Divina commedia e spaghetti western intrecciati nell’ultimo romanzo di Alberto Prunetti, Nel girone dei bestemmiatori [Fabio Ciabatti]
La divina commedia e lo spaghetti western si intrecciano nell’ultimo romanzo di Alberto Prunetti, Nel girone dei bestemmiatori, che conclude in modo pirotecnico sua la trilogia di narrativa working class.
La classe operaia non va in paradiso. Anzi finisce dritta all’inferno. Ma anche lì non si perde d’animo, non smarrisce il suo senso dell’umorismo, il suo spirito mordace e ribelle. Anche dai bassifondi dell’aldilà proverà di nuovo a dare l’assalto al cielo. Vi sembra una storia improbabile? Vuol dire che non avete letto l’ultimo pirotecnico romanzo di Alberto Prunetti, Nel girone dei bestemmiatori. Una commedia operaia (Laterza, 110 pagg., 15 euro), libro con cui l’autore conclude, come meglio non potrebbe, la sua trilogia di narrativa working class iniziata con Amianto e proseguita con 108 metri.
Per fugare ogni dubbio, nel romanzo si parla dell’inferno in senso letterale. Nell’oltretomba incontriamo Caronte con le fattezze del custode zoppo dei campi di calcio dell’infanzia dell’autore, Dante con l’immancabile corona d’alloro sulla testa e i cherubini che indossano la maglietta con scritto “Staff”. E, soprattutto, troviamo Renato, il babbo di Prunetti, personaggio centrale anche dei primi due capitoli della trilogia. Nel terzo, Renato si occupa della manutenzione degli impianti dell’inferno, compresi quelli che provvedono alla “messinscena” tutta fuoco e fiamme voluta dal “Principale”. Una “coreografia” che non impressiona per niente Renato: “Vai all’altoforno al turno di notte e dopo ‘un c’è inferno che tenga. In quella fucina nera, in quella rena arsiccia, le scintille del padrone scendevano come pioggia di foco”. L’oltretomba di Prunetti, insomma, è assai poco spirituale perché assomiglia molto all’inferno in terra vissuto dalla classe operaia, per quanto raccontato con quel registro tragicomico che caratterizza la migliore commedia.
Alle avventure ultraterrene di Renato si alternano quelle terrene, raccontate dall’autore alla sua piccola figlia che non ha potuto conoscere il nonno, morto prematuramente a causa dell’esposizione all’amianto nel corso della sua attività lavorativa di operaio specializzato. Il tono di questi capitoli è ovviamente più realistico, ma si tratta comunque di un realismo dai tratti fiabeschi. Il padre trasmette alla figlia (e, in fondo, alle generazioni più giovani dei suoi lettori) la memoria collettiva di una classe operaia che sembra scomparsa. Perché ai padroni non è bastato portare via i diritti, il salario, la fatica, il tempo e a volte anche la vita. Hanno pure voluto far credere che siamo diventati tutti ceto medio: “Quando ti portano via il nome e il diritto a esiste, ‘un s’accontentano di vince’. Ti vogliono anche umilià”.
Le storie di vita vissuta, sempre annaffiate da ironia, improperi, copiose quantità di vino, come le antiche fiabe di cui ci parla Benjamin, raccontano l’astuzia e l’impertinenza degli oppressi, tramandando il ricordo che il popolo ha delle proprie passate gesta. Quelle gesta cancellate attraverso le saghe degli dei e degli eroi mitologici che in un lontano passato rappresentavano, in forma simbolica, la storia dei vincitori, la storia scritta dai potenti. Nei racconti di Renato, però, c’è una sorta di espropriazione degli espropriatori, almeno a livello di immaginario. “I miti classici diventavano un’epica metalmeccanica”, in cui Ercole è uno dei “nostri” con le sue “dodici fatiche operaie”: cercare il lavoro, essere usato dal padrone, costruire il sindacato, battere il padrone, la liberazione finale di tutti (d’accordo, non sono proprio dodici, ma anche l’autore dice di non ricordarsele tutte). I suoi “miti all’incontrario” erano “storie millenarie piene di avversari potenti, luoghi maligni e compagni capaci di magie straordinarie”.
In questo ultimo romanzo, dunque, Prunetti si conferma più che mai un raffinato cantastorie che rimette in circolo una catena di tradizioni, utilizzando vecchie storie, quelle del suo babbo e della sua comunità operaia e popolare, per raccontarne di nuove. Non a caso il titolo di ogni capitolo inizia con “La storia di …”. Ogni capitolo potrebbe essere raccontato singolarmente, davanti a un fuoco e un bicchiere di vino. Per poi essere narrato nuovamente da altri, senza preoccuparsi troppo di rimanere fedeli all’originale. Potremmo anche dire che, seguendo le antiche tradizioni, ogni storia ha una sua morale perché l’eroe dei suoi racconti è l’uomo giusto.
