Che paghino i ricchi! Una rivoluzione fiscale come misura principale nella cassetta degli attrezzi contro la disuguaglianza galoppante (Miguel Urban)
(da ctxt, trad. di Marko Mastrocecco)
Oggi Netflix è presente in circa due milioni di case spagnole. Non sembra che gli vada tanto male. Tuttavia la multinazionale paga più o meno le stesse tasse che paghi tu. Non ci credi? Le due filiali spagnole del gigante della produzione e distribuzione audiovisuale in streaming pagarono 3.146 euro come imposta di società nella loro prima dichiarazione fiscale in Spagna. E no, non manca “un milione”. Pagarono 3.146 euro di tasse. Per tutto l’anno 2019, che, tra l’altro, non era il loro primo anno, poiché operano nel Paese dal 2015, anche se fino ad allora non avevano mai pagato tasse. Ciononostante, visto il risultato, forse avrebbero voluto iniziare prima: sarebbero stati perfino rimborsati! A parte gli scherzi macabri, la fattura fiscale per la tassazione sul beneficio di Netflix España equivale, approssimativamente, all’IRPEF che paga un lavoratore che guadagna 24.000 euro all’anno.
Il caso di Netflix non è un aneddoto. Ormai da tempo vediamo che anno dopo anno vengono fuori fughe di notizie che dimostrano come multimilionari e multinazionali di tutto il mondo si considerano come una sorta di “nuova aristocrazia globale” che gode del privilegio di essere esente dal pagare le tasse. Leona Helmsely, moglie del multimilionario Harry Hamsley (condannato per evasione fiscale), affermò con orgoglio che non pagava le pagava perchè “le tasse sono per la gente normale”. Tutto considerato, non le manca la ragione. Mentre lavoratori e piccoli imprenditori contribuiscono con le loro imposte – e contribuiscono con quello che altri non hanno pagato – la disuguaglianza nel mondo si moltiplica e l’austerità si installa nelle politiche pubbliche con tagli alla nostra educazione, sanità e, in definitiva, ai nostri diritti. Durante queste settimane stiamo comprovando drammaticamente come questi tagli alla sanità si trasformano letteralmente in morti.
Ma l’elusione e l’evasione fiscale non sono casi isolati o congiunturali: costituiscono un fenomeno strutturale del capitalismo liquido del nostro tempo, intimamente legato all’offensiva neoliberista che flagella ormai da decadi le nostre economie. Non sono mele marce: sono ladri che razziano i meli comuni, ma si rifiutano di contribuire alla loro coltivazione collettiva. E qui in Europa, l’architettura stessa dell’Unione Europea promuove regimi fiscali discordanti , nel contesto della libertà di movimento dei capitali e senza armonizzazione fiscale. Un sistema che proporziona una svalutazione fiscale permanente di cui si beneficiano le élite di Olanda e Germania, così come quelle di Spagna o Italia. Così la UE conta sulle sue proprie strutture offshore e un intramato di regole i cui dislivelli, permissività e stimoli occulti, potenziano l’evasione e l’elusione che de facto beneficia solo ai grandi capitali, a coloro che vivono di rendita e alle famiglie più ricche, a scapito delle maggioranze popolari. Il risultato e un’Europa di milionari a spese di milioni di poveri.
Un intramato di elusione ed evasione che non potrebbe funzionare senza una rete di rifugi fiscali al margine degli obblighi tributari. E diciamo “rifugi”, per non dire direttamente “fogne”, perchè chiamarli “paradisi fiscali” sarebbe accettare la grammatica della stessa minoranza pericolosa per la quale codesti luoghi risultano paradisiaci. Grazie a questi luoghi dove la lex mercatoria si impone su qualunque altro diritto, alla ingegneria contabile e ai meandri legali, un pugno di privilegiati ha trovato numerose fessure dove nascondere o dissimulare una sostanziale proporzione delle proprie fortune. E oggi tutto il sistema fa acqua da quelle fessure. Secondo tutti gli studi non ci sono mai stati tanti soldi in paradisi fiscali come ora, anche se la quantità esatta è impossibile da contabilizzare. Secondo l’economista Gabriel Zucman, ci sarebbero all’incirca 7,6 miliardi di dollari procedenti da fortune personali nascosti in posti come Svizzera, Lussemburgo o Singapore.
