Rabbia, malinconia, affabulazione: Claudio Lolli raccontato alla radio da un altro poeta: Marco Rovelli
Popoff quotidiano pubblica il testo della puntata che Wikipedia, l’enciclopedia radiofonica di Radio3, ha dedicato a Claudio Lolli il 17 agosto scorso. A firmarlo Marco Rovelli, scrittore e musicista, classe 1969. Rovelli, sta per uscire – accadrà a marzo ’21 – Minimum fax con “Vorrei farti vedere la mia vita” (Minimum fax), titolo provvisorio di un “romanzo di Claudio Lolli e dei suoi mondi”. Da poco è uscito il suo disco “Portami al confine” (squilibri) contenente una versione di La giacca cantata insieme a Lolli. Ma questa è un’altra storia…
Claudio Lolli, uno dei più grandi poeti della musica italiana, nasce a Bologna il 28 marzo 1950. Cresce nel centro storico della città, in una famiglia piccolo borghese benestante, e questi sono due elementi che saranno decisivi sia per la sua vita che per la sua poetica, posto che le due cose, in Lolli, non saranno mai scisse. Lolli sarà un cantautore di Bologna, anzi forse il cantautore di Bologna per eccellenza: resterà in quel centro storico fino alla morte, e sarà sempre intimamente legato alla storia sociale della città, soprattutto per il rapporto con quei magnifici anni settanta di cui spesso sarà considerato il cantore. Il conflitto con la famiglia è un elemento tipicamente generazionale. E’ la generazione del conflitto edipico, con l’autorità genitoriale all’interno dell’istituzione familiare, e fuori dalla famiglia con le istituzioni sociali. Il giovane Claudio Lolli sperimenta su di sé le asprezze di un’educazione tradizionalistica, rigida, repressiva, e così, nel ’68, a diciott’anni ci vuole poco a riconoscere nelle istanze del movimento della contestazione globale le proprie istanze: la lotta contro l’autoritarismo della scuola, della famiglia, della politica, e, insieme, una prospettiva di classe attraverso cui leggere la società. Lolli ha cominciato da qualche anno a riversare la propria passione intellettuale – è un ragazzo che legge tanto, e leggerà sempre voracemente – nella composizione di canzoni: come tanti adolescenti, compone nella sua cameretta, chino sopra sulla sua chitarra gialla e nera, regalo dei genitori. Compone canzoni per sgrovigliare i propri tormenti interiori, racconta il proprio essere inadeguato al mondo, come di un giovane Holden: come dirà molti anni dopo, “l’immagine più persistente che ho di me non è quella di padre, marito, insegnante, musicista, ma quella di un ragazzino timido che cerca di capire, scrivere, per affrontare la propria difficoltà di stare al mondo, la propria inadeguatezza”. Ascolta i cantautori francesi come Brel e Brassens, gli angloamericani come Dylan e Cohen e gli italiani come Tenco e De Andrè. Da questo iniziale apprendistato, usciranno i suoi due primi gioielli musicali; Michel, dedicata a un suo grande amico delle medie di origine francese che in Francia era tornato – una canzone dall’arpeggio un po’ dylaniano un po’ coheniano che è non solo nostalgia, ma una consapevolezza di quanto importante sia la tenerezza che ci unisce – e Borghesia, o Piccola borghesia come l’aveva intitolata all’inizio, che non a caso compone nel ’68 e canta nelle schitarrate nella scuola occupata. La borghesia che racconta, in questo pezzo brassensiano, è sì una classe sociale che ha imparato a comprendere, da quando legge Marx e l’amato Gramsci, ma soprattutto è il suo vissuto, l’esperienza che ha provato sulla sua pelle da quando è venuto al mondo.
Nell’aprile del ’71, mentre è iscritto alla facoltà di lettere e segue i corsi di storia di Carlo Ginzburg, fa amicizia con un certo Piero Guccini, col quale capita all’Osteria delle Dame, una cantina che è stata aperta pochi mesi prima. A gestirla è il fratello di Piero, Francesco Guccini, di dieci anni più vecchio, che ha già inciso diversi dischi, dischi che Claudio conosce bene. Così, dopo aver ascoltato i suoi pezzi, Guccini gli dice di andare a suonarli all’osteria, dove a mezzanotte il palco è libero e chi se la sente si esibisce. Poco tempo dopo, tra il pubblico ci sono i discografici della Emi, venuti per festeggiare il contratto dell’album di Radici, quello della Locomotiva, che già fischia nell’aria come un inno epocale. Francesco invita Claudio a suonare, Claudio suona qualche pezzo, ed è fatta: i discografici gli chiedono di andare a Milano, per mettersi d’accordo per l’incisione di un album. Ne verrà fuori Aspettando Godot, che sarà messo in commercio il 22 febbraio 1972. Nell’album ci sono Michel e Borghesia, e altre canzoni come Quando la morte avrà, che racconta l’impossibile riconciliazione col padre, e Quelli come noi, una canzone manifesto, che racconta una condizione comune. Racconta di persone sghembe, inadeguate al mondo come tanti giovani Holden, che si riconoscono a distanza. Ed è per questa canzone che Claudio Lolli comincia a essere percepito come un fratello da migliaia e migliaia di persone che lo ascoltano cantare. Perché offre a tutti gli sghembi e inadeguati del mondo una possibilità di salvezza. Siamo vinti dalla vita, siamo quelli che ci dimentichiamo delle pene davanti a una bottiglia; ma questa nostra melanconia, se la mettiamo insieme, può fare la Rivoluzione.
