Bergamo e la marea, di Davide Maria De Luca: una storia di persone raccontata con uno sguardo obiettivo e partecipe [Eliana Como]
Ho incontrato la prima volta Davide Maria De Luca sotto il Comune di Bergamo, a palazzo Frizzoni. Erano gli ultimi giorni di giugno, faceva caldo e io ero un pò provata da tre giorni di sciopero della fame. Quel giorno Mattarella era venuto per la prima volta a Bergamo, per il Requiem di fronte al cimitero, uno dei luoghi simbolo di quei mesi, quello da cui erano partiti i camion militari, la cui immagine ha fatto il giro del mondo. La piazza antistante il cimitero, quel giorno, aveva accolto, blindata, il presidente della Repubblica, i sindaci della provincia e, incredibilmente, il presidente della regione Lombardia, la cui presenza lì era per noi più inquietante dello stesso ingresso del cimitero, che svetta sulla piazza come un antico, enorme e lugubre tempio Khmer. Quello stesso Fontana da cui dipendeva quanto era avvenuto all’ospedale di Alzano negli ultimi decisivi giorni di febbraio, quando il pronto soccorso infestato dal covid veniva riaperto dopo meno di un’ora. Lo stesso che aveva acceso un cerino nel pagliaio, spostando i malati di covid nelle rsa. Lo stesso che, con il governo, aveva assecondato le imprese per evitare la zona rossa in Val Seriana. Lo stesso che aveva lasciato la città e la regione, per settimane, senza mascherine, senza bombole di ossigeno, senza tamponi, con pochi e disperati medici di famiglia.
In quei giorni, eravamo ancora attoniti per quello che era accaduto, increduli tra la voglia di riabbracciarci e la paura che avevamo passato. Io ero piena di rabbia, lo ricordo bene, un fascio di nervi. Dello sciopero della fame, dopo tutti quei mesi di disperazione, non mi sono nemmeno accorta. La città intera si stava leccando le ferite e anche chi prima non ci avrebbe nemmeno guardato si fermava in piazza a parlare con noi e a scrivere su un diario aperto le testimonianze del proprio dolore.
Davide arrivò, la domenica sera, quando stavamo smontando. Decidemmo di ridarci appuntamento a Roma nelle settimane successive. Lo incontrai in un bar del centro, io ancora con la voce tremante di dolore e lui con il taccuino in mano. Il giorno prima c’era stato il primo direttivo nazionale in presenza della Cgil, dove finalmente ero salita su un palco, dopo mesi di riunioni online, durante le quali, dalle finestre aperte, continuava a entrare in casa il suono delle ambulanze. Credo di essere esplosa quel giorno al direttivo. Tirai fuori tutto: da quell’incredibile documento del 27 febbraio firmato con la Confindustria in cui si chiedeva di “tornare rapidamente alla normalità”, all’ingiustificabile ritardo con cui Cgil Cisl Uil nazionali avevano chiesto il lockdown quel 22 marzo, poche ore prima che fosse lo stesso Conte a annunciarlo in televisione, passando per le mille deroghe allo stesso DPCM, di fronte alle quali avevano mosso poco meno che un dito. Ricordo il silenzio spettrale della platea mentre parlavo e soprattutto quando, finito il mio intervento, scesi dal palco, senza che una mosca osasse volare. Un silenzio carico di tensione, perché avevo rotto la litania degli slogan che “è andato tutto bene”, che “siamo stati bravi”, che “se non ci fossimo stati noi sarebbe stata una catastrofe”. Testuali parole: sarebbe stata una catastrofe. Non ricordo più chi lo disse, ma ricordo con esattezza le parole e la pugnalata al cuore che mi provocarono. Perché nella mia città, in quelle vicino, nell’intera regione, non si poteva non sapere che quello che era accaduto era molto più di una catastrofe.
Uno tsunami, una diga come quella del Vajont, un’alluvione. Una marea, come più o meno tutti quelli che Davide ha intervistato gli hanno detto. Come se l’acqua fosse la cosa più mostruosa che viene in mente, in questa terra appoggiata tra le Alpi e la pianura Padana, una delle più lontane dal mare di tutto il paese.
Parlai a lungo con Davide in quel bar. Della mancata zona rossa in Val Seriana, di quel dannato #bergamoisrunning, dei ritardi del sindacato, degli scioperi nelle fabbriche. Gli feci vedere le foto che mi mandavano dalle fabbriche di Bergamo in quei giorni di marzo, mentre dalla televisione ci dicevano di stare in casa, evitare gli affollamenti, mettere la mascherina e lavare le mani. Le mense affollate, le mascherine consumate da settimane di utilizzo, i bagni luridi. Gli dissi che era quello che avrei fatto vedere a Mattarella, se si fosse degnato di passare in piazza da noi, prima di andare a ascoltare il Requiem, seduto accanto a Fontana, davanti al cimitero. Gli raccontai di quello che avevo detto, il giorno prima, al direttivo della Cgil e di tutto quello che era accaduto, passo dopo passo, in quei mesi.
