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Cosa c’è dietro il voto in Bolivia

Prime riflessioni sulla Bolivia. La CIA c’è, ma non è onnipotente, ha bisogno di una crisi tra i governi progressisti e la loro base sociale (Antonio Moscato)

Sono scontati lo stupore e i silenzi dei giornali borghesi sul clamoroso successo del MAS, ma naturalmente non è una novità e non prova niente sulla specificità boliviane. Mi preoccupa invece la rapidità con cui quel poco di sinistra che rimane ha esaltato il risultato dimenticando le ragioni che lo hanno reso sorprendente e impartendo un’assoluzione plenaria a tutta l’esperienza boliviana, con qualche vago accenno a imprecisati “errori del MAS”. Tuttavia tranne poche eccezioni hanno ribadito la tesi che in Bolivia un anno fa c’era stato un vero e proprio golpe, senza domandarsi perché avrebbe fallito così clamorosamente nel suo compito principale che era ovviamente cancellare ogni traccia di quel movimento popolare di lunga durata che aveva spazzato via vari presidenti e che è riduttivo identificare col solo Morales e ancor meno col pensiero di Álvaro García Linera, tanto apprezzato dalla sinistra europea.

Come “golpisti telecomandati” dagli Stati Uniti gli esponenti della destra boliviana sono apparsi subito decisamente poco efficienti: non avevano pronta una figura popolare o almeno con una certa esperienza per la presidenza provvisoria, che è stata così affidata a una nullità come la Jeanine Áñez, e quando dopo tre rinvii si è arrivati al voto non sono stati capaci di trovare una candidatura unica credibile da contrapporre al MAS, che hanno infastidito ma non hanno soppresso o privato della possibilità di partecipare alle elezioni. Quando hanno visto le prime proiezioni hanno avuto paura di perdere, e hanno fatto la stessa inutile sospensione del conteggio rapido che aveva tentato Evo Morales alimentando sospetti di brogli.

Questo è un piccolo particolare dimenticato sistematicamente da chi a sinistra non vuole riflettere davvero su quel che è successo in questa lunga crisi politica iniziata col tentativo fallito di Evo di modificare la Costituzione.

Non da tutti però, almeno in America Latina, è stato dimenticato. In un’intervista al Pais dell’8 10 l’ex presidente brasiliano Lula ha detto senza reticenze quale ritiene sia stato l’errore: “Per me, quando una persona comincia a credersi imprescindibile, insostituibile, sta cominciando a credersi un dittatore” e alla domanda se Evo Morales si era sbagliato nel chiedere di essere rieletto, nonostante il divieto esplicito della Costituzione, Lula ha risposto senza ambiguità di aver parlato con Evo dicendogli: “Evo, se ero al tuo posto non tentavo di avere il terzo mandato”. Aggiungendo che Evo soprattutto non doveva ricorrere al referendum, che ha perso, per poi ignorarne il risultato.

Maldestro, Evo lo era stato in tutto il suo ultimo anno di presidenza, come d’altra parte anche Correa in Ecuador, ugualmente incapace di gestire la successione. Va riconosciuto però che Morales si è rivelato poi molto abile nel recupero di consensi grazie alla scelta di Arce, un economista già sperimentato e non malvisto dal settore di borghesia estrattivista che si era consolidata durante l’ultima fase della presidenza di Morales. Una scelta che aveva suscitato aspre polemiche nella base del MAS ma che si è rivelata vincente almeno sul piano elettorale.

D’altra parte Evo ha accettato che la direzione del MAS emersa dopo le dimissioni a catena nei giorni più drammatici mantenesse per mesi un dialogo costante con la presidente provvisoria ed altri esponenti della destra, allo scopo di contrattare spazi e tempi per realizzare elezioni sostanzialmente libere. Nessuno poteva essere certo di una vittoria così netta, ma era prevedibile che un anno di governo di destra facesse rimarginare le ferite provocate dal conflitto tra Evo e parte della sua base (COB, organizzazioni indigene), in cui si era inserito l’esercito e la polizia. La repressione e gli oltraggi di militari e politici sconsiderati alla bandiera della popolazione andina, la Whiphala, hanno spazzato via la destra.

Ma lasciamo da parte le responsabilità personali, e le polemiche sulla atipicità di un colpo di Stato che non aveva predisposto nulla per consolidare il potere che si era trovato a portata di mano per la crisi politica e sociale dell’autunno 2019 (sorprendente in un paese che ha avuto nel Novecento una media di un golpe all’anno), anche se non sono inutili. Se si ripetono ovvietà scontatissime come la denuncia della rozzezza trogloditica di vasti settori della destra accecata dal razzismo anti indio non si riesce a capire da dove e perché è riemersa, e perché poi non è riuscita a raccogliere stabilmente la parte oscura del paese. E soprattutto che potrà riemergere ancora una volta, non necessariamente a comando da Washington, ma approfittando di ogni incrinatura dello schieramento progressista. Come ha fatto appunto nell’autunno 2019…

Non ho mai capito perché la sinistra sedicente “antagonista” debba ricercare lo zampino della CIA in ogni crisi di un governo progressista. La CIA c’è ovunque, ma non è onnipotente, ha bisogno di una crisi del rapporto tra i governi progressisti e la loro base sociale. E ogni successo del nemico di classe va interpretato quindi vedendo prima di tutto quali errori nostri, della nostra parte, lo hanno facilitato.

Dico questo perché in un paese come la Bolivia c’è da aspettarsi di tutto: non solo dalla destra ma anche e soprattutto da un esercito miserabile e corrotto, che rivendica ogni anno il suo ruolo nell’assassinio di Ernesto Che Guevara, nell’unica battaglia che ha vinto in due secoli, vinta grazie a un rapporto di cento a uno, e con l’assistenza decisiva di addestratori statunitensi. E il voto plebiscitario per Arce non significa una garanzia sufficiente in un continente in cui molti degli alleati di un tempo come il Brasile o l’Ecuador hanno cambiato fronte, mentre la Cina è una partner commerciale ma non un’alleata sicura. Non si tratta di astratto internazionalismo ideologico: per un paese piccolo come la Bolivia l’inserimento in una dimensione continentale è una necessità vitale.

Vedremo le prime mosse di Arce per capire se la sua presidenza vorrà e potrà offrire una sponda per la ripresa del progetto “bolivariano” lanciato da Hugo Chávez, e ridotto oggi a ben poco dalle defezioni e anche dalla pretesa di difendere l’indifendibile anche delle esperienze venezuelana e nicaraguense allontanatesi da tempo dal progetto originario. 

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