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Così don Gallo festeggiò i suoi 73 anni

Il 18 luglio 2001 Andrea Gallo festeggiò a modo suo i suoi 73 anni. Il giorno appresso era in piazza a Genova

Il 18 luglio 2001 don Andrea Gallo festeggiò a modo suo i suoi 73 anni. Il giorno appresso sfilò con quelli che venivano chiamati no global per le strade di Genova, sembrava una festa come non si vedeva da tempo. Quei giorni mi disse: «Le marce del Sud che incontrano le reti del Nord del mondo», difficile trovare una definizione più precisa per chi cerca “l’altro mondo possibile”. Il mattino successivo, assieme a Franca Rame era in Piazzale Kennedy, in sottofondo L’Internazionale intonata in due-tre lingue da migliaia di manifestanti e un drappello di poliziotti che recitavano la parte dei buoni. Il resto lo sapete, in questi giorni lo ricordano in tanti: fu ucciso Carlo Giuliani.. e se vi pare eccentrico da questa “scor-data” pensateci meglio.

La prima volta che misi piede nella Comunità di S.Benedetto al Porto, don Gallo non c’era, era in giro chissà dove, tra drogati, princese, poveri, malati, ma sulla porta, scritto a mano un bigliettino richiamava un adagio sandinista, «qui non si arrende nessuno» che al Gallo era stato insegnato dai suoi colleghi preti della teologia della liberazione. Ma avrebbe potuto essere benissimo il contrario visto che a quindici anni, cinque anni prima di entrare in seminario, questo studente dell’Istituto tecnico nautico segue suo fratello più grande e va in montagna a fare il partigiano: nome di battaglia Nasan, nasone. Già odiava gli indifferenti. Come Gramsci.

Dieci anni dopo, in Brasile, vide una grande scritta su una cattedrale: “Tu che stai per entrare in chiesa, cristiano, ascolta”. «Ve la immaginate una scritta così a San Lorenzo (il duomo di Genova)? C’è il rischio che nessuno vada in chiesa! – raccontava – a Genova c’era una scritta: “Il mondo si divide tra oppressi e oppressori, tu cristiano, da che parte stai?”». Beh, lui non aveva dubbi. Infatti, dopo il seminario dai salesiani il Gallo va in missione nel Brasile paulista, prima ancora di “prendere messa”, conosce le favelas e trova insopportabile la dittatura militare.

