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In presa diretta dalla fabbrica del contagio

“Il focolaio. Da Bergamo al contagio”. Una sindacalista combattiva recensisce l’inchiesta scritta da Francesca Nava, edita da Laterza (Eliana Como)

Questa storia la conoscete. Chi come me vive a Bergamo, la conosce perché l’ha vissuta. Chi mi conosce, la sa perché me l’ha sentita raccontare cento volte. E anche se non fosse, la conoscete tutti almeno da quando, tra fine marzo e inizio aprile, dopo essere stata raccontata dai media indipendenti, finalmente è arrivata sulle televisioni nazionali, prima su Chi l’ha visto, poi su Report, ora un po’ ovunque.

Questa storia la conoscete già, ma rileggetela. Perché anche a me che l’ho vissuta e sono tra quelli che l’hanno raccontata, mi sembra di sentirla per la prima volta, con la stessa rabbia e la stessa frustrazione che avevo addosso in quei giorni.

Rileggetela, perché questa storia ci appartiene e Francesca Nava, che fa parte di quel giornalismo militante e di inchiesta di cui dobbiamo avere cura e che dobbiamo difendere, non la racconta soltanto. Lei ha contribuito a scriverla, insistentemente, insieme ad altri giornaliste e giornalisti della stampa indipendente (tra tutti TPI e Valseriananews), insieme a noi che la abbiamo denunciata e a quei delegati che a metà marzo si sono ribellati per chiudere le fabbriche. Rileggetela, perché se non fosse per noi, questa storia non esisterebbe neanche, sarebbe rimasta sotto la sabbia, tra i tanti scandali della storia di questo paese, seppelliti di omertà, corruzione e malapolitica. Questa storia esiste anche perché noi la abbiamo raccontata. Quindi, comprate e leggete questo libro, come se fosse la prima volta che ne sentite parlare.

Leggerete la storia di quindici giorni documentati ora per ora. Quindici giorni in cui una epidemia è diventata una strage, a partire da Bergamo e poi nell’intera Lombardia.

Leggerete cosa è accaduto nelle ore tra il 23 e il 24 febbraio nell’ospedale di Alzano Lombardo. Le telefonate, le mail inviate, le raccomandazioni degli epidemiologi, gli ordini, i contrordini. Un pronto soccorso che chiude e poi riapre nel giro di poche ore, i tamponi non fatti, i medici increduli, i familiari disperati, le terapie intensive che iniziano a riempirsi.

Leggerete del suono dell’ambulanza che annuncia la strage, in quegli ultimissimi giorni di febbraio. Le pressioni degli industriali che non vogliono chiudere, il sindacato che si accoda per “tornare alla normalità”, le conferenze stampa al Pirellone e alla Protezione Civile, la zona rossa in Val Seriana mai decisa, il rimpallo delle istituzioni, la testa sotto la sabbia di chiunque doveva prendere le decisioni.

Leggerete di una nota tecnica dell’Istituto Superiore di Sanità, chiusa in un cassetto il 2 marzo e con essa l’ultima possibilità di provare a fermare la strage. Leggerete di come i medici e il personale sanitario, giorno dopo giorno, ora dopo ora, si sono ritrovati all’inferno, di come un intero ospedale si è riempito di morte, di come una intera popolazione è stata abbandonata a se stessa.

Leggerete della zona arancione del dpcm dell’8 e 9 marzo, quella dietro cui ipocritamente si nasconde, fino alla fine, chi non ha fermato il disastro e su cui scivola persino il proverbiale a plomb di Conte.

E ancora, leggerete delle fabbriche nel caos e della produzione che deve andare avanti a tutti costi, perché né Luna Rossa, né Jaguar, né un qualsiasi dannato bullone possono aspettare. Leggerete di lavoratori e lavoratrici mandati al massacro in nome del profitto con il vetril in mano e di responsabili della sicurezza che leccano la sedia per dimostrare che tutto va bene, come è accaduto in Dalmine. E poi l’assenteismo, gli scioperi, la paura, la frustrazione.

