Per un po’ si farà un gran parlare del centenario del Pci. Lo farà anche Popoff ma la prendiamo alla larga. Iniziamo da qui, dal senso di un partito [Christine Poupin]
In momenti troppo pochi e troppo brevi, gli sfruttati e gli oppressi appaiono sulla scena politica, sconvolgendo la routine, come è avvenuto con la mobilitazione dei Gilet gialli, seminando il panico nelle file dei dominatori e di coloro che li servono. Ma è chiaro che oggi, e da diversi decenni, i dominati sono stati privati della propria espressione politica.
Sta prevalendo l’ideologia dei dominatori. Sono loro che dettano i temi del dibattito pubblico, impongono le loro “risposte” come le uniche possibili – se non legittime – risposte. Essi plasmano la comprensione comune del mondo. Se c’è resistenza, i subalterni non solo lottano per scongiurare i colpi alle loro condizioni di vita e ai loro diritti, ma anche per imporre le proprie preoccupazioni, le proprie urgenze, per formulare le proprie soluzioni e il proprio progetto per la società, e ancor più per impegnarsi nella lotta per il potere e il cambiamento nella società.
È difficile immaginare oggi gli strumenti che gli sfruttati e gli oppressi utilizzeranno per porre fine al capitalismo e stabilire il proprio potere perché saranno inventati concretamente nel movimento stesso che renderà possibile questa rivoluzione. Ricordiamoci che le diverse forme di partiti di massa che sono esistite (socialdemocratici, leninisti) sono il frutto di periodi storici molto diversi da quello in cui viviamo. Come scrivevano Marx ed Engels nel 1848 nel Manifesto del Partito Comunista: “Le concezioni teoriche dei comunisti non si basano in alcun modo su idee, principi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo. Sono solo l’espressione generale di una lotta di classe esistente, di un movimento storico che si sta svolgendo sotto i nostri occhi».
“Noi non siamo niente, siamo tutto!”
Sfruttati e oppressi, subordinati, dominati… tante parole per cercare di designare gli attori di questo cambiamento nella società, che non si limita a una definizione ristretta della classe operaia (schematicamente il lavoratore industriale bianco), ma integra pienamente la diversità di status, di genere e di condizioni di lavoro e di vita razziali della stragrande maggioranza della popolazione. Si tratta soprattutto di sottolineare che il confronto con il capitalismo non si limita al rapporto di sfruttamento nel lavoro salariato, ma comprende necessariamente la riproduzione sociale, con l’oppressione che combina e gioca ruoli decisivi in entrambi i campi. Ogni prospettiva emancipatrice dipende intimamente dalle condizioni reali, materiali, fisiche e sanitarie della nostra vita. Le varie crisi ecologiche, i cambiamenti climatici o le pandemie, l’artificializzazione e l’impoverimento dei suoli, il crollo della biodiversità o l’inquinamento dell’aria e dell’acqua minacciano le nostre vite e condizionano le possibilità stesse di costruire una società egualitaria e giusta. Tale distruzione è inerente al capitalismo e soprattutto all’accelerazione, nell’ultimo secolo e mezzo, del saccheggio estrattivista e dell’uso di combustibili fossili. Rendono ancora più urgente la rottura con questo sistema, ma richiedono anche una rottura con il produttivismo e quindi la rinuncia al “jolly dell’abbondanza” per inventare un nuovo progetto sociale. D’ora in poi, chiedono che le esigenze della giustizia sociale siano strettamente combinate con quelle della riduzione della produzione materiale.
Convinti dell’assoluta e urgente necessità di una trasformazione globale, radicale, profonda… rivoluzionaria della società, siamo ugualmente convinti che non sarà il partito – o addirittura una coalizione di diversi partiti – a realizzare questa trasformazione. Una tale rivoluzione è possibile solo attraverso la volontà, la mobilitazione e l’auto-organizzazione della stragrande maggioranza degli sfruttati e degli oppressi. Questa prospettiva richiede uno strumento, un’organizzazione, un partito… che ponga la questione del potere degli sfruttati e degli oppressi stessi, che proponga sia un obiettivo, cioè un progetto per la società – un orizzonte auspicabile, un’utopia – sia un percorso per raggiungerlo, cioè una strategia.
