Breviario in 15 punti per non perdere la fede nell’intelligenza. Una polemica che parte dalla denuncia del neoliberismo da parte di tre normaliste
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Se fosse soltanto per il livore che esprime e la totale vacuità delle sue argomentazioni, l’articolo di Claudio Giunta che prende posizione su “il Post” contro l’intervento di Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi, le tre studentesse della Normale di Pisa, non varrebbe neanche un briciolo dell’attenzione che il suo autore cerca disperatamente. Diverso è invece se quella lunga e paternalistica filippica viene analizzata come artefatto tipico di una intellettualità (ex) di sinistra sepolta nel sistema universitario italiano, tanto da essere diventata muta nel dibattito pubblico ma che è sempre pronta a prendere posizione contro chi ha il coraggio di metterne in discussione i privilegi e l’autorità morale.
Claudio Giunta e il suo intervento bilioso ben rappresentano questa parte del mondo intellettuale che ha assunto il motto thatcheriano “there is no alternative”, ben nascosto dietro la parvenza di una critica corrosiva all’esistente che non risparmia i “luoghi comuni della sinistra” (l’impegno, per citarne uno) e che strizza l’occhio alla moda del “non politicamente corretto”, in un mercato dell’attenzione nel quale l’importante è differenziarsi per godere del proprio quarto d’ora di celebrità.
Insomma, divertimento assicurato.
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Questo artefatto intitolato un po’ ambiguamente “Non sono in credito” si presenta ai lettori e alle lettrici con una lunga introduzione che – sulla scorta di una citazione – ha lo scopo di fornire una prima argomentazione al fastidio risentito da Claudio Giunta per il consenso suscitato in molti suoi conoscenti (normalisti come lui) dalle parole delle tre studentesse. Ma serve soprattutto a soddisfare il narcisismo del letterato che ne cita un altro e che usa la letteratura come strumento di analisi. L’argomentazione, ridotta all’osso, è ben riassunta dalla frase in cui Giunta esprime la
“poca considerazione che ho per le opinioni dei più giovani quando queste opinioni riguardano aspetti della vita associata della quale per forza di cose essi non hanno ancora un’esperienza sufficientemente ampia e varia.”
Boom.
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Le critiche politiche e ben argomentate portate nel dibattito dalle tre studentesse della Normale di Pisa (che sono riassunte in un articolo pubblicato sul sito web della rivista “il Mulino”) non sono da prendere in considerazione secondo Claudio Giunta semplicemente perché provengono da esseri umani giovani. In questo caso l’argomento chiude ad ogni contestazione perché si appoggia su una caratteristica biologica che di per sé esclude dal dibattito pubblico una larga fetta della popolazione mondiale. E’ un argomento di autorità e quindi assolutamente non democratico, perché ancorato a una qualche supposta “naturalità”: “sei giovane? E allora che ne vuoi sapere?”. Chiuso il discorso.
Com’è ovvio si tratta di una argomentazione irricevibile per qualsiasi persona dotata di un minimo di buon senso e che dimostra come pure il raggiungimento di una certa età e di una certa esperienza non basta ad evitare di dire un sacco di scemenze. Ma vogliamo forse impedire ai professori universitari maschi, bianchi e di mezz’età di esprimere il loro autorevole parere? E quale sito di informazione, rivista online, sezione culturale di quotidiano se ne priverebbe mai?
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L’interesse e la bellezza di questo artefatto, dotato di una sua pregnanza simbolica, sta anche nel suo essere un oggetto-totale del pensiero dei tanti Claudio Giunta che vivono nel sistema universitario e nel mondo intellettuale italiano. In quanto tale lascia trasparire altri elementi del pensiero selvaggio – perché selvaggiamente corre nelle vuote pianure intellettuali – di cui sono portatori. Prendiamo la frase
“Non è affatto detto che chi protesta o s’indigna, magari trovandosi in una posizione di debolezza, abbia ragione”.
Ora proviamo a leggere tra le righe “Black lives matter”, “femminismo”, “minoranze sessuali”. Chiaro no?
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“Questa abitudine inconsulta della sinistra – ci stanno dicendo tutti i Claudio Giunta della Terra – a stare sempre dalla parte del torto, dei più deboli, ci ha stufato”. A niente serve rispondere che le minoranze e gli oppressi del mondo intero non li ascolta nessuno, oggi meno che mai, e che la sinistra, con i suoi “luoghi comuni” contro i quali si scagliano non esiste più se non nei loro incubi o in ristretti circoli carbonari di fatto esclusi dal dibattito pubblico.
Interessante documento di una silenziosa ribellione contro la novecentesca tendenza degli oppressi a protestare e contro il “razzismo alla rovescia” di neri o femministe, questo scritto è anche espressione della stanchezza del maschio bianco di mezza età per un bagaglio di valori difficile da difendere in un tempo di barbarie come il nostro e del quale egli si vuole liberare. Per vivere finalmente senza sensi di colpa la propria ascesa verso il (simulacro di) potere offertogli dall’istituzione in cui naviga. In fondo non è che il diario di una triste ribellione contro sé stessi.