Il giovane Claudio non si occupa personalmente dell’arrangiamento di Aspettando Godot, così come farà anche dei due album successivi: Un uomo in crisi e Canzoni di rabbia. Come lui stesso dirà, l’arrangiamento orchestrale va a detrimento del fatto che non si percepisca abbastanza, in quelle canzoni, l’elemento della rabbia e della rottura, che invece era assai presente, e accentui invece quello della tristezza e della malinconia, che pure è un elemento centrale nella poetica di Lolli, ma nel senso di Leopardi e di Benjamin: la malinconia come elemento di rottura col presente, e come potentissima forza di trasformazione del reale. Se si aggiunge che lo stesso comunicato stampa di lancio di Aspettando Godot fatto dalla Emi lo presenta in questo modo: Claudio Lolli non sorride mai, è ingoiato da un mondo senza speranze, carico di pessimismo, si capisce che comincia a circolare un immagine di cantautore lugubre. E invece, la poetica di Claudio Lolli è pervasa da un’ansia di vita potentissima, ed è una continua celebrazione della vita – come risulterà evidente di lì a poco in maniera chiarissima, con gli zingari felici: Riprendiamoci la vita, la luna la terra e l’abbondanza. Sì, Claudio Lolli canta la felicità.
Ho visto anche degli zingari felici, quello che sarà il suo album più conosciuto, non nasce come album, ma come live. Claudio si è stancato di suonare da solo, di collaborare con musicisti occasionali. Vuole uscire da sé, mischiarsi, confondersi con gli altri, produrre nuovi linguaggi – così come vede accadere attorno a sé in quegli anni che sono anni di rame, come dirà Erri De Luca, contro la retorica degli anni di piombo, anni di rame perché anni di connessione, comunicazione e scambio. Claudio si sente parte di questa nuova sinistra: pur senza aderire a nessun gruppo in particolare, si sente totalmente dentro quello che in quegli anni si chiama “il movimento”. Così chiede a due giovani del Collettivo Autonomo Musicisti di via Irnerio se vogliono lavorare con lui. Ci sono una serie di canzoni che si tratta di legare e tessere in un’unica suite. Una suite di 45 minuti è un’idea radicalmente innovativa, per un cantautore. E innovativa sarà anche la veste musicale che gli viene data, col sax di Danilo Tomasetta e la chitarra elettrica di Roberto Soldati, che due anni dopo lascerà gli zingari felici per diventare professore di fisica teorica all’Università. La suite degli zingari è presentata da Claudio Lolli come la storia affettiva di una piazza, piazza che è il luogo dello scambio di parole e di corpi. Quella piazza è piazza Maggiore. Lì ci sono i funerali per le vittime dell’Italicus, una delle tante stragi di Stato nell’Italia della strategia della tensione, quella stagione iniziata col volo di Pinelli dal quarto piano della questura. Lì ci si ama, e passano le Anne Di Francia a incarnare la voglia d’amore, e di sperimentare nuove relazioni personali, nuove forme di vita, nuovi rapporti sociali. Lì si fa festa il primo maggio per il Vietnam libero, proprio nel giorno in cui muore il padre. Lì stanno gli zingari felici, a corrersi dietro, far l’amore e rotolarsi per terra, a ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
La suite è un successo, e diventa un disco, che vende più di centomila copie. Gli anni dal 75 al 77 sono quelli più felici, per Claudio e per gli zingari felici del movimento bolognese, l’ala più creativa di quella stagione di lotte, rappresentata in maniera esemplare dagli indiani metropolitani, con la loro volontà di disarticolare e sovvertire il linguaggio del potere non con il piombo ma con le pratiche di comunicazione sociale di cui è un simbolo Radio Alice. Claudio è considerato il portavoce musicale del movimento, ma no, il movimento non ha portavoce, lui è uno dei tanti che ci stanno dentro, che ascolta, osserva, e poi crea, e scrive. Poi arriva l’11 marzo ’77, Francesco Lorusso muore ucciso da un carabiniere che spara ad altezza d’uomo, e i carri armati entrano a Bologna. Disoccupate le strade dei sogni, stanno dicendo quei carri armati. Sarà questo il titolo del disco che Claudio Lolli incide nel ’77. Arrangiato da musicisti di estrazione progressive, a cominciare da Bruno Mariani, è un disco musicalmente potentissimo, ma anche caotico e cupo, come caotico e cupo è quel ’77 dopo la morte di Lorusso. Ci sono brani come Analfabetizzazione, che esprime proprio quella volontà del movimento di disarticolare il linguaggio del potere dando alle cose un nome nuovo. Ma ormai siamo in un incubo, un incubo numero zero: le strade e le piazze sono sgomberate, in più di tre persone è un’adunata sediziosa, signori si chiude.
