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Spagna, troppe strade portano ancora al franchismo

Mentre il governo Sanchez vara la legge della memoria democratica, un sito francese conta i nomi delle strade dedicate a Franco e ai suoi complici

Il governo spagnolo ha approvato stamane un progetto di legge che finanzierà l’esumazione delle vittime della guerra civile del 1936-1939 e della dittatura franchista da centinaia di fosse comuni. Gli attivisti stimano che più di 100mila vittime della guerra sono sepolte in tombe non contrassegnate in tutta la Spagna. Un numero, secondo Amnesty International, superato solo dalla Cambogia.

«Ogni passo che favorisce la memoria democratica è un Orgoglio Democratico, ma non possiamo dimenticare che il muro dell’impunità del franchismo rimarrà molto presente fino a quando non assicureremo un effettivo accesso alla giustizia per le vittime», ha twittato l’eurodeputato di Anticapitalistas, Miguel Urban. Il disegno di legge, infatti, vorrebbe colmare alcune delle lacune della legge di Zapatero del 2007, pesantemente criticata dai gruppi di vittime, in particolare perché non è mai stata accompagnata da sufficienti bilanci pubblici per la sua attuazione.

La cosiddetta ‘Legge sulla memoria democratica’ approvata dal governo del premier Pedro Sanchez, renderà l’esumazione dalle fosse comuni una «responsabilità dello Stato». Il disegno di legge, che deve ancora essere approvato dal Parlamento, creerà anche un database del Dna per aiutare a identificare i resti trovati nelle fosse comuni. Il governo spagnolo finanzierà il progetto con 750mila euro con il 60% destinato alla ricerca dei dispersi. «Memoria, giustizia e risarcimento devono essere questioni di Stato. Oggi facciamo un altro passo nel riconoscere le vittime della guerra civile e della dittatura con la legge sulla memoria democratica. Oggi chiudiamo un po’ di più le ferite e possiamo guardare al passato con maggiore dignità», ha twittato Sanchez. In base a una precedente legge sulla memoria storica approvata nel 2007 da un precedente governo socialista, lo Stato ha semplicemente offerto sostegno alle famiglie per rintracciare e riesumare i parenti sepolti nelle tombe non contrassegnate. Ma quel sostegno è venuto meno dopo che il partito popolare conservatore, molto legato a ferrivecchi del franchismo, è salito al potere nel 2011, sostenendo che erano state aperte inutilmente vecchie ferite. Sanchez ha fatto della riabilitazione delle vittime dell’era di Franco una delle sue priorità da quando è salito al potere.

Ma Franco è ancora molto presente nelle strade della Spagna. Circa 104 posti – 53 strade, otto viali, cinque “incroci”, due vicoli e 36 piazze – fanno ancora riferimento al dittatore nel 2020. Dalle Isole Baleari alla Galizia (Spagna nord-occidentale), si può passeggiare lungo l’Avenida Generalísimo o Calle Caudillo, soprannomi dati al dittatore che ha imprigionato la Spagna per trentasei anni.

I generali putschisti e gli altri alti dignitari del regime non sono da meno: i loro nomi sono ancora incisi su molti cartelli stradali del regno. Mentre il governo spagnolo rende noto il testo della “legge democratica della memoria”, un sito francese, Mediapart, ha scoperto che non meno di 655 strade rendono ancora omaggio a Franco e ai suoi complici con buona pace della legge sulla “memoria storica” del 2007 durante il governo di José Luis Rodríguez Zapatero (PSOE, socialista), che obbliga i governi locali a rimuovere qualsiasi simbolo che incensi o commemori il pronunciamento, la guerra civile e la repressione di Franco. Ma la legge non è chiara sulle conseguenze della mancata osservanza. “I sindaci possono decidere se rispettare o meno la legge perché infrangere la legge è gratuito”, dice a Mediapart Eduardo Ranz, avvocato per le famiglie delle vittime della guerra civile ed ex consigliere del ministero della giustizia sulla “memoria storica”. Ma la legge non dovrebbe cambiare radicalmente la situazione per quanto riguarda l’eliminazione dei simboli di Franco, secondo Ranz: “Scadenze e sanzioni avrebbero dovuto essere imposte per inadempienza. “Resta da vedere se i deputati interverranno nei dibattiti sul testo al Congresso per modificarlo su questo punto”.

Nel frattempo, la segnaletica stradale continua a riferirsi a José Antonio Primo de Rivera, fondatore della Falange spagnola nel 1933. Oggi, non meno di 211 strade e altre piazze rendono omaggio al padre della principale organizzazione fascista spagnola, che divenne il partito unico sotto la dittatura di Franco dopo la fusione con la JONS (Juntas de Ofensiva Nacional Sindicalista) nel 1937. La maggior parte delle targhe menziona solo il suo nome di battesimo e molti sindaci spiegano, non senza malafede, “che non si riferiscono a Primo de Rivera”, dice Carles Mulet, un senatore del partito Compromis (un gruppo politico con sede a Valencia), che è stato in prima linea nella lotta per eliminare questi riferimenti.

Si legge ancora su Mediapart: «È in entrambe le Castilles che la probabilità di camminare lungo la via del generale Yagüe, conosciuta anche come “il Macellaio di Badajoz”, o di passare per la piazza del generale Mola, uno dei principali istigatori della rivolta militare del 1936, è più alta. Le comunità autonome di Castilla-La Mancha e Castilla y León concentrano più del 60% delle strade nella gloria del regime di Franco nel paese. Il senatore Carles Mulet dice che “la situazione si ripete soprattutto nei piccoli comuni, dove queste strade sopravvivono”. E questo non è solo il caso dei municipi di destra”.