Davide mi chiese molte altre cose, anche sul mio rapporto con la città e su come fossi finita a Bergamo. Pensavo che fosse soltanto per parlare, tra una domanda e l’altra. Solo, leggendo il libro, ho capito che anche quello gli serviva a raccontare Bergamo e la sua marea.
Questo suo modo di ascoltare chi ha davanti è la cosa che rende il libro di Davide De Luca davvero bello e diverso dagli altri già usciti (alcuni memorabili dal punto di vista giornalistico, come quello di Francesca Nava: vedi l’articolo su Popoff). È una inchiesta giornalistica anche questa e, come gli altri, ricostruisce tutti i passaggi: l’ospedale di Alzano, le rsa, la catastrofe all’ospedale Papa Giovanni XXIII, le imprese, i paesi decimati più che durante le due guerre mondiali. I fatti sono riportati, però, in modo che ti pare di vedere chi hai di fronte, ti sembra di ascoltarli mentre te li stanno raccontando loro stessi. Dall’ambizioso e posato sindaco Gori, ex menestrello di Berlusconi, al giornalista dell’Eco innamorato di numeri e tecnologia, fino a una sindacalista ribelle che conoscete, trapianta a Bergamo con i suoi piercing e tatuaggi. Passando in mezzo a molti altri, dai familiari delle vittime, alla direttrice della Rsa di Alzano, i medici e via dicendo.
È importante questo aspetto del libro. Perché le cose che sono narrate sono dure da accettare. È difficile ammettere che siano avvenute davvero. Rischi di non crederci e di non voler sentire. Ma se mentre leggi, riesci a vedere chi le ha vissute e te le sta raccontando, allora non puoi voltare la testa dall’altra parte.
Non soltanto. Davide riesce a fare un’altra cosa. Ti fa vedere Bergamo, anche oltre i suoi protagonisti: le sue valli, i fiumi, i boschi, le montagne, il cemento di fabbriche e centri commerciali. Nel suo libro, chi non la conosce, vedrà finalmente la Val Seriana, con i suoi chilometri strappati alla montagna, prima per estrarre il cemento dei Pesenti, poi per far posto ai capannoni industriali. Vedrà i suoi boschi, che, incuranti e imperterriti, ricrescono. Gli unici che osano davvero sfidare l’industria locale senza temere conseguenze. Il suo viaggio arriva fino agli affreschi quattrocenteschi nell’oratorio dei disciplini di Clusone, nell’alta valle, splendido esempio di arte tardo-medioevale, dove gli scheletri porgono omaggio alla morte, danzando ai suoi piedi insieme a principi e signori locali. Macabro presagio di quello che sarebbe avvenuto secoli dopo a valle.
Lo ringrazio, Davide, per aver raccontato così Bergamo, la sua catastrofe e la marea che per settimane, a marzo, ci ha seppellito. Farlo ha un valore politico importante ed è spiegato bene nella prefazione, poco prima di andare in stampa, dove l’autore avverte che il libro sta per uscire nel pieno della seconda ondata. Diversamente da marzo, stavolta il covid ha interessato tutto il paese e risparmiato invece Bergamo, nonostante a quaranta chilometri da qui, l’area metropolitana di Milano sia sotto assedio. Forse perché la prima ondata ha creato una relativa immunità in questa zona o forse perché, come preferisco pensare, la paura di marzo ha reso i bergamaschi più prudenti di chiunque altro.
La constatazione più importante di tutto il libro sta in queste prime pagine: Bergamo è scomparsa dalle prime pagine dei giornali nazionali e internazionali e, soprattutto, è scomparsa la lezione che avrebbe dovuto dare a tutto il paese e al mondo. Cioè che i nostri modelli economici e sociali, miseramente crollati in una delle zone più ricche e industrializzate del vecchio mondo, sono straordinariamente vulnerabili al rischio antico di pandemia, con cui purtroppo, saremo destinati a fare i conti anche in futuro.
Per questo è ancora importante parlare di quello che è accaduto in questa città, che ha ancora il triste primato mondiale della mortalità per covid. Leggete questo libro, allora, vi prego. Ripercorrete cosa è accaduto in quelle quattro settimane di primavera nella città che mi ha adottata. È davvero importante fare i conti con quel gigantesco lutto collettivo e con quello che ci sta colpendo ora. Perché non abbiamo ancora avuto il coraggio di elaborarlo, a differenza di come si fa con qualunque altra catastrofe, inondazione, terremoto o guerra. Anche in funzione apotropaica, propiziatoria, come è la Danza macabra degli affreschi di Clusone in Val Seriana.
È anche non aver avuto il coraggio e l’onestà politica di guardare in faccia la morte, che ha consentito a chi ha disastrosamente gestito la prima fase dell’emergenza di passarla liscia e commettere indisturbato gli stessi criminali errori nella seconda e poi, chissà, a venire.