7 italiani condannati per terrorismo arrestati in Francia. Tra loro ex Br e Pietrostefani. Altri 3 in fuga. Macron seppellisce Mitterand
L’hanno chiamato Ombre rosse, il dossier riguardante gli ex terroristi italiani arrestati questa mattina in Francia. Dei 7 fermati, quattro hanno una condanna all’ergastolo: Roberta Capelli, Marina Petrella, Sergio Tornaghi – tutti e tre ex appartenenti alle Brigate Rosse – e Narciso Manenti, dei nuclei armati contropotere territoriale. Per Giovanni Alimonti ed Enzo Calvitti, anche loro delle Br, la pena da scontare è rispettivamente 11 anni, 6 mesi e 9 giorni e 18 anni, 7 mesi e 25 giorni. Giorgio Pietrostefani, ex di Lotta Continua condannato per l’omicidio Calabresi, deve scontare una pena di 14 anni, 2 mesi e 11 giorni.
Altri tre sono ricercati, ha annunciato la presidenza francese. Un’operazione destinata a riempire con fiumi di piombo le colonne dei giornali da questa e da quella parte delle Alpi e di cui proveremo a delineare i contorni politici nelle prossime ore.
«È difficile immaginare che una condanna, scontata a oltre quarant’anni dai fatti. possa rispondere alle finalità costituzionali secondo cui la pena non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato», dice il presidente dell’Associazione Antigone, Patrizio Gonnella, in merito agli arresti avvenuti in Francia. «La pena carceraria non deve mai tradursi in vendetta. Questo è un principio che vale per tutti senza eccezioni. – aggiunge – E inoltre persone anziane, ultrasettantenni e malate vanno trattate nel rispetto del diritto fondamentale alla salute».
Nel colloquio dell’8 aprile con il suo omologo francese Eric Dupond-Moretti, la ministra della Giustizia Marta Cartabia aveva chiesto espressamente che gli ex terroristi fossero assicurati alla giustizia prima che intervenisse una nuova prescrizione . La data cerchiata sul calendario quella del 10 maggio, data in cui scatta la tagliola della prescrizione per l’ex brigatista Maurizio Di Marzio, che è uno dei tre ex terroristi in fuga. Per tutti gli arrestati di oggi si ferma il corso della prescrizione. Sarebbe scattata a breve la prescrizione per due degli ex Br arrestati oggi, Enzo Calvitti e Giovanni Alimonti: per il primo nel 2022 e per il secondo nel 2023. Interverrà nel 2026 invece per il fuggitivo Raffaele Ventura, se non sarà arrestato prima. Mentre per Giorgio Pietrostefani la prescrizione sarebbe arrivata nel 2027. Al di là dell’arresto le condanne erano comunque imprescrittibili invece per Roberta Capelli, Marina Petrella, Sergio Tornaghi – tutti e tre ex appartenenti alle Brigate Rosse – e Narciso Manenti, dei Nuclei armati contropotere territoriale, visto che devono scontare tutti l’ergastolo. La negazione dell’estradizione – in passato – per l’ex terrorista Marina Petrella da parte della Francia all’Italia, fu legata «al suo stato di salute, che ora sarà di nuovo preso in esame dalla Corte d’Appello quando sarà esaminata la sua richiesta di estradizione», ha detto una fonte dell’Eliseo. Anche per Giorgio Pietrostefani, che ha più di 80 anni ed ha subito un trapianto di fegato, l’Eliseo fa sapere di avere «fiducia nella giustizia».