Pedro Sánchez ha lasciato il segno nell’ottobre 2019 quando ha deciso di riesumare i resti di Franco dal suo mausoleo nella Valle de los Caídos. E il palazzo del Pazo de Meirás in Galizia, di cui il dittatore si era appropriato e i cui discendenti si rifiutavano di rinunciare, è stato dichiarato proprietà dello Stato all’inizio di settembre 2020.

Ma la dinamica complessiva rimane fragile, a causa dell’estrema sensibilità del soggetto – e dell’opposizione ancora forte dei settori nostalgici o neofascisti. Un ex ministro franchista, interrogato all’inizio di settembre dal sistema giudiziario argentino, ha ricevuto il sostegno di ben quattro capi di governo dal ritorno alla democrazia. Si tratta di Martìn Villa: un uomo chiave della fine del regime di Franco, o una figura pacificatrice del periodo di transizione? Martín Villa ha finalmente ottemperato il 3 settembre scorso all’interrogatorio del giudice argentino María Servini, per più di tre ore in videoconferenza dalla sede del Consolato argentino a Madrid. L’ex ministro e capitano d’azienda, nato nel 1934, è accusato di “omicidio aggravato”. Il caso è stato aperto nel 2010 a Buenos Aires in nome del principio della “giustizia universale”, secondo il quale i crimini contro l’umanità non possono essere prescritti, qualunque cosa dica il sistema giudiziario spagnolo. I querelanti lo accusano di essere responsabile della morte di 12 persone uccise dalle forze di sicurezza o da individui di estrema destra nel 1976 e nel 1977. Si è difeso esaltando le presunte virtù della Transizione per l’instaurazione della democrazia in Spagna.

Il caso Villa costringe gli spagnoli a confrontarsi non solo con gli anni della dittatura di Franco, iniziata sulla scia della Guerra Civile (1936-1939), ma anche con i lunghi anni mitici della Transizione (1976-1982) durata fino all’ascesa al potere del socialista Felipe González. Villa fa parte di questa generazione di “quadras” che ha preso in mano la “democratizzazione” della Spagna già nel 1976, la cosiddetta ala riformista del vecchio regime, che non aveva vissuto la guerra civile.

Dopo la morte di Franco, Villa è stato prima ministro dei Rapporti con i sindacati – una posizione chiave, data la densità dei conflitti sociali dell’epoca – e poi ministro dell’Interno (1976-1979). Il suo nome è particolarmente associato a uno degli episodi più oscuri della Transizione, quando cinque operai in sciopero, che si erano rifugiati in una chiesa della città di Vitoria (Paesi Baschi), furono assassinati dalle forze dell’ordine il 3 marzo 1976. Si stima che 103 persone siano state uccise dalla polizia, di cui 31 durante la dispersione delle manifestazioni dal 1976 al 1979, quando Villa era all’interno. Dopo il fallimento di Baltasar Garzón, bloccato dalla legge di amnistia del 1977, il sistema giudiziario argentino ha preso il sopravvento. In nome del principio della “giustizia universale”, secondo il quale i crimini contro l’umanità non possono essere prescritti o sanzionati, nel 2010 ha aperto un procedimento. Il giudice Servini sta cercando di stabilire se gli omicidi degli avversari siano stati sistematici e pianificati o meno. Si tratta di un periodo particolarmente ampio, dall’inizio della guerra civile (luglio 1936) alle prime elezioni democratiche (giugno 1977). Questo processo ha incontrato molti ostacoli, legati alla riluttanza delle istituzioni spagnole. Un mandato di arresto internazionale per Martín Villa è stato emesso nel 2014 e annullato nel 2018. Al termine dell’interrogatorio, il giudice argentino ha dieci giorni lavorativi per mantenere il suo procedimento, ordinare la chiusura provvisoria del caso o richiedere un ritardo per continuare le indagini. Qualunque sia l’esito del procedimento, questo interrogatorio ha già un valore simbolico, in quanto distrugge il resoconto ufficiale della transizione spagnola, spesso vista come anni di effettiva collaborazione tra élite politiche disposte a scendere a compromessi al servizio dell’interesse generale. Martín Villa aveva inviato alle autorità argentine, prima del suo interrogatorio, lettere di sostegno firmate da ex politici, ex leader dei principali sindacati del paese e quattro capi di governo dalla fine della transizione: González, Aznar, Zapatero e Rajoy. Anche l’ex ministro degli Esteri del primo governo Sánchez, Josep Borrell, che da allora è diventato capo della diplomazia dell’UE, ha inviato una lettera di sostegno a Villa l’anno scorso. L’operazione, rivelata dal sito web El Diario, ha oltraggiato le associazioni delle vittime del regime di Franco ed è stata ritenuta “vergognosa” dal vicepresidente del governo, Pablo Iglesias (Unidas Podemos).

La politica mainstream spagnola continua ad aggrapparsi alla difesa del modello nato dalla Transizione e alla Costituzione del 1978. Ma la crisi catalana e la crisi della monarchia – di cui l’esilio dell’ex re Juan Carlos, un’altra grande figura della Transizione, è solo l’ultimo episodio – dimostrano fino a che punto quel modello sia fallimentare. Se Iglesias ha parlato di un “passo storico per la giustizia e contro l’impunità” il suo compagno di coalizione, Pedro Sánchez, non è chiaramente sulla stessa lunghezza d’onda.

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