L’evasione o elusione fiscale delle grandi fortune e multinazionali sta nel cuore tanto del vertiginoso aumento della disuguaglianza in tutto il mondo, come della tendente carestia finanziaria degli stati che alimenta il discorso dei tagli e dell’austerità. Si stima che in tutta la UE si perde ogni anno un miliardo di euro dagli incassi tributari per questo motivo. Un miliardo è sostanzialmente il PIL della Spagna. Qualcosa di particolarmente osceno in questi anni di crisi nei quali dalle istituzioni europee si chiedevano sforzi alla maggioranza della popolazione perchè accettasse tagli ai diritti e alle entrate in cambio di “venirne fuori tutti insieme” dalla crisi. Ma ai “paradisi” fiscali nessuno stringe la cinghia.
Inoltre è fondamentale ricordare che la concentrazione del reddito e della ricchezza è stata all’origine della crisi che, lungi dall’essere superata in questi anni, non ha smesso di aumentare. Le politiche economiche applicate dalle istituzioni comunitarie e dai governi hanno prodotto un trasferimento di risorse da sotto a sopra. Una collettivizzazione delle perdite. Un saccheggio freddamente pianificato. Un’economia di Hood Robin, questo invisibile ladro dai guanti bianchi che ruba ai poveri impoveriti per dare ai ricchi arricchiti. E, così come il cancelliere Palpatine con il Consiglio Jedi, perchè non restasse contrappeso alcuno alla rapina perfetta, le istituzioni e le politiche redistributive sono state oggetto di una sistematica operazione di stalking e demolizione dalle tribune elettorali, lobbies, partiti politici e mezzi di comunicazione al servizio di multimilionari e multinazionali.
Questi dieci anni dall’inizio della crisi del debito in Europa rappresentano una decade di sconfitta per le classi popolari, mentre sono stati un’epoca di vittorie per le grandi corporazioni che non hanno smesso di aumentare i propri benefici e il proprio potere. Un tempo segnato dalla combinazione di scarsezza e disuguaglianza, in cui la perdita di peso dei redditi da lavoro a favore di quelli da capitale distacca in modo particolarmente sanguinoso. Tempi di oligarchizzazione accelerata del potere: un fenomeno che si erge allo stesso tempo come risultato, causa e spina dorsale del nuovo ciclo storico che vive tanto l’Europa come, in particolare, la Spagna.
Nel suo ultimo rapporto, la Organizzazione Internazionale del Lavoro evidenzia il caso spagnolo in questa perdita dei redditi da lavoro in relazione con il PIL. In cifre: dal 2009 lavoratrici e lavoratori hanno perso 64.500 milioni di euro all’anno in questo processo, che non è altro che la lotta di classe in cifre macroeconomiche. Praticamente ciò che è costato (finora) il salvataggio delle banche. Però come se dovessimo pagarlo ogni anno. Invertire questa scandalosa situazione richiede irrimediabilmente inserire nell’agenda europea la riduzione del potere economico e politico di quelli che stanno in alto tramite la ripartizione del lavoro e della ricchezza come asse centrale per contenere la crescente disuguaglianza. E oggi non è più solo una questione politica o ideologica. E nemmeno morale. È anche l’unico modo di avere gli strumenti per poter affrontare la pandemia sociale che si avvicina.
In queste ultime settimane si sente parlare della necessità, davanti alla crisi economica e sociale che si avvicina, di implementare un “programma di ricostruzione”, un “Piano Marshall all’europea”, un “New Green Deal” o un “New Deal” e basta, ora che a quanto pare le élite si fanno passare la febbre verde e tornano a rimandare l’agenda ecologica a tempi migliori. In tutti i casi, molti nomi magniloquenti che concretizzano poco o niente in cosa consisterebbero questi programmi, e ancor meno in come si finanzierebbero. E non sono propriamente dettagli secondari. Perché se è importante parlare di aumentare la spesa sociale, lo è ancor più determinare chi pagherà la fattura. Succederà come con la crisi del 2008? Succederà come succede con i paradisi fiscali? Succederà come con Netflix?