Una «vendetta tardiva». Alessandro Gamberini, che nel processo per il delitto Calabresi difese Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi, esprime «sorpresa» per gli arresti a Parigi dei sette terroristi, tra i quali Giorgio Pietrostefani. «Dal mio punto di vista – osserva l’avvocato Gamberini – non posso che testimoniare sorpresa per Pietrostefani. Penso all’uomo di 78 anni con una situazione di salute non perfetta che ha vissuto a Parigi facendo il suo lavoro, e mi sembrano vendette tardive. E un pò incomprensibili. Certo, è chiaro che sul piano formale è tutto comprensibile: si è chiesto alla Francia di rispettare la collaborazione giudiziaria ma forse anche questa richiesta poteva non essere sollecitata. Io parlo da avvocato e ovviamente esprimo un punto di vista ‘faziosò ma rimango convinto che Pietrostefani sia innocente». Alessandro Gamberini ricorda l’iter giudiziario e la reazione di Pietrostefani: «Quando la sentenza di condanna passò in giudicato venne dalla Francia, si costituì. Da Parigi venne e si presentò dicendo: ‘io sono innocentè. Poi ci fu la battaglia per la revisione, molto tormentata, e la richiesta fu respinta. A quel punto, lui che all’epoca aveva una figlia piccola scelse di non restare e la scelta fu dettata anche da questa situazione personale, ritenendo che la sua vita andasse legata anche al ruolo paterno». Gamberini, come dice ancora oggi, ha sempre creduto nell«’innocenza di Pietrostefani». E, nel tempo, ha mantenuto i contatti con lui: «Lo ho sentito in epoca relativamente recente, lo incontrai anche a Parigi. Negli ultimi 2 o 3 anni aveva notizie più indirette ma non ho mai perso i contatti». Il pensiero dell’avvocato Gamberini torna all’omicidio del commissario Calabresi: «Una vicenda che risale al ’72, cioè a 50 anni fa, e che ha portato a condanne che risalgono a fine anno novanta. Ora si sanziona un uomo di 78 anni, ho l’impressione che la definizione di vendetta tardiva ci stia tutta». Quindi, riflettendo ad alta voce su ciò che potrà accadere, osserva Gamberini: «Io penso che per Pietrostefani, non avendo riportato la condanna con finalità di terrorismo ma per omicidio, non dovrebbero esserci ostacoli per una detenzione ai domiciliari». Di certo con gli arresti a Parigi si chiude la storia del Novecento italiano. «Sì è vero e si chiude un pò malinconicamente – dice l’avvocato Gamberini – perché c’è un qualcosa di insensato che riguarda almeno Pietrostefani». È il senso di giustizia per le vittime? «Dopo così tanto tempo penso che anche i familiari non potranno trarre un conforto da ciò».
«Perderesti il tuo tempo, non voglio commentare». Così, Adriano Sofri, con cortesia, ma con decisione, ha risposto all’Adnkronos.
«Temo anche io che sia una svolta storica perché esemplifica una volontà vendicativa non sminuita dai decenni passati. Stiamo parlando di fatti gravi che hanno determinato ferite che non si sono rimarginate. Ferite che vanno rispettate ma a mio parere non possono tradursi in vendetta postuma da parte delle istituzioni, certo i sentimenti dei singoli non sono discutibili», ha detto Sergio Segio, tra i fondatori di Prima Linea. «Personalmente riscontro una delusione nei confronti di Cartabia, una nomina che ho salutato come ministro della Costituzione pensando che potesse determinare concrete speranze per chi vive nelle carceri, in una situazione ancora più difficile vista la pandemia. Nell’art. 27 della Carta non mi pare sia contemplato il diritto alla vendetta». Per Segio «portare in carcere Giorgio Pietrostefani, 78 anni, pluriammalato, per fatti di 48 anni fa è il segno di una giustizia che sa solo mostrarsi forte con i deboli».
La decisione di consegnare i dieci nomi, basata su “richieste italiane che originariamente riguardavano 200 individui”, è stata presa dal presidente Emmanuel Macron ed è “strettamente in linea” con la cosiddetta dottrina “Mitterrand” della Francia, dal nome dell’ex presidente socialista, di concedere asilo agli ex brigatisti tranne che per crimini di sangue, ha detto la presidenza. L’estradizione degli ex attivisti di estrema sinistra rifugiatisi in Francia dopo gli “anni di piombo” – controversa definizione che la stampa padronale e gli intellettuali di corte danno di un periodo segnato da intense lotte di massa dei settori popolari e un livello di efferata violenza stragista e poliziesca, ma che per loro sarebbero soltanto segnati da attentati e violenze delle Brigate Rosse soprattutto tra il 1968 (che le Br nemmeno esistevano) e il 1982 – è stata per anni una richiesta dell’Italia, che la Francia non aveva quasi mai concesso. La lista di dieci nomi è il risultato di “un importante lavoro di preparazione bilaterale durante diversi mesi, che ha portato al mantenimento dei crimini più gravi”, ha sottolineato l’Eliseo. “Il presidente voleva risolvere la questione, come l’Italia chiedeva da anni (…). La Francia, anch’essa colpita dal terrorismo, comprende il bisogno assoluto di giustizia delle vittime. Attraverso questo trasferimento, è anche in linea con la necessità imperativa di costruire un’Europa della giustizia, in cui la fiducia reciproca deve essere al centro”, ha concluso la presidenza. I tribunali devono ora decidere sulla loro estradizione.
