La classe lavoratrice non ha diritto di parola nello spazio pubblico. Invece può e deve pretendere una gestione di tipo comunitario della produzione (Cristina Quintavalla)
Silenziati, resi invisibili, non riconosciuti. In questi drammatici giorni le lavoratrici e i lavoratori vengono nominati il meno possibile. Al centro c’è la caduta della produzione, il calo del fatturato, la mancanza di liquidità delle aziende, il rischio di crollo delle PMI, la difficoltà ad accedere ai prestiti delle banche, la contrazione della domanda. Viene dato per scontato che le imprese dovranno licenziare, mettere in cassa integrazione, e che per milioni di lavoratori e per le loro famiglie, nel mondo occidentale contaminato dal Covid-19, si apriranno scenari di disperazione. Per i più fortunati si prevede il ricorso agli ammortizzatori sociali, che funzioneranno se e finché saranno finanziati. Tutti gli altri non ne potranno usufruire. I lavoratori autonomi (leggi: i senza lavoro costretti ad aprire una partita IVA) usufruiranno di un bonus di 600 (forse 7-800) euro una tantum, tutti gli altri, i cosiddetti “lavoratori atipici”, probabilmente niente.
Dei 5,3 mln di autonomi, circa 3,5 milioni di lavoratori sono stati utilizzati sinora al di fuori di ogni rapporto di lavoro stabile, impiegati in qualsiasi settore produttivo, per il tempo necessario, senza ferie pagate, senza diritto all’astensione dal lavoro per malattia, senza diritto di sciopero, senza retribuzioni dignitose, senza orari di lavoro, privati di ogni tutela. Che ne sarà del lavoro sommerso, clandestino, in nero, dell’“economia dei lavoretti”, la cosiddetta gig economy? Esaurita la possibilità di usufruire dei sussidi alimentari che i comuni o la solidarietà umana elargiranno, ingrosseranno le fila di quell’8 % di nuova povertà, previsto da Oxfam nel suo ultimo rapporto. Ma anche i cassintegrati non andranno molto lontano, con una retribuzione gravemente decurtata, messa a carico della fiscalità pubblica, e a tutto beneficio delle imprese. Molte di esse peraltro si rifiutano persino di anticiparla e scaricano sulle banche tale onere (molte delle quali si rifiutano peraltro di assumerselo).
L’ottica dalla quale viene guardata questa fase è sempre e solo quella del capitale, vale a dire di un sistema che non si assume alcuna responsabilità in ordine alla crisi innescata dallo scoppio della pandemia (i dissennati processi di sfruttamento delle risorse e di razzia delle materie prime, che hanno alterato l’ecosistema), che non intende fare i conti con i suoi critici risultati pre-crisi (caduta della produzione, diminuzione dell’export, crollo degli utili bancari, volatilità delle borse, valori gonfiati, capitali fittizi ecc.), che ripropone indefinitamente se stesso, il suo modo di produrre, sfruttare, consumare, scambiare, come l’unica e naturale soluzione alla crisi, allo sviluppo, alla ripresa.
La superficie compattamente omogenea della presunzione di innocenza del mondo imprenditoriale va di pari passo con la tempesta di fuoco mediatica e politica che sta scatenando per godere della più ampia libertà d’azione e di iniziativa, per piegare gli stati alle sue esigenze, farli indebitare per garantire sussidi e linee di credito mai viste, senza alcuna condizione (da parte delle istituzioni pubbliche) o interessi.
Confindustria già ha iniziato a parlare di “ variazione della propria offerta… di implementazione dell’e-commerce … e di ricalibrazione dei mercati di destinazione del proprio export”. Tradotto in termini di contabilità umana significa che si profilano all’orizzonte a livello globale processi di
concentrazione industriale, con ristrutturazioni “lacrime e sangue”, dismissioni, delocalizzazioni, fusioni, verticalizzazioni, che scaricheranno i costi sui lavoratori, che saranno licenziati, precarizzati, ricattati, senza diritti, ai limiti della schiavitù. Sarà spazzato via quel poco che rimaneva in termini di diritti e tutele. Fa capolino in Italia il ritorno dei voucher, con cui retribuire disoccupati o disperati da impiegare nei campi per la raccolta.
L’attuale fase epidemica sta portando all’evidenza molti elementi che erano stati in qualche modo occultati.
In particolare è emersa in tutta la sua drammaticità quanto l’economia femminista sta denunciando ormai da tempo: la contraddizione tra i processi di valorizzazione del capitale e quelli di sostenibiità della vita, tra la cogenza dell’accumulazione del profitto e quella della cura della vita.
Siamo arrivati a significative forme di cinismo, quali la monetizzazione del rischio di contagio, barattato con l’erogazione di un centinaio di euro, buttati sul piatto di chi ne aveva bisogno, da parte di numerose grandi imprese (dalla Mutti alla multinazionale della Nutella), che prediligono la strada delle concessioni di bonus e premi, erogati in modo discrezionale e una tantum, rispetto a quella delle conquiste stabili, strappate sul piano dei rapporti di forza.
Secondo fonti sindacali il 25% dei lavoratori impiegati nelle cosiddette attività produttive necessarie (e meno necessarie, grazie all’ampia discrezionalità concessa dal codice ATECO) è stato contagiato. Quanti giorni di sopravvivenza alle loro famiglie pagheranno quei cento euro?
