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L’arte rivoluzionaria non ha partito preso

L’importanza della cultura nella teoria e nella pratica politica di Lev Trotsky, Rivoluzione e vita quotidiana [Stefano Tassinari]*

E’ un poeta prediletto. Amo soprattutto i suoi romanzi. L’amore degli insorti, forse più di altri. E m’è tornato in mente in questi giorni che la vendetta di uno Stato delle stragi s’è abbattuta ancora contro una decina di esuli per fatti di cinquant’anni fa. Ho avuto la sorte di conoscerlo e ne ricordo anche i sorrisi, le smorfie, la voglia di vivere, la determinazione politica. C’ero anch’io quella sera del Primo Maggio 2012 dietro le quinte del Concertone quando un emozionatissimo Carlo Lucarelli lesse l’incipit di un racconto si Stefano, Il ricordo amaro di un’assenza, dedicato ai morti sul lavoro. Lucarelli lo salutò dal palco – il Tass era già da un po’ in un hospice a Bentivoglio – «Ciao Stefano, vinceremo!». Tassinari ci manca dall’8 maggio del 2012. Stavolta Popoff lo ricorda con un suo articolo sulla posizione di Trotsky a proposito di arte e letteratura rivoluzionarie. 

 

Mi sono sempre chiesto come abbia fatto Lev Trotsky, mentre combatteva in prima persona contro le guardie bianche del generale Kornilov o cercava di resistere alla mostruosa macchina repressiva di Stalin, a trovare il tempo e la freschezza mentale per occuparsi di Dante e di Shakespeare, di Byron e di Puškin e poi, via via, di Blok, Esenin, Majakovskj e persino di D’Annunzio e di Silone.
Alla fine mi sono sempre risposto, banalmente, che ci riusciva perché era una persona geniale, ma anche – ed è ciò che ci interessa di più in questo contesto – perché aveva capito, primo fra tutti, che la sfera culturale era decisiva in assoluto (e cioè per la formazione di una diffusa coscienza critica, valore decisivo di per sé) e in relativo (e dunque per consentire uno sviluppo coerente di una rivoluzione che, per essere tale, non poteva restare confinata nella dimensione economica).
Purtroppo, la sistematica cancellazione della sua figura e delle sue opere da parte dei dirigenti stalinisti dei partiti comunisti (particolarmente riuscita nell’Italia togliattiana e anche post-togliattiana) ha fatto sì che intere generazioni di militanti e intellettuali della sinistra non siano state in grado di confrontarsi con posizioni e proposte specifiche – inerenti al cosiddetto “mondo della riproduzione” – attraverso le quali Trotsky aveva seminato un percorso politico che, se intrapreso, forse avrebbe impedito all’utopia comunista di sgretolarsi nelle forme che ben conosciamo, finendo con l’essere sommersa da quelle macerie che appare sempre più difficile rimuovere per costruire qualcosa di diverso.
E’ evidente che stiamo ragionando in termini di ipotesi, perché non abbiamo a disposizione una controprova, ma è altrettanto chiaro che, se le sue teorie sull’autonomia (almeno parziale) della sfera culturale da quella politica, sulla possibilità che proprio nell’agire artistico e culturale si sviluppi la coscienza critica e sul legame tra dimensione collettiva (la rivoluzione) e dimensione individuale (la vita quotidiana) si fossero radicate a livello popolare, quanto meno si sarebbero evitati i disastri del socialismo reale. Ciò non significa che, soprattutto nei primi anni successivi alla rivoluzione d’Ottobre, Trotsky non abbia espresso anche posizioni ambigue e gravi, come quando giustificò la scelta del governo bolscevico di aver mandato in esilio lo scrittore dissidente Arcybašev, in quanto, disse, “il bene della rivoluzione è per noi la legge suprema”, e chi metteva in discussione tale bene era “giustamente” soggetto a misure repressive come l’esilio. Qualche anno dopo, come è noto, lo stesso Trotsky fu vittima di un provvedimento odioso come l’esilio, e anche questo, non vi è dubbio, contribuì ad allargare le sue vedute in materia di dissenso politico. Detto questo, anche nel periodo più controverso – quando, cioè, Trotsky occupava ruoli di grande potere – le sue posizioni sulla cultura furono le più avanzate tra quelle espresse nel mondo bolscevico. Fu lui, ad esempio, a contrastare con forza le idee dei cosiddetti “napostovcy”, secondo i quali era necessario imporre agli autori di seguire i dettami di una presunta “letteratura proletaria”, che Trotsky non solo considerava sbagliata, ma addirittura inesistente (a tal proposito è rimasto il celebre l’intervento sarcastico con cui si rivolse al redattore della rivista “Na postu” dicendogli: “Siamo pronti accettare la definizione di Letteratura proletaria, basta che, oltre alla definizione, ci diate anche la letteratura!”).
In sostanza, per Trotsky non aveva alcun senso piegare la creatività artistica alle esigenze, anch’esse presunte, del partito e/o del governo, così come non ne aveva stabilire quali fossero le giuste linee tematiche e stilistiche della letteratura sulla base di quanto deciso dal Comitato centrale del Partito Comunista (come invece avverrà, purtroppo, ai tempi di Zdanov e di Stalin).