Non è il partito che prende il potere.
Uno strumento per porre la questione del potere dei dominati è molto diverso, anche il contrario, di un partito che prende il potere per loro conto. Per convincere la gente della necessità di costruire un partito, è imperativo confutare qualsiasi approccio come il partito guida, il partito d’avanguardia o il partito dei professionisti della rivoluzione… Questi approcci, se riescono ad attrarre coloro che si sentirebbero toccati dalla grazia di un alto livello di coscienza e quindi sognerebbero di essere i leader della rivoluzione e poi dello Stato che ne deriverebbe, sono dei veri e propri disgregatori in contraddizione con le aspirazioni di emancipazione sia collettiva che individuale. Inoltre, non imparano la lezione del ventesimo secolo, della degenerazione burocratica e dei pericoli del potere. Si preparano alla confisca del potere da parte di uno Stato di partito a scapito di coloro che pretende di rappresentare e che rimarranno dominati.
È imperativo porre fine alla proprietà privata dei grandi mezzi di produzione e dello Stato borghese, ma questo non basta a rivoluzionare la società. Per porre fine allo sfruttamento, all’oppressione, alla distruzione di quella che viene chiamata natura, l’intero funzionamento della società deve essere trasformato in una logica autogestita del comune.
Questa trasformazione è possibile solo con una rottura, un cambiamento, un confronto con il potere capitalistico. Ma per avere qualche possibilità di riuscire in questo inevitabile confronto – inevitabile perché non c’è alcuna possibilità che il capitalismo, anche in crisi profonda, cada da solo come un frutto maturo – dovrà poter contare su contropoteri già esistenti a diversi livelli, su strumenti, su risposte concrete e auto-organizzate ai bisogni essenziali, su strumenti democratici ed emancipativi per decidere e controllare. Insomma, non è con una bacchetta magica che, dal nulla, il dominato diventerà tutto. Non è nemmeno dalla coscienza portata dal partito che sarebbe l’unico detentore e custode di questa coscienza politica. È attraverso l’esperienza vissuta, la moltiplicazione delle esperienze. Come abbiamo scritto in occasione della creazione dell’Npa nei suoi principi fondatori: “È nel movimento sociale che progredisce la consapevolezza, che si sviluppa l’idea di un mondo nuovo, che la soddisfazione delle richieste popolari solleva la questione di chi guida la società».
Allora, quale partito possiamo costruire oggi? Nello stesso testo abbiamo risposto: “un quadro collettivo di sviluppo e di azione che riunisce coloro che hanno deciso liberamente di unirsi per difendere un progetto comune per la società” e abbiamo aggiunto: “Un partito non è fine a se stesso. È uno strumento per riunirsi, per diventare più efficaci nella lotta collettiva”. E questo è già molto e indispensabile.
Un progetto sociale comune è l’antidoto al rullo compressore neoliberale che vuole farci credere che non c’è alternativa, non c’è altro sistema possibile che il capitalismo, non c’è altro sistema possibile che il capitalismo, non c’è altro rapporto sociale che la concorrenza. Costruire e difendere un’alternativa ecosocialista è indispensabile per poter pensare alla fine del capitalismo in modo che l’unico orizzonte non sia la fine del mondo e la disperazione mortale degli apostoli del crollo. È indispensabile, perché le crisi ecologiche ci impediscono ormai di aggrapparci alla fede in una marcia inesorabile dell’umanità verso un domani più luminoso grazie al progresso tecnico e alla crescita delle forze produttive. L’alternativa non può che essere globale, come il sistema che vuole distruggere; per questo, lo strumento stesso deve essere fondamentalmente internazionalista nel suo programma e nella sua pratica, e quindi intimamente legato alla costruzione internazionale.
Abbiamo bisogno di un’organizzazione politica capace di svolgere il ruolo di intellettuale collettivo, cioè di un luogo di condivisione, di confronto e di sintesi di esperienze necessariamente diverse, a volte contraddittorie, alla luce di un progetto comune.