Le sue pratiche si intrecciano con quelle di don Milani anche quando, nel 60, diventa cappellano sulla Garaventa, nave scuola di un noto riformatorio per minori: «in questa esperienza cerca di introdurre una impostazione educativa diversa, dove fiducia e libertà tentavano di prendere il posto di metodi unicamente repressivi», ricorda il sito della sua Comunità; i ragazzi parlavano con entusiasmo di questo prete che permetteva loro di uscire, andare al cinema e vivere momenti comuni di piccola autogestione, lontani dall’unico concetto fino allora costruito cioè quello dell’espiazione della pena.
Tuttavia i superiori salesiani, dopo tre anni lo rimuovono dall’incarico senza spiegazioni e nel ’64 Andrea decide di lasciare la congregazione chiedendo di entrare nella diocesi genovese: «la congregazione salesiana – disse Andrea – si era istituzionalizzata e mi impediva di vivere pienamente la vocazione sacerdotale». Lo spediscono in carcere, cappellano a Capraia e due mesi dopo vice parroco alla chiesa del quartiere Carmine di Genova dove rimarrà fino al 1970, anno in cui verrà “trasferito” per ordine del cardinale Siri, uno dei prelati più reazionari, l’altra faccia della Chiesa, quella che vuole entrare nelle tasche, nelle mutande e nella testa delle persone. Il primo luglio tutto il quartiere scende in piazza per contestare Siri, un bambino piange, seduto su un gradino. A un vigile che gliene chiese il motivo, quel ragazzino rispose: «Mi hanno rubato il prete».
La Curia parlava di normale avvicendamento di sacerdoti ma non vi furono dubbi per nessuno: rievocare quel conflitto è molto importante, perché esso getta luce sul significato della predicazione e dell’impegno di Andrea in quegli anni, sulla coerenza comunicativa con cui egli vive le sue scelte di campo “con” gli emarginati e sulle contraddizioni che questa scelta apre nella Chiesa locale.
La predicazione di Andrea irritava una parte di fedeli e preoccupava i teologi della Curia, a cominciare dallo stesso cardinale perché, si diceva, i suoi contenuti «non erano religiosi ma politici, non cristiani ma comunisti». Un’aggravante, per la Curia è che Andrea non si limita a predicare dal pulpito ma pretende di praticare ciò che dice e invita i fedeli a fare altrettanto: la parrocchia era diventata un punto di aggregazione di giovani e adulti, di ogni parte della città, in cerca di amicizia e solidarietà per i più poveri, per gli emarginati che trovano un fondamentale punto di ascolto. Per la sua chiara collocazione politica, la parrocchia diventa un punto di riferimento per molti militanti della nuova sinistra, cristiani e non.
E’ ancora il sito di Sanbe che aiuta a ricordare: L’episodio che scatena il provvedimento di espulsione è un incidente verificatosi nel corso di una predica domenicale: lo descrive il settimanale “Sette Giorni” del 12 luglio 1970, con un articolo intitolato «Per non disturbare la quiete». Nel quartiere era stata scoperta una fumeria di hashish e l’episodio aveva suscitato indignazione nell’alta borghesia del quartiere: Andrea, prendendo spunto dal fatto, ricordò nella propria predica che rimanevano diffuse altre droghe, per esempio quelle del linguaggio, grazie alle quali un ragazzo può diventare «inadatto agli studi» se figlio di povera gente, oppure un bombardamento di popolazioni inermi può diventare «azione a difesa della libertà».
Qualcuno disse che Andrea era oramai sfacciatamente comunista e le accuse si moltiplicarono affermando che aveva passato ogni limite: la Curia decide per il suo allontanamento dal Carmine.
Questo provvedimento provoca nella parrocchia e nella città un vigoroso movimento di protesta ma la Curia non torna indietro e il “prete scomodo” deve obbedire: però rinuncia al posto “offertogli” all’isola di Capraia che lo avrebbe totalmente e definitivamente isolato.
Lasciare materialmente la parrocchia non significa per lui abbandonare l’impegno che ha provocato l’atteggiamento repressivo nei suoi confronti: i suoi ultimi incontri con la popolazione, scesa in piazza per esprimergli solidarietà, sono una decisa riaffermazione di fedeltà ai suoi ideali e alla sua battaglia: «La cosa più importante – diceva – che tutti noi dobbiamo sempre fare nostra è che si continui ad agire perché i poveri contino, abbiano la parola: i poveri, cioè la gente che non conta mai, quella che si può bistrattare e non ascoltare mai. Ecco, per questo dobbiamo continuare a lavorare!».
Qualche tempo dopo viene accolto dal parroco della chiesa di San Benedetto, don Federico Rebora, e insieme a un piccolo gruppo nasce la comunità di base, la Comunità di San Benedetto al Porto la cui porta, dopo più di cinquant’anni è sempre ancora aperta.

[e il 20 luglio sarà sua l’unica iniziativa di critica aperta alla repressione: dalle 10.30 alle 13.00 Comunità di San Benedetto al Porto –Antigone –Magistratura Democratica discuteranno di tutela dei diritti inviolabili di chi è sottoposto alla restrizione della libertà personale con Domenico Chionetti –Comunità San Benedetto al Porto; Annunziata Salerno, mamma di Emmanuel Scalabrin, Grabriella Branca, legale famiglia Scalabrin; Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo –legale famiglia Cucchi; Patrizio Gonnella, Antigone; Riccardo De Vito, presidente di Magistratura Democratica e Mauro Palma-Garante nazionale delle persone private della libertà per la tutela e i diritti inviolabili di chi è sottoposto a restrizione della libertà personale]

E’ a metà degli anni 70 che il don incrocia il mondo delle dipendenze: l’epidemia di eroina sta saturando i carrugi. «Un giorno il Gallo trova un ragazzo a terra, collassato – ricorda Domenico Chionetti, per tutti Megu, che lavora a Sanbe – subito prova a portarlo in ospedale ma inizia un’odissea tra i nosocomi genovesi che rifiutano il ragazzo e, non sapendo come trattarlo, suggeriscono di lasciarlo al manicomio». E’ lì che il Gallo inizia a battere la strada della riduzione del danno, la più scomoda ma forse la più rispettosa dell’umano e la meno conveniente per le narcomafie.

Andrea parla ancora: ad esempio ne «Il canto del Gallo» – un documentario di Ugo Roffi e Ludovica Schiaroli – ci sono molte sue testimonianze. Ma se volete cercare le sue tracce basta passare per Genova e chiedere in giro.

questo articolo è uscito su La Bottega del Barbieri in occasione del compleanno di don Gallo

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