Non a caso, fu l’unico tra i dirigenti bolscevichi a schierarsi apertamente a favore dei cosiddetti “compagni di strada”, invisi ai burocrati – e in primo luogo ai mediocri scrittori che puntavano a consolidare una carriera letteraria potendo vantare, come unico talento, la propria fedeltà all’apparato di partito…. – e al centro di attacchi durissimi, soltanto per via dei loro riferimenti al simbolismo o alla poesia immaginifica. Quando, ad esempio, Sergej Esenin si suicidò, Trotsky – che lo definì “un poeta così splendido, così fresco, così vero” – si domandò, polemicamente, “come fosse possibile gettare un rimprovero dietro al più lirico dei poeti, che noi non siamo stati capaci di conservare?”. Eppure, proprio quel lirismo e quei riferimenti “contadini” così presenti nella sua poesia avevano fatto di Esenin un bersaglio della critica ufficiale, il che testimonia come Trotsky fosse del tutto immune da certe logiche manichee, come aveva già dimostrato anni prima, quando lo stesso fuoco di fila investì Alexander Blok, scomparso a soli quarantun anni nel 1921. Blok, prima amatissimo anche dagli intellettuali di cultura nobiliare e poi odiato da questi stessi personaggi per aver scritto il poema “I dodici” (da loro giudicato “bolscevico”), non fu mai accettato realmente dagli ambienti rivoluzionari in quanto la sua lirica, scritta in gran parte prima dell’Ottobre, venne bollata da chi vagheggiava una letteratura “di partito” come simbolista, misticheggiante e romantica.
Anche in questo caso fu Trotsky a difenderlo (malgrado ritenesse, sbagliando, che la componente più lirica della sua poesia non gli sarebbe sopravvissuta), non solo esaltando “I dodici” ( e fin qui è comprensibile, dato il tema molto politico del poema), ma sposando la tesi di Blok sulla necessità di “raffrontare i fatti di tutte le sfere della vita accessibili al mio occhio in un dato momento”, nella convinzione che “tutti insieme, quei fatti creino un unico accordo musicale”. Per Trotsky, questa dichiarazione confutava l’idea dell’estetismo autosufficiente, deponendo a favore del legame naturale tra l’arte e la vita sociale, convinzione da sempre alla base del suo pensiero. Per lui, infatti, la giusta autonomia della sfera culturale da quella strettamente politica non ha mai significato indipendenza dell’arte dalla dimensione sociale (cosa ben diversa), ma, casomai, la possibilità di utilizzare la cultura come strumento per mettere quotidianamente in discussione lo stato delle cose (concetto ben espresso dalla sua famosa frase: “l’arte non è uno specchio, ma un martello.”). D’altronde, questa non facile – per il contesto storico – presa di posizione a sostegno dell’idea stessa di “messa in discussione” culturale e sociale (poi sviluppata anche in termini direttamente politici, grazie alla sua teoria della “rivoluzione permanente”) è alla base anche del suo grande interesse nei confronti delle avanguardie e dei movimenti artistici, in particolare del Futurismo prima (pur con qualche perplessità, dato che lo riteneva “piombato” dentro la rivoluzione) e del Surrealismo poi. E se al Futurismo russo riconosceva di rappresentare “la rivolta dell’ala sinistra semipauperizzata degli intellettuali contro l’estetica chiusa e di casta degli intellettuali borghesi”, e di costituire “la lotta contro il vecchio vocabolario e la vecchia sintassi della poesia”, quindi “contro un vocabolario chiuso, artificialmente selezionato in modo che nulla d’estraneo venisse a perturbarlo”, nei confronti del Surrealismo espresse forme di adesione più entusiastiche, al punto da creare un vero e proprio sodalizio con il suo fondatore André Breton, con il quale scrisse a quattro mani il manifesto intitolato “Per un’arte rivoluzionaria indipendente”. In quel manifesto, tra l’altro, si dichiara che “l’arte e la poesia devono rimanere interamente libere”, concetto che, se oggi sembra ovvio (a noi, ma non a tutti, specie a certi dirigenti comunisti che non si sono mai realmente affrancati dallo stalinismo), a quei tempi era assolutamente minoritario.
E’ anche vero che, a un personaggio come Trotsky, il Surrealismo non poteva non provocare una grande simpatia fin dai suoi albori, dato che, se il primo manifesto metteva l’anticonformismo al centro della propria dichiarazione d’intenti, nel secondo manifesto surrealista l’approccio politico è reso ancor più esplicito nel momento in cui si chiarisce di non poter evitare di “porci in modo bruciante il problema del regime sociale sotto cui viviamo”, e quindi “l’accettazione o la non accettazione di questo regime”. Sbaglierebbe, però, chi pensasse a un Trotsky attento alla sfera artistica solo in relazione alla sua “politicità”. Non è così, nel modo più assoluto, e in tal senso è sufficiente leggere qualcuna delle sue tante pagine dedicate alla poesia o all’arte figurativa, per comprendere come fosse fortemente sollecitato dagli aspetti formali ed estetici, la cui innovazione riteneva una conquista.
E infatti, già negli anni Venti, a proposito delle forme usate dai futuristi, scriveva: “La poesia è cosa non tanto razionale quanto emozionale, e la psiche umana, che ha assorbito i ritmi e i nodi ritmici biologici e social-lavorativi, cerca la loro immagine idealizzata nel suono, nel canto, nella parola artistica.