Se vogliamo che stavolta la storia sia diversa dobbiamo resistere in maniera decisa alla rivolta dei privilegiati: un pugno di multimilionari e multinazionali che si rifiuta di pagare le tasse, praticando un autentico terrorismo fiscale col complice aiuto di governi e principali partiti, mentre si dedica a denunciare o a minacciare direttamente a chi denuncia la sua pratica di appropriazione indebita delle finanze pubbliche. Perciò, quando tireranno fuori il loro atteggiamento da statisti e ci parleranno di realizzare un “New Deal” per salvare l’economia post-pandemica, sarebbe bene ricordare loro che per finanziare l’originale Franklin D. Roosvelt portò le imposte sul reddito al loro massimo storico durante i 12 anni che durò il suo mandato (1933-1945). A coloro che guadagnavano più di 200.000 dollari di allora (al cambio storico, circa 3 milioni di dollari attuali), si applicava un aliquota fiscale del 94%, il più alto dei 24 scaglioni in cui si strutturava l’imposta sul reddito negli Stati Uniti in quegli anni post-depressione.
Oggi può sembrare rivoluzionario. Sicuramente perché la controrivoluzione neoliberale si è incaricata di fare in modo che quella vecchia distopia ci sembri semplice quotidianità. Per questo abbiamo bisogno di una rivoluzione fiscale come misura principale nella cassetta degli attrezzi contro la disuguaglianza galoppante. Ma a parte che come strumento necessario, la lotta contro evasione ed elusione fiscale e a favore di una fiscalità davvero progressiva costituisce, al giorno d’oggi, anche una messa in questione dell’ordine mondiale neoliberale imperante. Una messa in questione dell’incetta dell’insieme delle risorse del pianeta da parte di una minoranza pericolosa, che cerca poi di lavarsi la faccia con una specie di “filantro-capitalismo” osceno.
L’esempio più paradigmatico lo abbiamo avuto in questi giorni nella Comunidad de Madrid [la Regione di Madrid], con il governo del Partido Popular di Díaz Ayuso, che un giorno annunciava il più grande taglio delle tasse della storia e il giorno dopo, attraverso internet, chiedeva donazioni a impresari e multinazionali per poter finanziare la sanità madrilena durante la pandemia del coronavirus. Solo di imposte sul patrimonio, la regione smise di ricevere 955 milioni di euro nel 2017 (l’ultimo anno di cui si hanno registri) per esenzione ai più ricchi. Non vogliamo il loro marketing di beneficenza , vogliamo che paghino la fattura di una sanità pubblica, gratuita, universale e di qualità. Perchè, come abbiamo visto in queste settimane, tra le altre cose, ne va della nostra vita. E per fare in modo che cominci a diventare una realtà bisogna aumentare le tasse in modo sostanziale a chi possiede di più.
Affrontare la pandemia sociale che si avvicina significa inevitabilmente combattere la disuguaglianza, tutte le disuguaglianze crescenti, plurali e interconnesse, intervenendo nelle realtà che sono fonte e riflesso di tale disuguaglianza, come la fiscalità, la precarietà, la austerità o il potere corporativo. In definitiva, tornare a mettere al centro del dibattito la redistribuzione della ricchezza e delle risorse come asse centrale di un programma ecosocialista. Perché le nostre vite valgono di più dei loro benefici. E perché la nostra battaglia è tanto contro le élite che provocano disuguaglianza come contro chi se ne approfitta per trasformare i più colpiti in capri espiatori e assolvere i veri colpevoli. Una rivoluzione fiscale per far si che i paradisi fiscali di una minoranza non siano l’inferno della maggioranza sociale.