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Prendiamoci cura della lotta di classe

Avere cura di chi lavora, sottoposto al più grande attacco dal dopoguerra. Un contributo alla mobilitazione per la #SocietàdellaCura (Cristina Quintavalla)

 

Il percorso di convergenza di associazioni, movimenti, realtà sociali attorno al Manifesto Per una società della cura può costituire una svolta significativa nello scenario odierno.

Per svariate ragioni.

La prima di esse consiste nella messa in stato d’accusa di un sistema economico-sociale  responsabile delle sofferenze inflitte a miliardi di esseri umani, attraverso guerre, spoliazioni, saccheggi, riduzione in povertà, e devastazioni ambientali, senza cui non può sopravvivere, né perseguire il profitto che ne è la linfa vitale.

La seconda è relativa alla prospettiva etico-politica che inizia ad essere delineata, che è quella della cura in alternativa al profitto, riprendendo una delle più felici teorizzazioni femministe che hanno denunciato la contraddizione tra i processi di valorizzazione del capitale e quelli della sostenibilità della vita, tra la cogenza dell’accumulazione del profitto e quella della cura della vita.

La terza riguarda il tentativo di coniugare la forza delle posizioni con la costruzione di una convergenza che salvaguardi specificità di ambiti, competenze, saperi, e ne cerchi al contempo una sintesi capace di portare alla lotta, amplificando la capacità oppositiva di ciascun aderente.

Un’ulteriore difficilissima sfida si profila con urgenza all’orizzonte: la costituzione di una convergenza che coinvolga direttamente la classe lavoratrice.

E’ necessario fare da argine a quella disarticolazione del fronte delle lotte, perseguita dalle classi dominanti nel corso degli anni, funzionale alla conservazione degli attuali rapporti di forza, che esigono mano libera nei confronti del mondo del lavoro.

Come non ricordare il lungo processo – dalla ristrutturazione capitalistica degli anni ’70 alle  modalità produttive odierne, dalle decine di tipologie contrattuali diverse alle nuove forme di ingaggio del lavoro precario – che ha portato alla destrutturazione e alla frammentazione della classe lavoratrice, sbriciolandone l’unità e con essa la forza oppositiva?

Da troppi anni il mondo del lavoro è lasciato ai margini, solo, invisibile, senza voce né rappresentanza.  Addirittura fuori molto spesso dagli stessi movimenti che le forze della sinistra hanno sviluppato negli ultimi due decenni nel paese. C’era chi pensava che la classe fosse perduta, che non manifestasse segni di coscienza né di egemonia politica; che fosse stata travolta dalle trasformazioni tecnologiche che hanno modificato i processi di produzione; che andasse consegnata ad una storia e ad un ruolo che non ci sono più, in attesa di dire addio al lavoro produttivo ed alla sua incompatibilità con la salvaguardia della natura.

Eppure è lì che continua a giocarsi tutto. Non c’è battito di ciglia di Confindustria che non vada nella direzione di assestare colpi poderosi ad una classe già al tappeto. L’odierno attacco al mondo del lavoro è senza precedenti nella sua virulenza.

Con una progressione scientifica ogni giorno ha conosciuto la sua pena:

  • farla finita coi contratti collettivi nazionali di lavoro, dunque con norme che definiscono diritti, condizioni, tempi, modalità di lavoro, aumenti salariali uguali per tutti.

Non a caso: oltre 10 milioni di lavoratori nel privato e 3,7 nel pubblico (8 su 10) devono rinnovare i contratti di lavoro!

  • sostituirli con i contratti aziendali, attraverso cui, grazie alla maggiore debolezza delle maestranze, imporre norme e condizioni capestro, in materie di retribuzioni, orari, regole di assunzione
  • barattare attraverso i contratti aziendali gli aumenti salariali con forme di welfare aziendale privato, vale a dire incentivando forme di sanità, previdenza, assistenza integrative private presso assicurazioni o banche prescelte dal datore di lavoro, in spregio al fatto che i lavoratori già versano contributi per un welfare pubblico
  • sganciare il lavoro dalle sue tutele, ivi compresi gli ammortizzatori sociali, che farebbero dell’Italia una sorta di “sussidistan”, e da legami automatici tra lavoro, salario, orario, tutele, contrattazione
  • licenziare senza limitazione alcuna da parte delle imprese (con cipiglio aristocratico definito outplacement), al fine di procedere alle ristrutturazioni aziendali ritenute necessarie per far fronte alla concorrenza.

Lo scenario della perdita dei posti di lavoro sarà tanto più drammatico se a coloro che si ritroveranno senza lavoro con lo sblocco dei licenziamenti, si sommerà l’esercito di lavoratori impiegati nei lavoretti – i Worker on tape, lavoratori alla spina – usati solo per il tempo necessario, al di fuori di ogni rapporto di lavoro stabile, senza contratto, senza alcuna tutela, con stipendi da fame.

  • ricorrere, in via preferenziale, al lavoro somministrato come forma di ingaggio, da affiancare alle altre tipologie di lavoro di interposizione, in virtù delle quali un lavoratore, prestato da un’agenzia o da una cooperativa ad un’impresa, subisce l’estrazione del plus-valore da parte dell’impresa stessa, senza che essa ne sia la diretta controparte, e senza che debba indicare la causale per giustificare l’instaurazione del rapporto di lavoro.
  • sostituire gli adeguamenti salariali con forme di incremento della produttività per unità di prodotto, che ripristina il cottimo (!!!), e per smart working, che ripristina forme di lavoro a domicilio, mortificante soprattutto per le donne.

In questa catena della espropriazione del diritto al lavoro e ad una vita dignitosa non c’è limite al peggio. Siamo certamente di fronte a cambiamenti delle forme del lavoro, che aprono uno spettro enorme di subordinazione, che assume addirittura caratteri neo-schiavili.

La cosiddetta gig economy, il lavoro delle piattaforme, a cottimo, le false partite Iva, le false cooperative sono le frontiere della precarizzazione della vita.

Coinvolge numeri impressionanti: 3,2 milioni di persone precarie, 3,7 milioni di lavoratori irregolari, senza tutele, contratti, previdenze.

Come appare evidente il mondo del lavoro non è più soltanto quello costituito dalle tute blu, ma quello molto vasto, variegato e multiforme che partecipa, seppure in forma precaria, ai processi di valorizzazione del capitale. Riguarda milioni di persone: i nostri figli, i nostri amici, i nostri vicini di casa, i migranti, la maggior parte delle donne…

Si aggiungano, giusto per non farci mancare nulla, la violenza repressiva, le denunce, i fermi di cui sono oggetto i lavoratori e le lavoratrici in lotta, che stanno montando nel più assoluto silenzio dei media e nella più penosa solitudine per coloro che li subiscono.

La nuova sfida cui siamo chiamati è quella di farci carico della lotta contro i mefitici piani che Confindustria destina alla classe lavoratrice. Perché non c’è dubbio che se si vogliono spostare i rapporti di forza è necessario affrontare il drammatico nodo del lavoro – negato, vilipeso, espropriato, alienato, inquinante ecc…- con il coinvolgimento del mondo del lavoro.

Che altro dovrebbe accadere perchè questa sordida violenza sulla vita delle persone diventi una vertenza imprescindibile per tutti e tutte?

 

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