Finché questa esigenza è viva, le rime e i ritmi futuristi, più flessibili, audaci e variati, costituiscono una conquista indubbia e pregevole. Altrettanto indiscutibili sono le conquiste dei futuristi nel campo della strumentazione del verso. Non si può dimenticare che il suono della parola è l’accompagnamento acustico del senso.”. E sempre a proposito del Futurismo e delle polemiche portate avanti nei suoi confronti dalla burocrazia bolscevica – secondo i cui esponenti, il Futurismo andava combattuto perché le opere futuriste erano “inaccessibili alle masse” – Trotsky rispose ancora una volta con l’arma dell’ironia, identificandosi in quei futuristi per i quali “anche Il Capitaledi Karl Marx è inaccessibile alle masse”, dato che”le masse, naturalmente, non hanno una preparazione culturale ed estetica e si eleveranno lentamente.”. Anche in questo caso, Trotsky pone con forza la questione della crescita culturale del proletariato, nella convinzione che si tratti di un obiettivo decisivo se si vuole che il potere, dopo aver cambiato mano, non rimanga un affare di pochi.
Purtroppo perderà, anche sotto questo profilo, lasciando però delle indicazioni che oggi sarebbe giusto riprendere, in quanto ancora di stretta attualità (è la Storia ad essere andata così poco avanti o siamo noi ad essere rimasti così indietro?). Non abbiamo spazio, in questa sede, per affrontare le tante polemiche, o le tante riflessioni, dedicate da Trotsky a svariati scrittori ed artisti di diverse epoche (da Cervantes a Wedekind, dall’amato Puškin aTolstoj, da Pil’njak a Kljuev, da Egger-Lienz a Schulda), rimandandovi, per questo, alla lettura del suo fondamentale “Letteratura e rivoluzione” pubblicato da Einaudi, ma qualche riga dobbiamo dedicarla a una specifica diatriba riguardante il giudizio sull’opera di Dante, in quanto emblematica del pensiero di Trotsky sull’arte. Nel suo scontro con i sostenitori della letteratura proletaria, Trotsky riprese un giudizio espresso da Raskol’nikov sulla “Divina commedia”, la quale, secondo lo stesso Raskol’nikov era da “considerare preziosa, proprio perché permette di capire la psicologia di una classe determinata di un’epoca determinata”. Trotsky reagì a questa posizione, dicendo che “ porre così il problema significa semplicemente cancellare la Divina commediadalla sfera dell’arte (…), trasformandola in un documento storico soltanto, perché come opera d’arte la Divina commediadeve dire qualcosa ai miei propri sentimenti e stati d’animo.”.
Ecco, ci sembra che questa piccola polemica sia in grado di illustrare al meglio la concezione trotskiana della cultura e dell’arte, non dimenticando che per il grande rivoluzionario la cultura è innanzi tutto un fenomeno sociale, che ha bisogno della lingua come strumento più prezioso di comunicazione, ma anche di essere recuperata integralmente da chi non la conosce (“La padronanza dell’arte del passato è una condizione necessaria non solo per la creazione della nuova arte, ma per la costruzione di una nuova società”). Vien da dire che, a parte Gramsci, nessun rivoluzionario di quell’epoca ha sostenuto queste posizioni e che, proprio nella loro marginalità, sta forse la principale chiave di lettura della sconfitta storica del comunismo, per lo meno nella versione con cui siamo stati costretti a fare i conti, e cioè quella staliniana prima e stalinista poi. Dietro la mancanza di dialettica culturale, infatti, c’è stata la mancanza di dialettica politica, prima fonte di creazione dell’autoritarismo che, di per sé, dovrebbe essere la negazione di una società socialista.
Ripartire dalla concezione trotskista della cultura e dall’individuazione della “questione culturale” come priorità può rappresentare un modo (l’unico? Il principale?) per cominciare a ricostruire un pensiero critico, depurato da molte scorie novecentesche e fondato su un assunto che ci pare ovvio e che era già chiaro allo stesso Trotsky quasi un secolo fa: la nostra liberazione, anche culturale, non può dipendere dalla trasformazione economica e strutturale della società, ma deve andare di pari passo con quest’ultima, esprimendosi anche in forme del tutto autonome, quindi come valore in sé.
Per seguire questa strada, però, non bisogna farsi condizionare da quei meccanismi tipici di un certo modo di fare politica, che, paradossalmente, hanno trionfato (entrando nella testa dei più) provocando automaticamente una sconfitta storica. E per farlo, forse, sarebbe utile ripescare le riflessioni e le teorie di quel Trotsky che, un grande pensatore e militante anarchico (dunque lontano dalle sue posizioni), il francese Maurice Joyeux, descrisse con queste parole. “Si possono certo discutere le posizioni politiche di Trotsky, sia riconoscergli una certa responsabilità nell’evoluzione del comunismo in Russia, ma è a mia conoscenza il solo marxista che si sia rifiutato a porre l’espressione letteraria o artistica a rimorchio di un partito.”.