Gli arrestati devono essere presentati entro 48 ore alla procura della Corte d’appello di Parigi, prima che un giudice decida se devono essere detenuti o rilasciati sotto sorveglianza giudiziaria, mentre le richieste di estradizione italiane sono esaminate dai tribunali, ha detto una fonte giudiziaria. Questo dossier era riemerso in occasione del ritorno in Italia di Cesare Battisti, catturato nel gennaio 2019 in Bolivia ed estradato in Italia, dopo quasi 40 anni di latitanza in Francia e poi in Brasile. Il ministro dell’Interno italiano dell’epoca, Matteo Salvini, aveva allora dichiarato che la Francia ospitava da decenni “assassini che avevano ucciso degli innocenti” e chiedeva il ritorno in Italia di “una quindicina” di “terroristi italiani”, “che sono stati condannati ma fanno la bella vita in Francia”.
Sono Luigi Bergamin, Maurizio Di Marzio e Raffaele Ventura gli ex in fuga dopo l’operazione della polizia francese scattata questa mattina. Lo apprende l’ANSA. «Disgusto. Retata in Francia: meno male che non c’era più Bonafede. Mai fidarsi di una ciellina. Riarrestateci tutti e facciamola finita in un tripudio di tintinnar di manette. Io preparo la mappatella», così su Facebook Enrico Galmozzi, tra i fondatori di Prima Linea. In un altro post poi Galmozzi, riferendosi a uno dei tre ricercati, Raffaele Ventura, scrive: «Cmq Raffaele ‘Cozz’ Ventura non lo beccano mai…».
La retata era nell’aria in un paese segnato da una violenza poliziesca senza paragoni contro i movimenti sociali e da pruriti golpisti in seno alle forze armate, come Popoff ha documentato spesso. E, proprio la settimana scorsa, il quotidiano Le Monde* ha pubblicato una lettera appello firmata da decine di intellettuali francesi che riportiamo integralmente:
Sono arrivati in Francia per la maggior parte all’inizio degli anni ’80, più di quarant’anni fa. Hanno partecipato all’enorme ondata di contestazione politica e sociale che ha profondamente segnato l’Italia durante il decennio successivo al 1968. Provenivano da gruppi (politici) diversi, avevano dietro di sé storie diverse ed erano tutti perseguiti dalla giustizia italiana per la loro attività politica. Sono stati protetti da quella che è stata definita “dottrina Mitterrand”, poiché in certi casi le condizioni di funzionamento della giustizia italiana, dettate dalla necessità di dare una risposta urgente alle derive terroriste della contestazione sociale, lasciavano paradossalmente temere che tutte le garanzie di equità non fossero rispettate; poiché, più in generale, gli esiliati italiani avevano dichiarato pubblicamente che abbandonavano la loro militanza politica, che consideravano tramontata la loro attività politica, e che rinunciavano alla violenza. La dottrina Mitterrand non è un testo scritto, non ha valore che come decisione politica. Ma si fonda su un ragionamento che è stato riaffermato in seguito da molti governi, sia di destra che di sinistra, e che a noi pare valga la pena che sia senza dubbio ricordato. (Tale dottrina) non è mai consistita nel sottrarre dei colpevoli a una giusta pena, né nel rimettere in questione il diritto di uno Stato di far valere il proprio sistema giuridico. E’ piuttosto consistita nel proporre de facto un meccanismo di assunzione di una decisione politica di fronte alla lacerazione dolorosa e generalizzata della coesione di un Paese, e dal momento che il contesto politico di tale lacerazione sembra dissolversi, di costruzione di una unità e di una ritrovata pacificazione.