E’ un cambio di passo. Claudio Lolli, dopo aver conosciuto Marina, che sarà la donna della sua vita, si laurea nel ’78 con una tesi su Vittorini, e poi pensa a un nuovo disco: Extranei. Ex: perché è bastato poco per sentirsi già dei reduci. Ma anche estraneità rispetto al mondo che sta cambiando, tutto intorno si sente il cosiddetto riflusso, che poi diventerà l’Italia da bere degli anni ottanta. E allora, con questo senso di estraneità addosso, Claudio ha scritto canzoni visionarie, racconti di mondi che si aprono dentro tante persone. Perché quando si chiudono dei mondi, se ne aprono altri. E i musicisti, a cui dedica una delle canzoni del disco, sono il prototipo di una stirpe di nomadi, gente che magari non fa grandi discorsi, ma che ha grande sensibilità e ricchezza espressiva, e intuisce e anticipa cose. E’ uno dei dischi più belli in assoluto di Claudio Lolli, ma commercialmente non sfonda, anche perché ci sono canzoni con notevole grado di complessità sia nei testi che nella musica.
Il gruppo, nel frattempo, si sfalda, ognuno prende la sua strada, e per il disco dell’83 Lolli si affida alla Emi. Antipatici antipodi, si intitolerà: e la canzone che dà il titolo all’album racconta, dirà Lolli, di una generazione di gente deportata, imprigionata, o, per quanto sia rimasta libera, che sente sempre di vivere in Italia come in esilio. L’album, che ha la copertina disegnata da Andrea Pazienza, e ha partecipazioni significative ai testi come quelle di Roberto Roversi e Claudio Piersanti, viene arrangiato in maniera più pop, per renderlo più commerciale, e questo non rende giustizia alle canzoni, né, peraltro, servirà per incrementare le vendite. Lolli verrà anche portato in tv, in una gara musicale, cosa a cui lui si sente massimamente estraneo. E proprio quella esperienza convince Lolli – che non ha mai pensato al proprio far musica come un lavoro a tempo indeterminato – che occorre una svolta. Dopo aver pubblicato il suo primo romanzo breve, L’inseguitore Peter H., dove risuona una forte cultura letteraria mitteleuropea, si mette a studiare per il concorso da insegnante, arriva primo in Emilia Romagna, e nell’86 comincia la sua carriera di insegnante di italiano e latino, a cui si dedicherà per più di vent’anni. Sarà per lui un’esperienza importantissima: Mi ha cambiato, dirà sempre. E saranno tanti i ragazzi cambiati da lui, nel suo insegnamento, in cui abbinava una grande preparazione a una grande empatia, certo che fosse la letteratura che insegnava a essere al servizio della vita e non il contrario, e questo eccedeva di gran lunga un semplice, misero voto in pagella.
Tra l’88 e il 92 produce altri due dischi per la Emi, dischi che restano ormai in una nicchia un po’ per addetti ai lavori, per quanto vi siano canzoni straordinarie come Adriatico, che racconta un mare e un tempo nemico, o La fine del cinema muto, o ancora Tutte le lingue del mondo, una delle sue canzoni d’amore. Diversamente da quel che taluni pensano, non c’è un primo Lolli più politico e un secondo più intimista: la sua poetica è sempre la stessa, quella di un uomo che cattura col suo sguardo pezzi dei mondi che attraversa e li trasfigura. E se qualcosa cambia, non è lo sguardo di Lolli, ma i mondi intorno a lui.
