Bergamo, Il virus ha decimato una generazione. E con gli anziani se ne vanno la memoria e le reti di relazione nelle comunità
di Paolo Barcella*
Nei giorni scorsi, Isaia Invernizzi ha pubblicato i terrificanti dati relativi ai decessi da Covid-19 nella provincia di Bergamo. Da quel che si evince, i morti al 1° aprile superavano quota 4500: sono più del doppio delle cifre ufficiali, relative ai decessi avvenuti negli ospedali bergamaschi di pazienti a cui era stato applicato un tampone. Le cifre confermano quello che la cittadinanza locale aveva compreso osservando dalla finestra l’impressionante quantità di ambulanze di passaggio e i numerosi paramenti funebri appesi qua e là, sui cancelli e portoni. In alcuni piccoli comuni della Valle Seriana e della Valle Brembana i decessi, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, vedono una crescita prossima al 2000%. Si calcola che il virus abbia portato via l’1,45% degli ultrasessantacinquenni della provincia, percentuale non distribuita equamente, in primo luogo perché i decessi non sono diffusi in ugual misura su tutto il territorio, in secondo luogo perché in diverse località la curva demografica evidenzia maggiore concentrazione di anziani.
Se la curva dei contagi pare ora avere iniziato a rallentare, saranno senz’altro centinaia le persone che si aggiungeranno nelle prossime settimane a questo drammatico conteggio, in una situazione dove, peraltro, i parenti non possono seppellire i loro morti. Quando la vita riprenderà, le comunità in questione dovranno necessariamente metabolizzare l’accaduto, pensando i tempi e gli spazi in cui si possa dare al lutto una forma comunitaria e collettiva. Anche perché, spesso, quella generazione aveva una funzione nella vita culturale, economica e sociale delle loro comunità.
In questo senso, credo sia importante riflettere sui vuoti lasciati dalla decimazione degli anziani, sia a livello pubblico che privato. Prima di tutto, queste persone hanno rappresentato negli ultimi anni un punto di riferimento per numerose famiglie. Si tratta spesso di pensionate e pensionati, con una casa di proprietà, non necessariamente ricchi, ma quasi sempre abbastanza solidi da poter aiutare i figli, come accadde per esempio negli anni della crisi 2007/08. Si sono occupati e si occupano massicciamente dei nipoti, in un contesto che, per l’assistenza alla prima infanzia, conta molto sul “welfare familiare”, e cioè sulla disponibilità delle nonne e dei nonni nell’accudimento dei nipoti quando i genitori lavorano, o riposano.
Insieme, però, gli ultrasessantacinquenni costituiscono in molte comunità uno dei motori su cui poggia gran parte del mondo associativo e del volontariato. Sono volontari molti operatori dei patronati INCA-CGIL, spesso più fedeli a un modello di sindacato militante, distante dal sindacalismo dei funzionari in via di estensione. Volontari sono spesso anche i segretari e i presidenti delle associazioni che si occupano di animazione nei quartieri e nei comuni, quelli che reggono le feste popolari diffuse nei periodi estivi, generalmente organizzate allo scopo di raccogliere fondi per le realtà associative di riferimento, che vanno dagli oratori, alle associazioni degli alpini, all’AVIS, alla UILDM.
Alcune funzioni civiche sono appaltate a soggetti di questa fascia d’età, disponibili a offrire il loro contributo alla vita comunitaria, declinandolo secondo la propria ideologia e mentalità, perché sono economicamente autonomi, in buona salute, attivi e quindi desiderosi di uscire di casa, socializzare, sentirsi vivi. In tanti comuni sono gli ausiliari del traffico che aiutano i bambini in prossimità dei passaggi pedonali; molte strutture del “privato sociale” e del mondo cattolico contano sulle loro prestazioni continuative volontarie negli stessi ambiti lavorativi che li hanno visti impegnati fino alla pensione.
Ma soprattutto, insieme a loro, se ne vanno anche la memoria, la esperienza, le conoscenze e l’eredità culturale. Leonardo Zanier, sindacalista e poeta friulano emigrato in Svizzera alla metà degli anni Cinquanta, scriveva qualche anno fa:
“Ho letto da qualche parte, ma non ricordo dove: «Ogni volta che un uomo o una donna muoiono è come se venisse distrutta un’intera biblioteca». […] Non saranno [tutte e tutti] biblioteche, ma libri preziosissimi sì, talvolta unici, insostituibili. Succede […] con tanti artigiani, magari liutai, restauratori, orafi, carpentieri, intagliatori. Invecchiano, o non hanno figli o sono già grandi e vivono lontano. In ogni senso. Magari laureati in sociologia, per esempio, e che fanno ricerche su «La trasmissione d’impresa». Cosa succede se questi saperi incredibilmente raffinati, vite e vite dietro, segreti sperimentati e perfezionati poco a poco, non riescono a venir trasmessi?”.
Cosa succede quando un’intera generazione, con le sue risorse e il suo bagaglio, scompare da una comunità? Cosa succede quando una massa di bambini vede scomparire massicciamente le voci che vengono dal loro passato, il primo raccordo possibile tra loro stessi e la storia? Forse chi ha temuto e continua a temere più di perdere profitti che vite umane, dovrebbe rifletterci. Sicuro è che, quando usciremo da questo incubo, ci dovremo occupare anche di tutto questo, della metabolizzazione di un lutto collettivo e della gestione in un vuoto di energia, di saperi, di possibilità di trasmissione generazionale che non fa cassa, ma rende gli esseri umani quello che sono.
*Paolo Barcella insegna Storia contemporanea e storia dell’America del Nord presso l’Università di Bergamo. Si è occupato tra l’altro di storia delle migrazioni e di storia sociale della Lombardia.