Trasformare il dolore in conoscenza. Quindi (la dottrina) non pone una questione di casi individuali, bensì prende atto di una frattura che si è verificata, di cui ha constatato la violenza e che pare ormai superata: si pone il problema della ricomposizione di tale frattura. Non cancella le colpe e le responsabilità, non nega la storia passata. Permette semplicemente al paese di ricominciare a vivere, e indubbiamente agli storici di poter cominciare a fare il loro mestiere, cioè a trasformare il dolore lancinante in conoscenza. Nel caso degli anni di piombo una simile eventualità si è prospettata ed è stata vicino a realizzarsi a opera dell’Italia stessa, alla fine degli anni 1990, poiché si doveva dichiarare chiuso un capitolo – ancora una volta non per dimenticare, ma per permettere al Paese di liberarsi del (peso di) un periodo ormai passato e di consegnare agli storici il compito di farne la storia. Tale opportunità sotto forma di proposta di una amnistia politica non è stata colta; era collegata a un progetto di riforma costituzionale che non ha mai visto la luce.
La guerra è finita. Oggi i militanti italiani arrivati (in Francia) all’inizio degli anni 1980 hanno quaranta anni di più. Hanno ormai superato l’età del pensionamento. Sono diventati giornalisti, ristoratori, medici, grafici, documentaristi, psicologi. Hanno avuto figli e nipoti. Hanno continuato a ripetere che la guerra era finita, che da tempo si sentivano lontani da quello che erano stati, senza tuttavia mai rifiutare di ammettere le loro responsabilità. Avevano voluto il bene, la giustizia, l’eguaglianza, la condivisione, la solidarietà. Hanno avuto la tragedia. Ne ammettono la responsabilità ma hanno reso le armi da quarant’anni e tutta la loro vita successiva ne è testimone. E’ a questi uomini e a queste donne che a 40 anni di distanza si chiedono i conti. Non da un punto di vista morale – ciascuno di loro ci ha già riflettuto a lungo – ma in nome di una giustizia che decreta che il perdono equivale all’oblio, che un’amnistia è sempre un tradimento, che la riconciliazione vale meno della riapertura delle piaghe. Riaprire le piaghe, fare in modo che la storia non passi. Riaffermare la dottrina Mitterrand oggi non significa in alcun modo dare all’Italia lezioni in materia di giustizia. Significa semplicemente ricordare che la politica si fa anche, e soprattutto, al presente, che è suo dovere costruire le condizioni di un futuro condiviso, e che la concezione della giustizia come puro strumento di vendetta anche dopo quaranta anni è contraria a ciò che noi continuiamo a ritenere un funzionamento illuminato della democrazia.”
«Sono dei fatti così vecchi che a un certo momento bisognerebbe voltare pagina e metterci una pietra sopra. Molti di questi ex terroristi all’epoca dei fatti erano giovani, e ora sono persone molto più grandi. Hanno forse commesso dei reati ma sono stati condannati da una giustizia eccezionale e alcuni probabilmente non hanno avuto neanche modo di difendersi di persona». Éric Turcon, l’avvocato di Cesare Battisti, l’ex membro del gruppo Proletari Armati per il Comunismo arrestato in Bolivia a gennaio del 2019 e successivamente estradato in Italia. A marzo del 2019 Battisti si è dichiarato colpevole degli omicidi per cui è stato condannato. «Cesare Battisti – sottolinea Turcon – è stato condannato senza aver mai visto un giudice. È stato condannato in contumacia. Se la stessa procedura è stata applicata ad altri di questi ex terroristi italiani arrestati oggi sarebbe necessario procedere a un nuovo processo, come prevede il diritto francese, altrimenti non è democratico. Battisti sapeva che se fosse stato arrestato ed estradato avrebbe dovuto passare la sua vita in carcere senza vedere mai un giudice e avere la possibilità di difendersi. È stato condannato sulla base delle dichiarazioni di un pentito che all’epoca dei fatti era uno dei dirigenti dei Pac che poi ha beneficiato, in quanto collaboratore di giustizia, della legge sui pentiti. Battisti non hai mai avuto la possibilità di spiegarsi nel corso di un processo», spiega l’avvocato. Da Turcon arriva un «no comment» sulle dichiarazioni del ministro della Giustizia francese, Eric Dupond-Moretti che, commentando al termine del Consiglio dei ministri francese l’arresto di 7 ex terroristi italiani degli anni di Piombo, ha sottolineato che «Battisti che ha goduto del nostro paese a lungo e in tutta impunità appena è stato interrogato dalla giustizia italiana ha ammesso la sua colpevolezza per quattro crimini» e che ha ammesso «di aver preso in giro gli intellettuali francesi che per anni lo avevano sostenuto».
