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Perché l’Arma non sarà parte civile contro i carabinieri di Piacenza?

Arma dei carabinieri, Difesa e Comune di Piacenza non si costituiranno nel processo per spaccio, estorsione e tortura nella caserma Levante

Arma dei carabinieri, ministero della Difesa e Comune di Piacenza non si costituiranno parte civile nel processo sul caso della caserma Levante, la clamorosa inchiesta di malapolizia che in luglio aveva portato all’arresto per gravi reati come spaccio e tortura dei militari della stazione alle porte del centro storico di Piacenza. Davanti al giudice per l’udienza preliminare del tribunale piacentino si è tenuta la prima udienza per gli imputati che sceglieranno un rito alternativo, ovvero quasi tutti i carabinieri arrestati e altri civili accusati di spaccio.

Presenti in aula il capo della procura Grazia Pradella insieme ai pm Matteo Centini e Antonio Colonna che all’inizio del 2020 hanno coordinato l’indagine della Guardia di Finanza e della Polizia locale, che ha contestato episodi senza precedenti, e che ha portato al sequestro dell’intera caserma dei carabinieri finita nel mirino degli inquirenti. In apertura sono state presentate tutte le richieste di costituzione di parte civile, in tutto undici, tra cui due sindacati dei carabinieri (Nsc e Silca) e il Partito per la tutela dei diritti dei militari, oltre a diverse persone che sono state sentite durante le indagini in fase di incidente probatorio e che affermano di essere state picchiate o torturate dentro la caserma Levante. Tra loro ovviamente anche il testimone che con le sue rivelazioni al maggiore Rocco Papaleo ha permesso nel mese di febbraio l’avvio di tutta l’inchiesta. Tra i carabinieri imputati erano assenti dall’aula Giuseppe Montella e Salvatore Cappellano, i due principali indagati. Presenti invece il carabiniere Giacomo Falanga, scortato dal carcere di Verbania dove è attualmente recluso, il carabiniere Daniele Spagnolo e il maresciallo Marco Orlando, ex comandante di stazione, questi ultimi entrambi agli arresti domiciliari.

Dopo tre ore in camera di consiglio, il giudice Fiammetta Modica si è riservata la decisione sulle richieste, e ha rinviato alla nuova udienza del 18 gennaio, che però si terrà in un padiglione di Piacenza Expo, il quartiere fieristico della città. Una decisione presa per esigenze di sicurezza sanitaria, considerate le tante parti in causa in questa vicenda. La mancata richiesta di costituzione come parte civile del Comune è approdata subito in consiglio comunale. Dai banchi dell’opposizione il consigliere comunale Luigi Rabuffi ha detto che «il Comune di Piacenza aveva il dovere di costituirsi parte civile. Non è una questione economica, bastava anche ricevere un euro, era simbolico, a fronte del danno d’immagine che la città ha subito su tutti i media». Ha replicato il sindaco Patrizia Barbieri: «Stavolta non ci sono i presupposti. Le azioni non hanno coinvolto né minimamente né direttamente il Comune di Piacenza. Non avevamo alcun elemento diretto o indiretto che poteva identificarci come parte offesa».