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Il testo, fosse stato per Claudio Giunta, avrebbe anche potuto concludersi con la inflessibile scomunica della gioventù che apre l’articolo. Ma, nella sua magnanimità, il professore di lettere dell’università di Trento ha voluto nonostante tutto passare in rassegna le argomentazioni critiche delle normaliste che tanto hanno scosso i sentimenti dei suoi conoscenti e che l’hanno risvegliato dal suo torpore accademico.
E qui, con un po’ di sconcerto viste le premesse, registriamo una sorprendente comunanza di visioni: giustamente – secondo Giunta – parlano di sotto-finanziamento dell’università, di precariato, di difficoltà esistenziali di chi intraprende la strada accademica, di ineguaglianza tra donne e uomini. E allora che c’è che non va? Quello che scatena il furore del professore è la categoria “neoliberismo”, utilizzata dalle tre normaliste nel loro intervento per riassumere le misure che contestano e che hanno investito negli ultimi trent’anni l’università italiana.
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Claudio Giunta si scaglia contro l’uso di quella che definisce una “categoria passe-partout”, pur avendo affermato di condividere i contenuti che le studentesse pongono sotto il suo cappello. E allora è tutto un ringhiare, un abbaiare contro le “spiegazioni semplici e rassicuranti” che l’uso del termine neoliberismo comporterebbe.
L’operazione è chiara quanto scorretta dal punto di vista argomentativo perché è l’equivalente di un cane che azzanna rabbiosamente il dito che indica la luna, convinto che quando esso sarà stato mozzato allora la luna cesserà di esistere. E se non ci sono più dita, allora non c’è più nessuno che può avere l’ardire di indicarla. Un po’ rozzo come metodo per delegittimare il ragionamento altrui.
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Quello che poi ai molti Giunta del mondo intellettuale italiano non piace nell’uso del termine “neoliberismo” inteso in senso critico è il suo essere un marker dell’identità di sinistra, uno dei pochi che ancora riescono (anche se solo in minima parte) a suscitare un po’ di dibattito pubblico in questo Paese. Ogni volta che lo sentono pronunciare da giovani studenti e studentesse scatena in loro un rabbioso riflesso pavloviano, che consiste nel prendere le distanze, furiosamente. Il rischio, altrimenti, è quello di venire identificati dall’establishment e finire i propri giorni da intellettuali imprigionati sulle colonne de “il manifesto”, dove francamente non ti legge nessuno e coltivare il proprio narcisismo da domenicale è molto più difficile.
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La critica al neoliberismo è anche – seppur contraddittoriamente – patrimonio comune alla sinistra che potremmo definire con un aggettivo rischioso “radicale”. E tutto quello che fa parte di una riflessione condivisa è anche ciò che per questo genere di intellettuali è più pericoloso, proprio perché è manifestazione del collettivo, che si oppone alla loro ricerca dell’individualità e dell’originalità a tutti i costi. La creazione del personaggio da inserto culturale richiede una disciplina attenta ad evitare accuratamente tutto ciò che può richiamare il dibattito orizzontale; che mette sullo stesso piano l’operaia, il cassiere della Lidl e il professore universitario. Loro non scrivono su Internazionale.
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Per Claudio Giunta “bisognerebbe evitare di ricorrere alla scorciatoia delle grandi teorie macroeconomiche”, perché “il neoliberismo non c’entra niente”. Ma, seppure questa verità appare per lui scolpita nella pietra, è necessario comunque riflettere “sugli errori e le leggerezze commesse anche da parte di coloro che oggi tuonano contro l’ordine neoliberista”. Difficile capire a chi si riferisca, chi siano questi convertiti all’anti-liberismo che ora accendono ceri sotto il ritratto di Keynes. A occhio e croce non sono moltissimi e di certo non abitano nel PD o al Ministero della pubblica Istruzione. Ma imputare alle studentesse pisane (e alla sinistra anti-liberista in generale) di non aver contestato queste figure mi pare, oltre che incredibilmente contorto, una inutile vaccata.
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“Il neoliberismo non c’entra niente”: l’università è in difficoltà per “la necessità di formare una massa di studenti e non più soltanto un’élite, e di farlo in tempi di finanze non particolarmente floride”. Non è – ci spiega il professore – il taglio costante alle risorse pubbliche dedicate all’università che porta a deludere la promessa di un’educazione accademica alla portata di tutte e tutti; è piuttosto la democratizzazione dell’accesso all’università a creare le condizioni della sua crisi. Qui le possibilità sono due: o si rilancia il finanziamento pubblico all’università sulla base di una critica ai fallimenti del neoliberismo o si torna agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando l’Accademia era per pochi. Par di capire che Claudio Giunta propenda per la seconda, dando per scontato di avere un posto sicuro tra gli eletti. Non ne siamo convinti.