«Questo paese appena cinque anni dopo la guerra ha dato amnistia e indulto a membri delle bande di fascisti che torturavano. E vogliamo parlare dell’armadio della vergogna? Sembra che solo i reati degli anni ’70 siano imprescrittibili, perché i protagonisti di quegli anni sono i vinti della storia». A parlare è Paolo Persichetti, negli anni ’80 nelle Brigate Rosse-Unione dei Comunisti, primo (e unico, al momento) ex terrorista estradato in Italia dalla Francia, che, commentando gli arresti di oggi, sottolinea: «La messa in discussione dello Stato, il crimine rivoluzionario, è quello che non perdonano, anche se quella rivoluzione è fallita e tutti lo sanno, dunque non c’è nemmeno un pericolo di ‘memoria’». «L’esilio – dice Persichetti, parlando di una esperienza che ha vissuto in prima persona – non dico che è una forma di pena ma è certamente un percorso di difficoltà, di sofferenza: vivi senza permessi, senza lavoro, non è che sei lì a fare la bella vita, anche se poi magari la propaganda ti dipinge a mangiare ostriche e champagne… In Francia non ho mai avuto assistenza medica, non avevo i soldi per fare nulla, quando vivi sans papier è così«. E tuttavia, racconta l’ex terrorista parlando dei fuoriusciti, »quelle persone anche restando lì sono riuscite a dare un valore aggiunto alla loro vita. Roberta Cappelli, ad esempio, lavora da tanti anni come educatrice in una scuola per bimbi disabili: era un architetta, si è riconvertita, ha acquisito nuove competenze ed è diventata una riabilitatrice, una figura fondamentale per tante mamme con figli in difficoltà. Marina Petrella, invece, ha un’associazione che fa un lavoro sociale enorme, si occupa dei vecchietti, fa attività di sostegno sul territorio. Che senso ha ora distruggere tutto ciò? La pena deve avere una funzione socializzante, riabilitativa… E in qualche modo l’esilio ha avuto lo stesso effetto – sottolinea Persichetti, oggi ricercatore storico – è stata la prova di un’alternativa possibile alla pena, alla sanzione e alla repressione, e una prova vincente. Il problema è che questo dimostra l’inutilità del sistema sanzione e del sistema giustizia come lo concepiamo. Ecco allora che dopo 40 anni lo Stato riafferma un potere su persone di 65 anni e più, che minimo dovranno fare 10 anni di carcere per avere benefici… Che senso ha? Il rapporto tra il tempo e la giustizia non può essere infinito».
Intanto si inseguono i dispacci di agenzia sulle biografie degli arrestati: Roberta Cappelli, nome di battaglia «Silvia», deve scontare l’ergastolo con un anno di isolamento diurno per associazione con finalità di terrorismo, concorso in rapina aggravata, concorso in omicidio aggravato, attentato all’incolumità ed altro, in quanto colpita da ordine di esecuzione pena emesso il 24 novembre del 1993 dalla procura generale di Roma. Tra gli altri reati, risulta responsabile degli omicidi del generale dei carabinieri Enrico Galvaligi (Roma, 31 dicembre 1980), dell’agente di polizia Michele Granato (Roma, 9 novembre 1979), del vicequestore Sebastiano Vinci (Roma, 19 giugno 1981). Cappelli risulta responsabile anche dei ferimenti del dottor Domenico Gallucci (Roma, 17 maggio 1980) e del vicequestore Nicola Simone (Roma, 6 gennaio 1982). Dal 15 gennaio del 1998 risulta inserita in Sis II, il mandato di cattura europeo con scadenza 30 luglio 2022. L’ex brigatista (che oggi fa l’architetta), e con lei l’ex marito Enrico Villimburgo, sono stati entrambi membri di spicco della colonna romana delle Br.