Svolge un compito specifico e necessario “memorizzando e sintetizzando le esperienze più fruttuose, lavorando quotidianamente per far sì che le idee tratte da queste esperienze si facciano strada” (intervista di Daniel Bensaid ad Actuel Marx nel settembre 2009). Nel 2001, all’epoca dell’esplosione nello stabilimento dell’AZF, l’LCR, con gli attivisti di Tolosa a fianco dei residenti colpiti e dei sindacalisti dell’industria chimica, ha potuto svolgere un ruolo utile per mobilitare e contrastare la divisione delle vittime di Total. Ha saputo anche esprimere politicamente il legame tra giustizia sociale e giustizia ambientale, con la parola d’ordine “Le nostre vite valgono più dei loro profitti”, che nel frattempo è stata ampiamente adottata. Questo esempio suggerisce, nella nostra modesta scala, cosa può o dovrebbe fare un’organizzazione politica. Non c’è una riflessione fruttuosa scollegata dall’azione. Tale organizzazione deve essere utile e attiva anche nelle e per le lotte, non perché sarebbe l’avanguardia illuminata, o l’ala più combattiva, ma per la sua capacità di riecheggiare e amplificare le dinamiche emancipatrici dei movimenti, per l’enfasi sull’auto-organizzazione, per aiutare a tessere legami e alleanze, per mettere in prospettiva un cambiamento nella società. La sua utilità sta anche nella capacità di prendere iniziative, senza sostituzioni, nel breve periodo della politica, anche con svolte, per cambiare favorevolmente gli equilibri di potere. È in particolari situazioni di crisi sociale e politica, situazioni in cui si rompe la “normalità” del dominio e dell’alienazione, che un progetto di trasformazione radicale può diventare ampiamente condiviso e vissuto come accessibile.
Il partito e gli altri…
In primo luogo, non c’è IL partito che da solo rappresenterebbe la classe degli sfruttati e degli oppressi. Il progetto che difendiamo è ecosocialista e internazionalista, ma va da sé che ci possono essere altri progetti e quindi diversi partiti dei dominati. Questo ovviamente solleva la questione dell’unità, della convergenza, della costruzione di fronti politici.
Ci sono anche altre forme di organizzazione: sindacati, associazioni con obiettivi più o meno ampi e con una durata più o meno lunga, movimenti autonomi come il movimento femminista… tante strutture collettive necessarie per le diverse lotte. I movimenti sociali, e le organizzazioni che creano, producono politica. Contribuiscono a cambiare le visioni della società, a contestare l’egemonia: le lotte contro progetti inutili e distruttivi sfidano il produttivismo, le azioni di solidarietà con i migranti, i collettivi di migranti senza documenti… praticamente e ideologicamente sfidano il razzismo di stato, mentre il movimento femminista continua a scuotere la società nel suo insieme, le relazioni di dominio e le assegnazioni di genere. Lo sciopero femminista rivoluziona la concezione, la pratica e i campi d’azione dello sciopero e contribuisce alla riflessione globale sulle modalità d’azione e sulla loro efficacia. Altre mobilitazioni, quando hanno, come a Notre-Dames-des-Landes, il tempo e i luoghi per costruire concretamente altri modi di vivere/produrre/abitare, fanno passi da gigante per la coscienza collettiva anticapitalista, mille volte più veloci dei più bei discorsi.
Il partito non ha il diritto esclusivo di “fare politica”. La differenza tra movimenti e partito non è di natura ma di funzione e non legittima alcun rapporto di tipo gerarchico o di “cinghia di trasmissione” come è avvenuto, ad esempio, tra il PC e la CGT, o altri movimenti. D’altra parte, attingendo a tutte queste esperienze a cui partecipano i suoi attivisti, nel rispetto della democrazia e dell’autonomia, e confrontandole con altre esperienze, anche storiche e/o internazionali, per cercare di trarre lezioni programmatiche, può a sua volta alimentare proficuamente le lotte future e far avanzare la lotta comune.
*da Revue L’Anticapitaliste n°120, tradotto in italiano per l’Almanacco Anticapitalista