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La global tax del G7, un paradiso per le multinazionali

G7: ecco come le multinazionali vanno in Paradiso (fiscale [Marco Bersani, Attac Italia]

Giustizia fiscale è fatta?

Il suo nome era Cerutti Gino/ Ma lo chiamavan Drago/ Gli amici al bar del Giambellino/ Dicevan che era un mago[1]

“Accordo storico” è stata definita dai leader europei l’intesa di principio, uscita dal G7 finanziario di Londra, di applicare un’aliquota globale minima di almeno il 15% su tutte le imprese multinazionali e di tassare il 20% della quota eccedente il 10% dei profitti nei Paesi in cui vengono realizzati.

E subito, su tutti i media mainstream, si sono sprecati i peana al fondamentale ruolo avuto dal nostro Presidente del Consiglio, Mario Draghi, grazie alla cui autorevolezza tutto questo è stato possibile.

Si tratta davvero, come dice Draghi, di “un passo verso una maggiore equità e giustizia sociale per i cittadini” o siamo di fronte alla più grande presa per i fondelli per gli stessi?

Di cosa parliamo quando diciamo multinazionali

Secondo il rapporto 2020 “Top 200. La crescita del potere delle multinazionali”[2]elaborato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo, le imprese multinazionali sono 320.000 e occupano 130 milioni di dipendenti, pari al 4% degli occupati mondiali. Il loro fatturato è pari a 132mila miliardi di dollari, con profitti netti pari a 7.200 miliardi di dollari. Il 14% di questo fatturato è coperto dalle prime 200 imprese multinazionali.

Molte multinazionali hanno un fatturato superiore al Prodotto Interno Lordo degli Stati: nella comparazione, nei primi 100 posti compaiono 42 multinazionali (con la prima al 25esimo posto). Ma se il confronto viene effettuato con le entrate degli Stati, le multinazionali presenti nei primi cento posti diventano 69 (con la prima al 13esimo posto).

Sempre secondo il rapporto, le società quotate in Borsa sono circa 41.000, con un capitale complessivo di 84mila miliardi di dollari, pari al Pil dell’intero pianeta.

Tra gli azionisti delle prime 10.000 di queste società figurano per il 41% investitori istituzionali (assicurazioni, fondi di investimento, fondi pensione), per il 27% azionariato diffuso, per il 14% investitori pubblici, per l’11% imprese private e per il 7% investitori individuali.

I primi dieci fra gli investitori istituzionali gestiscono da soli il 57% della ricchezza totale finanziaria, mentre fra gli investitori pubblici, è il capitale pubblico cinese a fare la parte del leone (57%).

Come evidenziano i dati, siamo in presenza di una ricchezza enorme, sempre più concentrata in poche mani. Ma quanto di questa ricchezza ritorna alla collettività attraverso le tasse?

Di cosa parliamo quando diciamo elusione fiscale

Per ridurre il carico fiscale, le multinazionali utilizzano diverse tecniche. Quella più semplice consiste nella creazione di una società controllata con sede in un paradiso fiscale, in cui spostare gli utili conseguiti dalle altre società del gruppo.

Un’altra tecnica è quella del transfer pricing, che consiste nell’effettuare transazioni (prestiti, cessioni di marchi e brevetti o servizi) tra società che fanno capo a una controllante che ha sede in un paradiso fiscale.

Nessun paese europeo rientra nella cosiddetta “lista nera” dei paradisi fiscali adottata dal Consiglio d’Europa. Eppure, non c’è alcun dubbio che alcuni Stati membri della UE svolgano un ruolo centrale nel trasferimento di capitali verso giurisdizioni a fiscalità privilegiata.

Uno degli indizi dell’importanza di alcuni centri finanziari europei nel sistema internazionale dell’elusione fiscale, è dato dagli enormi flussi di investimenti diretti esteri che vi si dirigono.

Lo conferma la “Relazione sui reati fiscali e l’evasione[3] del Parlamento Europeo, che evidenzia come l’elevato livello di investimenti esteri rispetto al Pil in Belgio, Cipro, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Olanda sia solo in parte spiegato da attività economiche effettive.

Parte degli investimenti esteri è destinato, infatti, a sussidiarie o “società a destinazione specifica”. Si tratta di società “buca-lettere”, cioè entità giuridiche senza consistenza fisica e che non svolgono alcuna attività economica reale, costituite per minimizzare il carico effettivo globale delle multinazionali.

I “frugali” Olanda e Lussemburgo

Nonostante si tratti di due nazioni piccole per dimensioni economiche e demografiche, Lussemburgo e Olanda attraggono più investimenti diretti esteri della Cina[4].

Nel complesso, i livelli degli investimenti esteri nei due paesi europei sono di poco inferiori a quelli degli Stati Uniti, la più grande economia al mondo.