Certo, se per uomo giusto ci si aspetta un saggio con propensioni spirituali e pose ieratiche non si può che rimanere delusi. Perché quello che ci si presenta leggendo Prunetti è il trionfo dello spirito carnevalesco. Le pagine del romanzo sono infatti intrise di quel riso popolare, così ben descritto da Michail Bachtin, che distrugge ogni distanza gerarchica, che annienta la paura e il rispetto di fronte al mondo dei potenti. Quello carnevalesco è un mondo in cui alto e basso, spirituale e materiale, vita e morte, nobile e volgare, convivono in dinamica osmosi. Nel romanzo di Prunetti la divina commedia si incontra con lo spaghetti western, epica cinematografica di cui si è nutrito l’immaginario di tanti eroi working class della generazione di Renato perché loro, in fin dei conti, si sentivano “cow boy del metallo con la chiave inglese e la tuta blu al posto di cappello e speroni”, capaci di “raddrizzare i ferri e i torti con pochi sapienti colpi di martello, certi della loro lealtà verso gli altri”.
Nessuna sorpresa dunque se il povero Dante viene un po’ bullizzato dal nostro eroe che lo considera uno scansafatiche privilegiato, insomma uno “studiato” sempre pronto a cantare le lodi del padrone. Non potrebbe essere altrimenti nell’inferno sottosopra di Prunetti perché, come dice Renato rivolgendosi proprio a Dante, “quando il poeta con l’alloro incontra il saldatore con le 150 ore … l’hai capita questa, no? L’avrai visto il film di Sergio Leone? Quello con Clint?” Il dantista non si crucci, però, alla fine il sommo poeta avrà il suo riscatto, anche se un po’ maldestro.
In fin dei conti la presa in giro di Dante è anche una forma di autoironia dell’autore. Non perché Prunetti si paragoni al rimatore fiorentino quanto ad ars poetica, ma semplicemente perché i due condividono lo stesso mestiere, quello di scrittore, nei confronti del quale Renato nutre una sana diffidenza popolare: “Che poi voi col naso sempre infilato nei libri, con la storia delle sudate carte siete bravi a nascondervi quando c’è da sudà davvero”.
Il riso carnevalesco, insomma, non può risparmiare nessuno. Il popolo ride anche di stesso perché solo in questo modo può morire, rinascere e rinnovarsi. Neanche lo scrittore working class la può passare liscia. E così, quando l’autore incontra per la prima volta il babbo all’inferno e gli racconta con grande orgoglio che ora tutti conoscono la sua storia perché suo figlio l’ha scritta, la risposta di Renato non suona proprio come un encomio: “Bravo figliolo, so’ contento che ‘un ti fai mai i cazzi tua”. E poi va avanti per un po’ a prenderlo in giro ricordandogli, a modo suo, che non si deve montare la testa: “Che poi invece di lavorà ti sei messo a scrive’ sul lavoro … sei proprio un artista”! Uno scrittore working class che si prendesse troppo sul serio sarebbe sempre a rischio di trasformarsi in un transfuga di classe, sembra dirci l’autore attraverso la voce del suo babbo.
Mescolando mirabilmente nella narrazione registro alto e registro basso, Prunetti riesce perfettamente nel suo intento: scrivere della classe operaia, la sua classe, senza scadere né nell’autocommiserazione del soggetto oppresso e sconfitto né nella retorica edificante dei bei tempi andati. Il racconto del passato vuole essere una scossa per il presente. L’immaginazione vola fin dove una semplice fotografia del nostro tempo non riuscirebbe a portarci. Ma l’immaginazione non è astrusa fantasticheria. Ha comunque le sue radici piantate nella storia e nella memoria di un soggetto collettivo effettivamente esistito.
Renato è un personaggio al tempo stesso reale e immaginario, un soggetto individuale e contemporaneamente la sintesi del sentire comune di una classe. È un eroe che rimane sempre uguale a se stesso, sulla terra e nell’inferno. Perché non ha una ferita interiore da rimarginare per conciliarsi con se stesso e trovare il suo posto nel mondo, come pretenderebbe una certa manualistica hollywoodiana. Potrebbe vivere felice se i padroni e gli “studiati” non calpestassero il suo mondo. La contraddizione che muove la sua storia è tra lui e il mondo. È un eroe che, come tutti gli eroi autenticamente rivoluzionari, non può concludere il suo viaggio. Perché si può tornare a casa per vivere felici e contenti solo dopo aver sconfitto il mostro. Ma cosa succede se il mostro è il nostro stesso mondo che ci opprime e ci sfrutta? Allora non rimane che tentare anche dall’inferno un nuovo assalto al cielo.
Come andrà a finire questo bizzarro arrembaggio? Niente paura. Non toglierò al lettore il piacere di scoprirlo da solo. Posso solo dire che Renato in questa ultima avventura (ultima per quel che ne sappiamo) avrà al suo fianco Steve McQueen che suona con l’armonica la musica di C’era una volta il West. E che la storia si chiude col botto. In senso metaforico e letterale.