Italia: senza una svolta a 180 gradi delle istituzioni monetarie e finanziarie Ue, l’alto rischio di seguire le orme della Grecia (Marco Parodi)
Le conseguenze della pandemia in Italia sono drammatiche non solo dal punto di vista sanitario e delle decine di migliaia di morti, ma anche dal punto di vista sociale ed economico. Per l’Italia, le previsioni più recenti di crescita per il 2020 vanno dal -9,1% del FMI, al -11,6% di Goldman Sachs. La situazione è ancora più grave se si considera che nell’ultimo trimestre del 2019 l’Italia era già a rischio di recessione tecnica, con una contrazione del PIL dello 0,3 per cento e il livello di crescita annuale risultava poco più che stagnante.
Dal punto di vista dei costi in termini di finanza pubblica, il Fiscal Monitor del FMI mostra una crescita del deficit dall’1,6% all’8,3% del PIL nel 2020, portando il debito pubblico al livello del 155,5%. Il risultato è stato nuovamente quello di aumentare lo spread con i decennali tedeschi, prima di essere mitigato al di sotto dei 200 punti base dall’intervento emergenziale della BCE, che ha deviato, ma solo temporaneamente, dalla regola del capital key, quella per cui la Bce può acquistare debiti sovrani solo in proporzione alla quota che ogni paese detiene nell’azionariato della Bce stessa.
Di fronte alla gravità della crisi complessiva e alle enorme risorse necessarie per farvi fronte sono emerse profonde e confuse divisioni sia all’interno delle forze governative che di quelle dell’opposizione, tra coloro che sostengono i prestiti del ESM , quelli che chiedono gli Eurobond e quelli che sembrano rigettare entrambi.
La nuova linea di credito dell’ESM, Pandemic Crisis Support, decisa dall’Eurogruppo, pari a circa 36 miliardi di euro per l’Italia, viene sbandierata dall’establishment italiano in quanto priva delle condizionalità rigorose e subordinata al solo requisito di sostenere le spese per l’emergenza sanitaria. Si omette, tuttavia, un duplice problema. Si tratta in ogni caso di una cifra modesta rispetto alle esigenze e soprattutto di un incremento del debito pubblico che dovrà essere rimborsato una volta rimossa la sospensione emergenziale del Patto di stabilità, nonché secondo le regole del Fiscal Compact esplicitamente richiamate nel Trattato istitutivo dell’ESM. Dall’altro lato, si innescherebbe inevitabilmente una nuova tensione sui mercati dei titoli pubblici italiani con un ulteriore aumento dei tassi di interesse.
Ma anche la rivendicazione degli Eurobond, è lungi dal costituire una soluzione di sostenibilità. In primo luogo, l’emissione di debito comune sarebbe possibile solo in presenza di un bilancio federale e un tesoro federale. Un bilancio federale molto più grande rispetto all’attuale misero bilancio europeo, che a sua volta presumerebbe una sistema fiscale europeo molto più omogeneo e potente. E’ una misura che appare alquanto velleitaria perché costringerebbe tedeschi e olandesi a finanziarsi a più alto costo, per consentire ai paesi più indebitati di risparmiare sul tasso d’interesse. Difficile che possa essere accettata in una UE che non è uno stato federale, ma un’accozzaglia di stati imperialisti in concorrenza tra di loro. In secondo luogo, si tratterebbe in ogni caso di un aumento del debito pubblico italiano, per cui il risparmio sarebbe legato a qualche decimo di punto percentuale sul tasso di interesse, ma l’entità del debito resterebbe tale e quale.
E’ fin troppo chiaro che con un debito al 155% del PIL si persevererebbe ancora con terribili politiche di austerità, tagli alla spesa pubblica e privatizzazioni, per rimborsare il futuro debito pubblico, nonostante che l’Italia continui a cumulare avanzi primari (spese inferiori alle entrate al netto degli interessi del debito) da circa trent’anni. Dunque, nessuno dei pilastri auspicati dall’Eurogruppo affronta la sostenibilità del debito pubblico degli stati membri, in grado di scongiurare una vera e propria macelleria sociale come quella manifestatasi in Grecia.
Al contrario, sarebbe necessario rivedere il ruolo della banca centrale, finalizzandolo alla sostenibilità del debito pubblico rispetto al PIL, piuttosto che a quello, decisamente limitato e subordinato, di mitigatore degli spread. Del resto, il rischio inflazione non è neanche lontanamente all’orizzonte. La BCE, in effetti, sta già acquistando massicciamente titoli pubblici con l’obiettivo di mantenere condizioni migliori nella collocazione dei titoli sovrani. Tuttavia, questi acquisti di titoli pubblici da parte della BCE non sono caratterizzati da cancellazione del debito o da impegno di rinnovo indefinito alla loro scadenza. Non si tratta, in altri termini, di operazioni equivalenti a finanziamenti diretti di tesoreria ai governi mediante emissione di moneta, come sarebbe necessario; neanche si tratta di acquisti di titoli a lunga scadenza, o persino irredimibili, perpetui e senza scadenza.
Insomma, occorrerebbe una svolta a 180 gradi delle istituzioni monetarie e finanziarie europee, per garantire finalmente l’accesso al credito degli stati in misura adeguata allo sforzo necessario, senza dover scaricare i costi futuri sulle classi lavoratrici. Occorre rimuovere la regola che obbliga la BCE ad acquistare esclusivamente sul mercato secondario (lasciando così sempre la valutazione al dio mercato) i titoli di stato emessi, invece che direttamente dagli stati; occorre sostituire l’acquisto basato sulla regola del capital key con quello finalizzato alla sostenibilità delle economie e delle finanze pubbliche degli stati membri; oggi la liquidità è indirizzata in parte per i consumi immediati e in gran parte a vantaggio delle imprese private considerate ancora e sempre al centro dell’economia, mentre invece è necessario utilizzare nuove risorse per nuovo fortissimo e diretto intervento pubblico con l’obiettivo della crescita dell’occupazione, del sostegno dei salari e della spesa pubblica sociale, a partire da quella sanitaria e dalle necessarie riconversioni ecologiche.