*Articolo tratto, su autorizzazione dell’autore, da Nuova rivista Letteraria – semestrale di letteratura sociale – novembre 2010 – edizioni Alegre.

Stefano Tassinari (Ferrara, 24 dicembre 1955 – Bentivoglio, 8 maggio 2012) è stato giornalista, scrittore, drammaturgo e sceneggiatore. Tra i suoi romanzi L’ora del ritorno (Marco Tropea Editore, 2001), I segni sulla pelle (Marco Tropea Editore, 2003), L’amore degli insorti (Marco Tropea Editore, 2005; Edizioni Alegre, 2013), Il vento contro (Marco Tropea Editore, 2008). Autore di testi teatrali, letture sceniche e di programmi radiofonici per Rai Radio 3, ideatore e direttore artistico di varie rassegne letterarie, tra le quali La parola immaginata e Ritagli di tempo (ITC Teatro di San Lazzaro di Savena), autore di documentari televisivi girati, oltre che in Italia, in Nicaragua, Spagna, Francia, Portogallo ed ex Jugoslavia. Ha curato la messa in scena di decine di opere letterarie di scrittori italiani e stranieri, collaborando con attori e registi (tra gli altri: Marco Baliani, Ottavia Piccolo, Antonio Catania), musicisti (Paolo Fresu, ad esempio, Riccardo Tesi, Mauro Pagani, Yo Yo Mundi, Têtes de Bois, Casa del vento, Mario Arcari, Armando Corsi, Antonello Salis, Daniele Sepe, Patrizio Fariselli, Jimmy Villotti, Paolo Damiani e Gianluigi Trovesi) e fotografi come Mario Dondero, Tano D’Amico, Raffaella Cavalieri, Luca Gavagna e Dario Berveglieri). Vicepresidente dell’Associazione Scrittori Bologna, ha scritto di letteratura su quotidiani e riviste. È stato direttore e fondatore di Letteraria (rivista semestrale di letteratura sociale), legata dapprima ai nuovi Editori Riuniti e poi dal 2010 a Edizioni Alegre. È stato prima militante di Avanguardia operaia, poi segretario della federazione ferrarese di Democrazia Proletaria, infine (dopo una parentesi nei Verdi Arcobaleno), è stato militante del Partito della Rifondazione Comunista, fondatore e animatore del circolo PRC “Víctor Jara” di Bologna. È scomparso nel 2012 all’età di 56 anni dopo una lotta contro una grave malattia durata otto anni.

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