole liberare nessuno, tantomeno i rivoltosi”, hanno strillato dal Nazareno. E in un Parlamento distratto, il guardasigilli Bonafede è stato superficiale su tutto: dinamiche, responsabilità e rischi per detenuti e personale.
La versione complottista – ossia passivizzante e consolatoria – sull’origine della rivolta è figlia della subalternità del ceto politico e del giornalismo mainstream alla galassia dell’anomalo sindacalismo di polizia: dietro le rivolte ci sarebbe la longa manus della criminalità organizzata. Amen. Consigli per gli acquisti. La verità è che rivolte del genere si sono verificate con le stesse modalità e per le stesse ragioni – rivolte spontanee, caotiche, indefinite – anche nelle galere di Francia o Brasile. E inoltre la modalità degli assalti alle infermerie, a caccia di metadone e psicofarmaci, smentiscono categoricamente ogni ipotesi di regia. Viceversa, le richieste di amnistia e indulto o di misure alternative sono le stesse formulate da anni dalle associazioni che si occupano di carcere e lotta agli abusi in divisa. Da Antigone ad Acad passando per l’Osservatorio Repressione, Papillon Rebibbia, Ristretti Orizzonti, Movimento Antipenale, Legal team, l’Associazione Bianca Guidetti Serra.
Va tenuto conto che tra la popolazione detenuta il 50% circa ha una età compresa tra i 40 e gli 80 anni, oltre il 70% presenta almeno una malattia cronica e il sistema immunitario compromesso. È del tutto evidente che la diffusione del virus all’interno delle carceri assumerebbe dimensioni catastrofiche. Non devi essere di Cosa Nostra per sentirti imbrogliato mentre intorno a te le guardie girano senza nemmeno le mascherine e nessuno si cura del fatto che in cella è impossibile una qualche misura efficace di distanziamento. Dopo le rivolte l’organo di rappresentanza dei magistrati di sorveglianza (Conams) ha fatto uscire un documento “nella prospettiva – di esclusiva competenza delle autorità politiche – di un piano ragionato, ordinato e non indiscriminato di scarcerazioni che almeno riporti il sistema penitenziario entro la sua capacità regolamentare, con strumenti ordinari e straordinari sia nel campo delle misure cautelari sia in quello delle misure alternative alla detenzione”. Invece anche il leader dell’ex sindacato unitario della ex polizia democratizzta, il Siulp, ha parlato di “’rivoluzione orchestrata a tavolino”, con “una logica predeterminata di qualche regista occulto che soffia su un fuoco i cui risvolti non gli sono ben chiari. Si tratta di sommosse attuate ad orologeria e con una sequenza ben definita…”. Solo il coordinatore regionale veneto della Fp-Cgil Penitenziaria sembra sfilarsi dalla richiesta di pugno di ferro: “Questa emergenza dovrebbe far riflettere. Pensiamo a cosa è successo in altre nazioni, Brasile, Argentina, dove un’epidemia ha innescato una sorta di bomba in alcuni istituti di pena con fughe di massa. Ecco, noi non siamo preparati a far fronte all’emergenza. Ci sono piani anti-evasione ma non direttive o protocolli per situazioni come quella che stiamo vivendo”.
Giuristi democratici, garanti dei detenuti e mondo del volontariato chiedono la scarcerazione di tutti i detenuti con fine pena minimo oltre a un piano straordinario di protezione igienico-sanitaria per chi a vario titolo lavora dietro le sbarre. Se non escono almeno 10 mila persone non è possibile isolare gli altri per scongiurare i contagi. Emerge anche l’esigenza di ampliare l’accesso alle misure alternative. Altrimenti si rischia di scaricare su mogli e genitori, spesso anziani, un problema di sicurezza sanitaria che dovrebbe risolvere lo Stato Rilasciando i detenuti in nuclei familiari che in questo momento sono in grave difficoltà (quarantena, niente lavoro, pochi metri quadrati a disposizione, spesso anche con bambini piccoli, assistenza sanitaria e sociale in affanno, bilanci allo stremo, nessuna possibilità per il “nuovo giunto” di trovare una occupazione seppur temporanea per contribuire alle spese quotidiane). Alcuni familiari hanno già espresso il loro diniego al rientro in casa di mariti, figli, padri magari alle prese con problemi psichici o di tossicodipendenza propri di un alto numero di persone ristrette. Nulla di cui stupirsi se è vero che il carcere è una mostruosa discarica di classe. L’estrazione sociale di gran parte della popolazione detenuta non è di quelle che si può permettere spazio e cibo a sufficienza per tutti nelle condizioni in cui tutti siamo costretti a vivere in questi giorni. Volontariato, privato sociale e terzo settore potrebbero dare una mano nell’accoglienza dei detenuti senza casa, persone che potrebbero uscire già domani, ma che non hanno un domicilio idoneo.