Lolli si dedica sempre di più alla scrittura – escono due raccolte di racconti tra il 90 e il 95, Giochi crudeli e Nei sogni degli altri, il primo un libro kafkiano, come dice il suo amico Alberto Bertoni, professore di letteratura italiana contemporanea all’università di Bologna, il secondo dove si sente di più la sua passione per gli americani come Carver. Quanto alla musica, invece, dall’83 non fa più concerti. Quel mondo si è disgregato, e Claudio Lolli non forza la realtà. Ne ha create altre. Ma nel ’93, scopre una dimensione nuova, grazie a un incontro artistico che dà vita a una sua nuova presenza sulle scene, quello con il cantautore Paolo Capodacqua, che sarà per quasi 25 anni il chitarrista che lo accompagnerà. La mia orchestra, dirà Lolli, e un fratello. In due gireranno i palchi di tutta Italia, fino ai posti più sperduti, a incontrare quella numerosa nicchia che è la tribù dei lolliani. E questa sarà la vera seconda vita artistica di Claudio Lolli. Una vita dove si ricreano, di volta tante piccole e grandi piazze, dove mettere in scena la vita, rovesciarla come un guanto, giocarla. E infatti Claudio, che da giovane parlava pochissimo o nulla, nei suoi concerti, diventa un grande affabulatore, e battutista. Inscena la gravitas della comicità, e la leggerezza del tragico.
Dal ’92 Claudio ha scritto canzoni nuove, anche musicalmente diverse: Lolli parlerà di un “ritorno alla semplicità”, lontano dalle complessità armoniche degli album di vent’anni prima. Scrive canzoni come Curva sud, che racconta un mondo freddo, in cui di là dell’Adriatico si vedono gli orrori della guerra civile jugoslava, con quel fanatismo delle bandiere. Scrive Ulisse, dedicata a un amico e a se stesso, pensando alla ricerca collettiva di un mondo, nuovo e adesso in mezzo al mare non c’è più nessuno. E poi canzoni d’amore: Dita, Io ti faccio del male, Come ho fatto a stare tanto senza te. Il senso di estraneità verso il mondo è adesso più mediato dalle situazioni personali sentimentali che non da un’appartenenza. Il quaderno politico è quello dei sentimenti e delle passioni, universi dove Lolli trova verità, quando invece nella politica non c’è più niente di vero. Ancora una volta, non è la poetica di Lolli che cambia, ma i mondi attorno a lui: se negli anni settanta si immaginava che il personale fosse politico, adesso pare che tra le due cose ci sia una divaricazione irreversibile.
Nel ’97 queste canzon finiscono in un album dal titolo proustiano, Intermittenze del cuore. Lì c’è anche una canzone dedicata a un autore che Lolli ama molto, Piero Ciampi. I musicisti di Ciampi, questo il titolo della canzone, racconta la difficoltà di far passare la poesia attraverso il microfono, attraverso lo studio di registrazione, attraverso i tecnici, attraverso l’industria, attraverso il denaro, E nel ’98 al premio Ciampi, a Livorno, riceve un premio alla carriera.
Poi c’è l’incontro con l’etichetta Storie di Note, per cui produrrà quattro dischi tra il 2000 e il 2009, compreso un remake di Ho visto anche degli zingari felici in versione combat-folk con la band Il Parto delle Nuvole Pesanti.
Anni in cui Lolli sta sempre, come significativamente è intitolato uno di questi album, Dalla parte del torto. Ma anche canta l’amore: nel 2009 pubblica Lovesongs, insieme a Capodacqua e al sassofonista Nicola Alesini. E poi, un disco in cui c’è lo spettacolo fatto per tanti anni con l’amico poeta Gianni D’Elia, dove le poesie di D’Elia risuonavano, rispecchiandosi, con le canzoni di Lolli. Ma anche Lolli scrive poesie, e le pubblica nel 2004, con le foto del suo amico Eric Toccaceli, in una raccolta, Rumore rosa.
Nel 2012, dopo aver pubblicato Lettere matrimoniali, un romanzo epistolare indirizzato alla donna della sua vita, ha un incidente al teatro Goldoni, e da lì comincerà una stagione di problemi fisici, che dal 2014 lo costringeranno a non poter più fare concerti. Nel 2017 pubblica il suo album Il grande freddo. E’ il freddo di un mondo che è andato in senso opposto rispetto a quello che nella gioventù si avrebbe desiderato, ed è anche il freddo di una condizione in cui ci si sente sempre meno connessi al proprio corpo. Il disco riceve il premio Tenco come miglior disco dell’anno. Il 17 agosto 2018, in seguito ad alcune complicazioni, Claudio Lolli muore. I suoi funerali vengono fatti nella sala comunale in piazza Maggiore, nella sua piazza bella piazza.
Purtroppo le canzoni di Claudio Lolli si sentono poco in giro. Nel mio piccolo ho pubblicato un rifacimento di “Aspettando Godot”: https://www.youtube.com/watch?v=GURNW5QS5CA l’arrangiamento è un po’ diverso dall’originale, ma credo di non averla stravolta. Spero che piaccia, e che possa contribuire a tener viva la musica del maestro.