Riassunto delle puntate precedenti

A Piacenza su sette militari che compongono la caserma sequestrata, sei sono stati arrestati. Si tratta della Stazione Carabinieri Levante di Piacenza, antica istituzione che ha competenza su parte del centro storico cittadino. Nell’edificio che avrebbe dovuto essere un baluardo della legalità, secondo la Procura della Repubblica, sarebbe invece accaduto di tutto: spaccio di droga, arresti falsificati, perquisizioni illecite solo per citarne alcune. E poi tanta violenza, brutale e gratuita, fino alle torture, sui pusher che non volevano collaborare. E per collaborare non si intende dare una mano alla giustizia, ma diventare parte di una rete clandestina di spaccio di droga che vedeva come attori principali, secondo le accuse, quei carabinieri. «Non c’è stato nulla in quella caserma di lecito» ha detto, senza mezze misure, il capo della Procura piacentina, Grazia Pradella, l’ex pm milanese giunta alla guida dei magistratura inquirente della città. «Tutti gli illeciti più gravi sono stati commessi in piena epoca Covid e del lockdown, con disprezzo delle più elementari regole di cautela imposte dai decreti del Presidente del Consiglio. Mentre la città di Piacenza contava i tanti morti del coronavirus, questi carabinieri approvvigionavano di droga gli spacciatori rimasti senza stupefacente a casa delle norme anti covid. Siamo di fronte a reati impressionanti se si pensa che sono stati commessi da militari dell’Arma dei carabinieri». L’indagine è stata relativamente breve: solo sei mesi fitti però di intercettazioni telefoniche, ambientali e pedinamenti ad ogni ora del giorno e della notte. «Un lavoro immenso, eseguito con grande professionalità» tengono a sottolineare Antonio Colonna e Matteo Centini, i due pm che hanno coordinato il lavoro degli investigatori della Guardia di Finanza e della Polizia Locale, giunto a conclusione con l’esecuzione delle misure cautelari: cinque carabinieri sono ora in carcere, un sesto, il maresciallo comandante di quella caserma, è agli arresti domiciliari. Tra i destinatari delle misure meno restrittive, anche un ufficiale, il maggiore che comanda la Compagnia dei carabinieri di Piacenza. Per lui il gip Luca Milani, che ha firmato un’ordinanza da più di trecento pagine, ha disposto l’obbligo di dimora ma anche la sospensione dal servizio. La lista dei capi di imputazione, a vario titolo, è lunga e pesante: traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, ricettazione, estorsione, arresto illegale, tortura, lesioni personali, sequestro di persona, peculato, abuso d’ufficio e falsità ideologica. Un’immagine in cui si vede un uomo afrodiscendente, ammanettato a terra in mezzo al suo sangue, diffusa in conferenza stampa insieme a un breve clip audio dove si sentono le grida di una persona picchiata e, secondo i pm, anche torturata con l’acqua, sono solo un piccolo tassello per rendere l’idea dei metodi che sarebbero stati all’ordine del giorno in quelle quattro inespugnabili mura dello Stato, permettendo ai carabinieri di sentirsi inattaccabili e onnipotenti. Il comando generale dell’Arma dei carabinieri ha assicurato sostegno all’attività della Magistratura ma già sembra venir fuori che i superiori sapevano degli “eccessi” ma in qualche modo li tolleravano in cambio del numero spropositato di arresti da parte dei carabinieri infedeli. La catena di comando, come dimostra anche un’inchiesta su reati simili da parte di secondini nel carcere di Torino, ha un ruolo essenziale nella catena degli abusi.

Per trovare un precedente alla clamorosa operazione che ha completamente azzerato una caserma dei carabinieri a Piacenza bisogna tornare indietro di tre anni e scendere 140 km a sud, ad Aulla in Lunigiana quando venne fuori un’inchiesta su 37 carabinieri indagati per 189 capi di imputazione. Ora è in corso un processo a 27 militari. O il caso della panda nera, a Bergamo, con le condanne del 2012 condannati dei militari della stazione di Calcio e degli agenti della polizia locale di Cortenuova, per decine di raid punitivi contro migranti, compiuti dalla banda di carabinieri e vigili tra novembre 2005 e giugno 2007. E, ancora prima, l’inchiesta che vide protagonista niente meno che il capo in testa dei Ros, il generale Ganzer, persecutore di militanti no global a ridosso del G8 e poi condannato in primo grado il 12 luglio del 2010 con 13 carabinieri a 14 anni “per aver costituito un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso e ad altri reati, al fine di fare una carriera rapida”. Le condanne si riferiscono a singoli episodi commessi nel corso di alcune importanti operazioni antidroga compiute «sotto copertura» dal Ros tra il 1991 e il 1997. In secondo grado, nel 2013 la prima sezione della Corte di Appello di Milano ha confermato la condanna al generale, ormai in pensione, riducendo però la pena a 4 anni e 11 mesi di reclusione. La riduzione della pena è dovuta alla concessione delle attenuanti generiche e alla cancellazione delle aggravanti. Nel gennaio 2016 la terza sezione penale della Cassazione ha ritenuto che i fatti ascritti all’imputato fossero di lieve entità, con la conseguente applicazione dell’art. 73, comma V, del DPR 309/1990 in luogo del comma I; in ragione della minore escursione edittale, la Corte ha dichiarato non doversi procedere per essere il reato estinto per prescrizione. Addentrandosi nella provincia profonda, ci si imbatte nell’omicidio di Serena Mollicone, una ragazzina di Arce, maturato, secondo il processo in corso dopo 21 anni, nella locale caserma dei carabinieri.

 

 

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