Giovanni Alimonti deve espiare anche la misura di sicurezza della libertà vigilata per anni 4 per banda armata, associazione con finalità di terrorismo, concorso in violenza privata aggravata, concorso in falso in atti pubblici ed altri reati in quanto colpito da ordine di esecuzione pena emesso 13.3.2008 dalla procura generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma. Tra i vari delitti per cui risulta condannato figura anche il tentato omicidio del vice Dirigente della Digos di Roma, Nicola Simone (avvenuto a Roma il 6 gennaio del 1982), nel corso del quale lo stesso terrorista è rimasto ferito, colpito da Simone, all’avambraccio destro. Alimonti, la cosiddetta talpa delle Br della Camera (faceva il centralinista a Montecitorio), è l’ex leader delle Br-Pcc, condannato a 22 anni anche nel processo Moro ter. L’ex Br risulta inserito il 27 febbraio del 2013 in SIS II, il mandato di cattura europeo con scadenza l’8 gennaio del 2022.
Luigi Bergamin è tra gli ideologi dei Pac, il gruppo armato di Cesare Battisti. Ed è stato condannato per due omicidi tra cui quello del macellaio Lino Sabbadin. Per lui dovrebbe essere già scattata la prescrizione. La prescrizione per Bergamin, uno dei tre fuggiaschi, non è scattata nei mesi scorsi, come sembrava dovesse accadere. Lo stop è dovuto a una pronuncia del tribunale di Milano, che ha dichiarato l’ex ideologo dei Pac «delinquente abituale»
È un ex brigatista Maurizo Di Marzio: partecipò al tentativo di sequestro del poliziotto Nicola Simone e per lui la prescrizione dovrebbe arrivare il 10 maggio. Raffaele Ventura è stato condannato insieme ad altri 8 per l’omicidio del vice brigadiere Antonino Custrà il 14 maggio del 1977 a Milano, durante una manifestazione indetta dalla sinistra extraparlamentare.
Enzo Calvitti, colpito da ordine di esecuzione di pena emesso dalla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Roma, deve espiare 18 anni, 7 mesi e 25 giorni di reclusione, nonché la misura di sicurezza della libertà vigilata per 4 anni per associazione sovversiva, banda armata, associazione con finalità di terrorismo, ricettazione di armi, come da sentenza del 6 marzo 1992 emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Roma, divenuta esecutiva dal 19 settembre 1992. Dal 19 giugno 1998, Calvitti, uno dei capi della colonna romana delle Br, risulta inserito in Sis II, il mandato di cattura europeo con scadenza 21 dicembre 2021. Condannato a 21 anni per tentato omicidio di un funzionario di polizia, sotto di lui, insieme alla moglie Anna Mutini, nasce nel Nord Italia «Seconda posizione», il movimento emerso in seguito alla frattura all’interno delle Br avvenuta dopo l’omicidio Moro. Quando venne arrestato nella sua casa in Francia, nel 1989, insieme alla compagna Mutini, la polizia trovò un documento in cui Calvitti invitava la «terza generazione» delle Br a continuare la lotta clandestina.
Narciso Manenti apparteneva ai «Nuclei Armati Contropotere Territoriale», deve espiare l’ergastolo per l’omicidio aggravato dell’appuntato dei carabinieri Giuseppe Gurrieri, a Bergamo il 13 marzo del 1979, oltre che 2 anni e mesi 6 di reclusione per ricettazione e detenzione e porto abusivo di armi ed 3 anni e 6 mesi per associazione sovversiva e partecipazione a banda armata, in quanto colpito da ordine di carcerazione emesso il 4 febbraio del 1986 dalla procura di Bergamo. Nel 1985 l’ex Br si è sposato con la cittadina francese Christine André Marie Hayotte. Dal 13 settembre del 2005 Manenti, oggi 63enne, risulta inserito in Sis II, il mandato di cattura europeo con scadenza il 6 luglio del 2023.
[continua]
*I primi firmatari dell’appello, la lista completa su LeMonde.fr: Arié Alimi, avvocato, Etienne Balibar, filosofo, Luc Boltanski, sociologo, Jean-Louis Brochen, avvocato, Fabien Calvo, professore di farmacologia, Jean-Louis Fournel, professore di scienze politiche, Claude Gautier, professore di filosofia politica, Pierre Girard, professore di italianistica, Nicolas Guillot, storico, Bertrand Guillarme, professore di filosofia politica e sociale, Bernard E. Harcourt, professore di diritto e di scienze politiche, Sandra Laugier, professoressa di filosofia, Dominique Maraninchi, professore di cancerologia, Fréderique Matonti, professore di scienze politiche, Jean Musitelli, ex consigliere diplomatico e portavoce di François MItterand, Judith Revel, professoressa di filosofia