Per avere un’idea, si consideri che, nel 2019, il livello di investimenti esteri in ingresso in Olanda era di 4.445.969 milioni di dollari, in Lussemburgo di 3.422.838 milioni. Ovvero, rappresentava il 4.928% del Pil del Lussemburgo e il 490% di quello dell’Olanda. Valori stratosferici che, però, scendono al 185% e al 193% del Pil quando si escludono gli investimenti verso le società a destinazione specifica.

In altri termini, ben il 96% dello stock di investimenti esteri in entrata in Lussemburgo, il 60,6% di quelli in Olanda è riconducibile a società a destinazione specifica o “buca-lettere”.

Il furto legalizzato

Grazie ai meccanismi sopra illustrati, circa il 40% degli utili delle multinazionali imbocca la strada dell’elusione fiscale: si tratta, secondo la stessa Ocse, di quasi 800 miliardi di dollari che provocano una perdita fiscale agli Stati pari a 240 miliardi.

Per dare un solo esempio concreto, leggendo il bilancio 2020 di Amazon, si evince che la sede europea del colosso dell’e-commerce, ha toccato i 44 miliardi di fatturato, con un balzo di 12 miliardi rispetto all’anno precedente, grazie al crollo della vendita al dettaglio determinata dal lockdown della pandemia. Alla “costola” europea di Amazon fanno capo tutte le vendite realizzate in Italia, Francia, Spagna, Germania, Olanda, Svezia e Polonia, ma la sede fiscale si trova in Lussemburgo, dove Amazon ha presentato una chiusura dei conti con una perdita di 1,2 miliardi (giustificati con le spese per gli investimenti), che, stante la legislazione fiscale del Granducato, garantisce alla multinazionale 56 milioni di crediti d’imposta, oltre ad una serie di ulteriori agevolazioni fiscali. Risultato finale: nel 2020, Amazon europea con un fatturato di 44 miliardi non ha versato un euro al fisco.

E l’Italia?

Secondo il Tax Justice Network (Rapporto 2020), a causa all’evasione e dell’elusione fiscale internazionale, l’Italia perde annualmente 12,4 miliardi di dollari (circa 10 miliardi di euro), corrispondenti al 2% delle entrate fiscali. Un ammanco causato per 8,8 miliardi di dollari dal trasferimento di profitti delle multinazionali e, per 3,6 miliardi, dall’evasione offshore dei privati. I mancati introiti equivalgono al 9% della spesa sanitaria italiana e al 15% della spesa per l’istruzione. Nel complesso, le risorse perdute consentirebbero, all’Italia, di assumere 379.380 infermieri[5].

Le multinazionali in Paradiso (fiscale)

Tutti sorridono/ Solo il popolo non ride, ma lo si sa/ Sempre, piagnucola/ Non gli va mai bene niente chissà perché[6]

Ora abbiamo qualche strumento in più per rispondere alla domanda iniziale e un primo indicatore ce lo fornisce il fatto – taciuto dai media mainstream – di come il provvedimento del G7 finanziario sia stato accolto con un plauso da Google, Amazon e Facebook, ovvero da tre delle principali multinazionali che dovrebbero subire la svolta imposta dai Governi in direzione della giustizia fiscale.

E ne è chiara la ragione: l’aliquota del 15% è solo leggermente superiore a quella che oggi pagano le multinazionali in paesi a fiscalità agevolata, come l’Irlanda (12,5%), ma ovviamente molto inferiore a quella che le multinazionali pagano in tutti gli altri Paesi (con una media impositiva del 26%).

Ecco allora il vero elemento storico dell’intesa raggiunta al G7: vanificare l’elusione fiscale, trasformando l’intero pianeta in un paradiso fiscale per le multinazionali.

In Italia oggi una persona con reddito fino a 15.000 euro paga il 23%; con reddito fino a 28.000 euro paga 3.450 euro più il 27% della parte eccedente i 15.000 euro; con reddito fino a 55.000 euro paga 6.960 euro più il 38% della parte eccedente i 28.000 euro.

Fra qualche anno – perché l’intesa del G7 dovrà essere sottoposta al G20 e successivamente all’Ocse –  imprese multinazionali che fatturano 523.964 miliardi di dollari (Walmart), 280.522 miliardi (Amazon), 260.174 miliardi (Apple) pagheranno sugli utili il 15%.

Alzi la mano chi non si sente preso per il culo[7]

 

[1]“La ballata del Cerutti Gino” di Giorgio Gaber

[2]http://www.cnms.it/attachments/article/196/top200_2020.pdf

[3] Parlamento Europeo, Relazione sui reati finanziari, l’evasione fiscale e l’elusione fiscale, P8_TA(2019)0240.

[4] Fonte: OECD, FDI in Figures, April 2020

[5]Tax Justice Network, The State of Tax Justice 2020: Tax Justice in the time of COVID-19, November 2020.

[6] “Il banchetto” della Premiata Forneria Marconi

[7] Quanno ce vò, ce vò

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