Non è il tempo dell’attesa, spiega la portavoce del Forum del Terzo settore del Lazio: Francesca Danese*
la foto in evidenza è di Massimo Lauria
Salutarsi da lontano, senza baci. Ve lo ricordate? Era il titolo di un grande quotidiano all’inizio del tempo del distanziamento sociale. Salutarsi da lontano… mica mi era mai successo! E senza baci. Nemmeno al tempo dell’Aids quando con pochi altri sfidammo il senso comune e cucimmo il sapere scientifico con il filo della solidarietà. Oggi quel sapere ci spiega che stare a distanza è uno dei passaggi fondamentali per salvarci. Necessario ma non sufficiente. Perché il filo della solidarietà va dipanato comunque e con ogni mezzo disponibile.
Eccomi allora, social mio malgrado.
Per la prima volta in tanti anni di attivismo, volontariato e professione scelgo di praticare anche la dimensione virtuale. Senza rinunciare a ogni possibilità di concretezza, come il tour pressoché quotidiano per distribuire le mascherine – ne abbiamo messe in giro decine di migliaia – per organizzare la distribuzione di cibo, per condurre trattative cruciali con le amministrazioni e la Regione Lazio.
Credo sia giusto aprire uno spazio, fra quelli che già ci sono, per dare corpo a riflessioni su ciò che sarà di noi, del noi. Dei nostri modi di lavorare, costruire comunità, praticare conflitti o risolverli, immaginare mondi, legare quello che le crisi disgregano. Questa in corso più di ogni altra. Perché non è del tutto vero che questo sia un tempo dell’attesa, il dopo dipenderà dalla nostra capacità di immaginare adesso, di fare rete, di porci domande e progettare risposte. Se saremo fiduciosi o rancorosi, coesi o sparpagliati, dipenderà da quanto saremo stati in grado di capire le radici e la genesi di queste crisi, sanitaria-economica-sociale, e da quanto saremo stati capaci di costruire una grande alleanza a partire da quegli attori del settore pubblico e del privato sociale, dai movimenti e dall’associazionismo, che si stanno facendo carico dei lavori di cura e della produzione di cultura nell’epoca della pandemia.
Siamo in molti a non volere più un mondo dove l’epidemia rivela diseguaglianze crudeli. Siamo in tanti a percepire che lo stato di emergenza rischia di trasformarci in monadi isolate. E abbiamo il compito di costruire, da adesso, un mondo di cui le attuali solidarietà mostrano la possibilità. Perché mai come adesso è chiaro che la crisi non è uguale per tutte e tutti. E, tra gli effetti collaterali dell’epidemia c’è almeno la stroncatura definitiva del refrain della signora Thatcher che la società non esiste ma solo individui. Piuttosto siamo in bilico tra una società più ingiusta di prima e una che metta in agenda la giustizia sociale e climatica come reale antivirus.
Credo che il linguaggio sciovinista e militaresco per narrare la pandemia serva a nascondere che non siamo sulla stessa barca. Non è la stesso per chi non ha un tetto sulla testa o rischia lo sfratto, per chi vive in un carcere sovraffollato, in un centro di accoglienza o un dormitorio, in una nave di una Ong in cerca di un porto sicuro. Mica è facile sopravvivere senza permesso di soggiorno, lavorare senza sicurezza, resistere in attesa che si possa tornare a lavorare oppure restare a casa con il partner violento, studiare a distanza senza computer o connessioni decenti alla rete o senza l’assistenza domiciliare e scolastica per i disabili.
Dai nostri mondi devono partire segnali perché il futuro inizi da ora.