La mercificazione del lavoro è l’altra faccia della reificazione dei lavoratori, della loro riduzione a cosa, come se le merci prodotte dal lavoro ed espropriate al lavoratore avessero natura autonoma, fossero entità naturalmente dotate di valore, da cui in realtà è rimosso il lavoro in essa incorporato. Lukàcs chiama reificazione il fenomeno attraverso cui il lavoro si contrappone al lavoratore, come qualcosa di oggettivo e indipendente e lo domina mediante leggi autonome e a lui estranee.
La fase 2, che rimanda milioni di lavoratori sui luoghi di lavoro, pur nella consapevolezza, da parte di governo, scienziati, imprenditori, che il rischio di una seconda ondata di contagio sarà molto alto, quantomeno evidenzia un dato: la centralità della classe operaia e lavoratrice nel processo produttivo.
Il suo lavoro è stato invisibilizzato da vari decenni a questa parte. Parte determinante di questo processo di non riconoscimento del suo ruolo, dunque di negazione, sono state le gravi forme di scomposizione, di frammentazione, da cui è stata investita a seguito della ristrutturazione capitalistica iniziata negli anni Settanta del secolo scorso.
Seppure divisa in decine di tipologie contrattuali e di forme di ingaggio diverse, la classe lavoratrice col suo lavoro resta determinante negli attuali rapporti sociali.
Si manifesta oggi con estrema chiarezza l’ovvietà occultata: se non ritorna al lavoro la macchina produttiva si ferma, come ci hanno ricordato scioperi e assemblee operaie in queste ultime settimane. “Non siamo carne da macello” è stato il grido che si è levato da terre di frontiera, nella logistica, nella distribuzione, nella produzione, rispetto all’obbligo di rientrare al lavoro in assenza o carenza di protezioni sanitarie adeguate. Soprattutto ha iniziato a pretendere un diverso ruolo nell’organizzazione del lavoro in fabbrica, e ha utilizzato il fermo produttivo, strappato in alcune fabbriche, per ragionare su come garantire la produzione e al contempo salvaguardare la sicurezza e la vita.
Il processo di cannibalizzazione del lavoro da parte del capitale, nello sterilizzare il conflitto di classe, ha inteso avvalorare i processi di accumulazione capitalistica come un dato naturale e le leggi che li governano come immodificabili.
Ma la classe lavoratrice non ha diritto di parola nello spazio pubblico.
Non deve avere voce rispetto ad una organizzazione produttiva diversa. Se è riuscita a porre le condizioni per salvaguardare la sicurezza e incolumità alla ripresa della Fase 2 attraverso i Protocolli siglati dai sindacati col governo, le viene negato tuttavia di esercitare il suo ruolo di classe capace di indicare le linee di una trasformazione dei modi e dei contenuti della produzione.
E’ questo oggi un indifferibile appuntamento storico, alla luce del fallimentare esito dei processi di dominio sulla natura e sulle persone di un sistema che riproduce la logica del potere nei rapporti sociali, basato sull’egemonia di classe ( l’1% privilegiato borghese), di genere (patriarcale maschile), di razza (bianca occidentale).
Come ha teorizzato Hegel attraverso la figura del servo-padrone, nella Fenomenologia dello spirito, la lotta per la vita e per la morte, ingaggiata tra due uomini agli albori della storia, si conclude quando il vinto diventa servo e il vincitore padrone, che gli risparmia la vita per sfruttare il suo lavoro a proprio vantaggio.
Il signore gode in virtù di questa sottomissione dell’altro della piena autoaffermazione di se stesso, acquisendo una illusoria identità di sè proprio attraverso l’assoggettamento di un altro uomo.
E’ una sorta di identità di dominio il legame che viene istituito tra la affermazione di sé, della propria identità, e le pratiche di dominio esercitate.
L’uomo/padrone si comprende come soggetto di dominio. La coscienza di sé è sapere di potere ed esige la sottomissione e l’ appropriazione dell’altro.
Contro questa antropologia di dominio sulla natura e le persone, che ha scatenato un virus, che è il portato dei processi di sfruttamento e impoverimento dell’ecosistema, che mettono a rischio la conservazione e la riproduzione della vita e del benessere di tutti, diventa necessario rimettere al centro della riflessione teorica e dell’iniziativa politica il tema della giustizia sociale, interconnesso alla giustizia di genere ed alla giustizia ecologica.
Per progettare un sistema economico basato sui bisogni delle persone anziché del profitto, che metta al centro le condizioni per una vita degna di essere vissuta, occorre istituire un processo di progettazione collettiva, all’interno del quale la classe lavoratrice, quella mercificata, appropriata dal profitto, resa “cosa”, privata di voce, pretenda che venga restituita dignità alla vita.
Essa può e deve pretendere una gestione di tipo comunitario della produzione, della generazione e distribuzione delle risorse, dettare le condizioni della ripresa, essendo in grado di dare un diverso corso ai processi economici, spostando la barra dalle logiche private del mercato e del profitto a quelle collettive di sostegno alla vita. Può e deve farlo in collaborazione con quella parte di società che attende da sempre alla riproduzione della vita, in dialogo con chi è o è stato reso differente (per genere, razza, classe sociale) e vulnerabile, ridotto a vita di scarto: uomini e donne usa e getta.