Ma qui, siamo già a metà marzo. La vicenda continua e leggerete nel libro anche quello che è accaduto dopo. Ma al quel punto è finita: la storia è stata scritta prima, in quei primi quindici giorni che hanno fatto la differenza tra una emergenza sanitaria e una strage umanitaria, in cui in una sola città sono morte oltre 6000 persone in soli due mesi. Il 23 marzo, quando finalmente arriva il dpcm che, deroghe a parte, impone il vero e proprio lockdown, è già troppo tardi. Non resta che l’immagine dei camion militari che escono da un cimitero che non riesce più nemmeno a contenere i suoi morti. E di quella storia non rimangono che le scritte sul marmo, come i versi di una spoon river bergamasca in cui tutti morimmo a stento.

In questo libro, la storia sembra avere una fine esatta, il 13 marzo, il giorno in cui all’ospedale di Bergamo non c’è più un posto libero in terapia intensiva. È anche il giorno in cui Manuel, 47 anni, camionista, padre di tre figli, sta ormai morendo di Covid. Manuel che si è ammalato dieci giorni prima, guidando, senza saperlo, il camion non sanificato di un collega probabilmente infetto. Quando leggerete il libro, capirete di cosa parlo. Se poi conoscerete Francesca, capirete perché, in realtà, forse, per lei questa storia inizia proprio lì dove dovrebbe finire.

Leggerete una storia di dolore, di rimpianti, di malapolitica, di corruzione, di interessi, di cose che restano sulla coscienza. Leggerete una storia che, per chi l’ha vissuta, determina uno spartiacque tra un prima e un dopo. Lo so che chi non l’ha vista con i propri occhi, chi non ha sentito la sirena passare, chi non ha respirato quell’aria di guerra e morte farà forse fatica a capire. Ma provateci, vi prego: leggete questo libro e imparatelo a memoria. Perché quello che è accaduto a Bergamo e in Lombardia in quei quindici giorni tra febbraio e marzo non deve accadere mai più.

PS: un’ultima nota personale. In questo libro, leggerete anche degli errori e dei rimpianti di chi, guardandosi indietro, sa di non aver fatto abbastanza in quei giorni e affida, consapevolmente o meno, la propria coscienza a questo libro. Antieroi, forse, come il direttore dell’ospedale di Alzano, che denuncia ma poi obbedisce, o come il direttore sanitario dell’ATS di Milano che si rimprovera di non essere riuscito a trasmettere la gravità di quanto stava accadendo a chi poi avrebbe dovuto prendere le conseguenti decisioni politiche.

Leggendo il libro anche io ho pensato ai miei rimpianti. Sono tanti, perché mio malgrado mi rimprovero di non essere riuscita a ottenere quello che ritenevo giusto. Una illustratrice mi ha disegnata tempo fa, mentre, durante il lockdown, dal terrazzo di casa mia, soffio sulle ciminiere per cercare di spegnerle. Gli scioperi e le nostre proteste hanno dato una spallata forte e se tante fabbriche hanno chiuso è grazie a questo. Ma resta il fatto che tante, troppe fabbriche sono rimaste aperte e hanno persino continuato a chiedere straordinari. Non è causa mia, certo, ma mi resta il peso sulla coscienza per non essere riuscita a fare di più.

Non ho invece rimpianti per quello che ho fatto, laddove la differenza era affidata ai miei compagni. La Same, come è raccontato per la prima volta nel libro, chiuse il 24 febbraio con accordo sindacale. Erano esattamente i giorni in cui stava iniziando la tragedia, non avevamo esatta consapevolezza di quello che stava per accadere. Ma la sirena delle ambulanze iniziava a riempire il cielo di Bergamo e in cuor nostro sapevamo che, nell’incertezza, non c’era altro modo di garantire la sicurezza dei lavoratori che fermare la produzione. All’epoca, nelle riunioni dei vertici della Cgil mi contestarono per questo, qualcuno mi prese per matta; dissero, testualmente, che quello era l’esempio da non seguire. E infatti per tutti quei decisivi quindici giorni raccontati nel libro, quello che avevano fatto i compagni della Same, nell’epicentro di quella strage, rimase un esempio isolato.

Di poche cose vado così fiera e orgogliosa dei miei compagni. Se soltanto tutti avessero fatto così, anche questa storia, forse, sarebbe stata diversa….

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