“Il fatto” di Umberto I ucciso dall’anarchico Bresci, il 29 luglio 1900
La sera del 29 luglio 1900, poco dopo le 22, il re scese dal palco reale, al termine d’un saggio ginnico, tra le acclamazioni della folla. Salì in carrozza, neanche il tempo di muovere i primi passi e nella calca esplosero tre-quattro colpi di pistola – nessuno seppe mai dire quanti fossero con certezza – e si accasciò, spirando di lì a poco. Lo sparatore venne afferrato, sarebbe stato linciato se i carabinieri – che comunque dettero modo ai presenti di malmenarlo un bel po’ – non l’avessero sottratto all’ira della gente. Più tardi, nella caserma dei reali carabinieri di Monza, avrebbe declinato le sue generalità, mentre la notizia della morte di Umberto I iniziava a circolare, facendo abbrunare le prime bandiere. Il pazzo, la belva umana assetata di sangue – come gran parte dei giornali titolarono l’indomani – era un giovane di Prato, nato lo stesso giorno del primogenito di sua maestà, quel Vittorio Emanuele III che veleggiava di ritorno dal Montenegro, fresco sposo, e ancora non sapeva d’essere re. Aveva perciò rischiato di chiamarsi allo stesso modo, e l’atto di nascita sarebbe stato manomesso dalla burocrazia regia, a ulteriore scorno del reo.
Gaetano Bresci – questo il nome del regicida – era rientrato dagli Stati Uniti apposta per compiere “il fatto”, come lui stesso lo chiamò. Uccidere non tanto il re, come lui stesso avrebbe dichiarato a più riprese negli interrogatori e nel processo lampo che si sarebbe tenuto a Milano, ma un principio. Il sovrano che aveva permesso il massacro dei fasci siciliani e, buon ultimo, decorato il generale Bava Beccaris per aver preso letteralmente a cannonate la folla a Milano, durante i tumulti per il pane, nel 1898. Un’ottantina di morti e quasi cinquecento feriti, stando ai dati ufficiali e viziati per difetto. Due anni aveva maturato “l’esecrando crimine” il regicida. Poi a maggio s’era mosso da Paterson, nel New Jersey, dove si guadagnava il pane come operaio specializzato nella tessitura e messo su famiglia, dopo esservi riparato a seguito di una prima condanna in Italia per resistenza alle guardie municipali pratesi. Anarchico dichiarato, aveva comprato una pistola che ancora fa bella mostra di sé al museo del crimine di Roma, assieme alla sua macchina fotografica.
Bresci era un paino, un damerino come lo schernivano i suoi stessi compagni di lotta. Ricercato nel vestire – prima d’ammazzare Umberto ebbe modo di comprarsi un bel paio di scarpe gialle – forbito nel parlare, dalla vasta cultura autodidatta. Un donnaiolo impenitente. Un bell’uomo, al punto che pure Lombroso, autore della fisiognomica criminale allora in voga, dovette arrendersi a non trovare nel suo viso alcun cenno di degenerazione. Coraggioso al limite dello strafottente, imperturbabile sotto i colpi che le guardie non gli avrebbero risparmiato durante la detenzione, come nel rivendicare il fatto e le sue ragioni. Nel non cedere alla dura vita dell’ergastolano. Credeva che la rivoluzione, prossima, lo avrebbe liberato, e con lui l’umanità, fatto di lui un eroe. La polizia segreta e ordinaria di Giolitti si dette da fare anni per mettere le mani sul complotto che aveva portato alla morte del re. Tutti ne erano convinti anche se il reo confesso ripeteva d’aver fatto tutto da sé.
Più in là delle trame della “grande vecchia”, la regina Maria Sofia vedova di Franceschiello, non poté andare, né mai riuscì a mettere le mani sul complice di Bresci. Quel Luigi Granotti, detto il biondino, che attendeva il re sull’altro lato della scalinata per far fuoco a sua volta, ed ebbe modo di svignarsela indisturbato per morire in America nel ‘49. Solo due anni dopo, in età repubblicana avanzata, sarebbe stato cassato dai casellari della polizia come nemico pubblico numero uno per uscire di scena tra le comparse della storia. Bresci rimase unico protagonista del “fatto”. Condannato all’ergastolo nonostante l’impegno dell’avvocato Saverio Merlino – Filippo Turati non volle assumerne la difesa – e tradotto a Ventotene nell’autunno, morì suicidato nella cella speciale fatta costruire per lui nel penitenziario di Santo Stefano, in totale isolamento.
Il registro carcerario riporta la data del 22 maggio 1901, ma Bresci – che nonostante l’abolizione portava le catene – era già morto. Presumibilmente da giorni, dopo un’aggressione condotta da tre agenti carcerari e un’esecuzione eseguita da un altro ergastolano, ricompensato con la grazia di lì a poco. Strangolato con un fazzoletto di color bleu, con le proprie mani, per il rimorso, avrebbe detto la stampa unanime senza porsi il benché minimo dubbio. Da pochi giorni sul tavolo di Giolitti campeggiavano le note degli infiltrati ai più alti livelli del movimento anarchico che vagheggiavano di un piano d’evasione, ordito da Errico Malatesta e dalla ex regina. Uniche certezze l’invio dell’ispettore carcerario Alessandro Doria, che sarebbe rapidissimamente asceso a direttore generale degli istituti di pena, nei giorni antecedenti il suicidio, e il fascicolo riservato su Bresci, scomparso. Agli archivi di stato resta solo la relativa cartellina, vuota. Come la cancellazione della nascita, anche in morte si volle cancellare la memoria dell’anarchico tornato dall’America per uccidere il re. La sua tomba giace sotto una croce e la sterpaglia, nel cimitero abbandonato degli ergastolani, là dove Luigi Veronelli credette di rinvenirla. A Carrara gli anarchici gli hanno dedicato una stele che i monarchici ogni tanto imbrattano. E la vera storia dell’uomo senza date di nascita e morte certe è tuttora da raccontare, a centovent’anni dal “fatto”, non solo per chi ne condivida ancora gl’ideali.
Sopra: Flavio Costantini, Gaetano Bresci spara a Umberto I, 1974; foto dell’anarchico Bresci