«A noi pare che la tragica morte di tredici persone detenute non possa essere rimossa e nascosta», si legge in un appello lanciato, fra gli altri, da Vittorio Agnoletto, Ascanio Celestini, Franco Corleone, Livio Pepino, Marco Revelli, Susanna Ronconi, Paolo Rossi, Sergio Segio e al quale Sinistra anticapitalista aderisce. Ancora da quell’appello: «Tutti coloro che vivono nel carcere, vi lavorano o lo frequentano, i famigliari e in generale la società e la pubblica opinione, hanno diritto di conoscere ciò che è successo nei dettagli. E di conoscerlo tempestivamente: poiché occorre avere consapevolezza di quanto l’opacità, la disinformazione, l’incertezza e la paura possano provocare in chi vive rinchiuso disperazione, la quale a sua volta può innescare nuovi conflitti». Verità e giustizia per ripensare la pena e la sua funzione e per riformare il sistema che la amministra: in questa necessità e prospettiva, l’appello alle associazioni, al composito mondo del volontariato penitenziario, alla rete dei media sociali, ad avvocati e operatori del diritto, ai Garanti dei diritti delle persone private della libertà, a tutti coloro che in modo singolo o organizzato sono impegnati in percorsi e culture improntate alla decarcerizzazione, al recupero sociale, alla depenalizzazione di condotte quali il consumo di droghe, alla tutela dei diritti umani e sociali, per costituire assieme un Comitato che lavori da subito alla raccolta di informazioni sulle vicende di questi giorni e che si proponga – nel rispetto ma anche nella sollecitazione delle competenze istituzionali – di fare piena chiarezza sull’accaduto».
Con un indulto di due anni, uscirebbero quasi 17.000 detenuti, con un indulto di tre anni, come quello del 2003, più di 24.000. A questi potrebbero aggiungersi più o meno altri 10.000 detenuti, e cioè circa la metà di quelli che sono stati messi dietro le sbarre prima della condanna definitiva, e che quindi, a norma della Costituzione, considerati non colpevoli. Molti di questi detenuti “non hanno le caratteristiche di pericolosità da mettere a repentaglio la tranquillità sociale”, “né possono inquinare le prove di delitti commessi, in molti casi, vari anni fa”, e “vengono tenuti dietro le sbarre quasi esclusivamente per indurli a confessare”.
Tra il 1946 e il 1990, nel nostro Paese, ci sono state 17 amnistie e, nel pensiero giuridico, hanno rappresentato un mezzo per affrontare gli attriti e sanare le fratture tra costituzione legale e costituzione materiale.
Più spesso le amnistie sono state ispirate da finalità di “deflazione del sistema penale” per riequilibrare situazioni che colpivano condotte che, per la loro esiguità, non risultavano “meritevoli”, di sanzione penale.
Nel 1992, nel clima nascente di giustizialismo che si stava propagando, l’amnistia e l’indulto sono stati trasformati da istituti giuridici in disprezzate bestemmie. Così è stato riscritto l’articolo 79 della Costituzione richiedendo, per la loro adozione, il voto favorevole dei due terzi del Parlamento. Un particolare che rende la loro approvazione più difficile della modifica della stessa Carta Costituzionale.
Pochi giorni fa Dosio ha ricevuto una lettera dallo scrittore Erri De Luca:
Cara Nicoletta,
in questi giorni rileggo. Ho di nuovo sulle ginocchia le lettere di Rosa Luxembourg dalla prigione di Berlino. In una di queste, indirizzata a Mathilde Jacob il 7 febbraio 1917, Rosa le racconta del verso della cinciallegra tss vì, tss vì, che lei sa imitare al punto che la cinciallegra si avvicina alle sbarre.
Rosa scrive: ”Malgrado la neve, il freddo e la solitudine, noi crediamo, la cinciallegra e io, alla venuta della primavera”.
Eccoci ai giorni che dichiarano scaduto l’inverno. Tu sei reclusa e per misteriosa solidarietà si è chiuso in casa un popolo intero. Girano poche ruote, il nord emigra al sud, i balconi abbandonati si riempiono di famiglie affacciate. Non si sente parlare neanche un economista, tutto il potere e tutta la parola ai medici.
Io sto sul mio campo e vedo il progresso delle gemme sugli alberi. Mi piace che in italiano la parola Gemma valga anche come pietra preziosa. Così la primavera è una gioielleria a cielo aperto per tutti i suoi ammiratori.
Qui le persone si usano la cortesia di evitarsi. Da voi nelle celle non c’è neanche lo spazio per girarsi. Ai malati di polmonite manca l’aria che coi dovete respirare in molte. Le prigioni strapiene sono diventate per sovraccarico di pena, dei laboratori del soffocamento.
Ma la tua vallata, per la quale ti sei battuta e per la quale sei in prigione, continua a produrre e a soffiare ossigeno politico, quello che sorge all’interno di una comunità che serra i suoi ranghi, convoca le assemblee, riempie le strade e da diritto di cittadino a chi è trattato da suddito di un feudatario. La vostra valle, occupata come provincia ribelle, continua a fare ostacolo allo stupro del suo territorio. La tua calma inflessibile e intransigente è quella della tua comunità. Si manifesta quando un popolo si sveglia.
Sono fiero di potermi rivolgere a te con il pronome tu, fiero di essere dei vostri.
Ti aspetto qui e ti prometto che all’uscita troverai la stessa unione, la stessa primavera.
Ti abbraccio forte, Erri