Ma dopo aver buttato lì l’idea, il professore si ritrae, nascondendo il suo elitarismo dietro un verdetto senza appello: le soluzioni al problema dell’università italiana sono “difficilissime” da trovare, forse “impossibili”. E se un professore universitario dice che non ci sono alternative, chi siete voi per alzarvi e dire “non sono d’accordo?”.
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E però non possiamo non dispiacerci del fatto che Giunta abbia avuto – ascoltando le tre normaliste – l’impressione “di una grande superficialità, di una lezione ripetuta a pappagallo”. La “lezione” che egli qui contesta è quella che – almeno dalla Rivoluzione francese in poi – impone di avere uno sguardo critico sul mondo che ci circonda e che avoca alla sinistra, sia essa riformista o rivoluzionaria, il diritto e il dovere di mettere in discussione le basi inique su cui è costruito il nostro mondo. Sarà pure una lezione poco originale, ma senza tutte e tutti coloro che l’hanno incessantemente ripetuta, che le hanno dato parole, braccia e gambe, non saremmo nemmeno qui a discutere, Giunta compreso.
Il fatto è che qualcuno pensa di potersi disfare come si fa con i vestiti vecchi di concetti quali “solidarietà” o “eguaglianza”. E non capisce che poi ci si ritrova nudi, indifesi nella palude del presente.
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E’ quando le studentesse denunciano le pressioni psicologiche dovute alla logica dell’eccellenza, del publish or perish; quando raccontano della stanchezza e della sindrome dell’impostore che perseguita tutti e tutte; della cupa atmosfera che crea tra gli studenti una concorrenza spietata; è allora che l’artefatto che stiamo analizzando mostra maggiore distanza emotiva e insieme minore coerenza argomentativa. Il discorso si articola qui attorno a un ragionamento binario che non prevede vie d’uscita. “Penso che se uno accetta di giocare a un gioco poi non deve lamentarsi quando si accorge che quel gioco ha regole difficili da rispettare”, dice Claudio Giunta, cancellando d’un tratto la possibilità di esercitare la propria critica una volta entrati in una istituzione, qualunque essa sia. Di certo pare essere quello che è successo a lui.
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Proviamo ad estendere questo ragionamento ad altri ambiti per metterne alla prova la tenuta: “Se accetti di presentarti alle elezioni poi non puoi lamentarti se scopri che esiste la corruzione politica”; “Se accetti di iscriverti a una palestra poi non puoi lamentarti se scopri che hai degli istruttori fascisti che ti portano sull’orlo dell’infarto”; “Se accetti di lavorare alla catena di montaggio poi non puoi lamentarti del padrone che ti sfrutta”. La logica è quella della corresponsabilità che – privata del necessario riferimento alla necessità che ci impone di sopravvivere in un sistema anche se ne contestiamo i principi – fa di tutte e tutti noi delle/dei complici di qualche cosa. Anche qui il meccanismo della delegittimazione del pensiero e delle intenzioni altrui è piuttosto rozzo: se siamo tutti complici allora contestare non ha senso. E chi si ribella non può pretendere di essere più puro degli altri: è soltanto un traditore o un ipocrita.
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Ma il meglio lo abbiamo tenuto per la fine, e questo nonostante il nostro editorialista da inserto culturale della domenica ce l’abbia offerto con generosità proprio all’inizio del suo pezzo.
Si tratta di una similitudine che, nell’intenzione di Claudio Giunta, si vuole popolare e insieme profonda, a somiglianza di come tutti i Giunta del mondo costruiscono la propria personalità pubblica: eruditi e insieme vicini al popolo, un po’ di sinistra (non troppo, attenzione) ma anche un po’ aristocratici. Vale la pena di riportarla qui, giusto per assaporarla ancora una volta:
“non è detto che chi fa regolarmente benzina alla stazione di servizio abbia delle cose profonde o interessanti da dire sull’industria petrolifera: di solito, anzi, non è così.”
Una metafora banale e un po’ tristanzuola in sé ma quasi tenera nella bocca di un professore universitario che sta dando una sonora lezione a tre ragazzine appena diplomate che si sono permesse di fustigare l’università italiana a suon di dati. Banale eppure vera; ingenuamente e involontariamente vera.
Paragonando gli studenti agli utenti di un distributore di carburante che non necessariamente hanno qualcosa da dire sull’inquinamento, lo sfruttamento delle risorse del pianeta, la distruzione sociale di intere popolazioni, la corruzione legata all’industria petrolifera, questa frase ci fornisce la chiave per penetrare nel Giunta-pensiero. Che si rivela a noi nella sua piccolezza come una deludente variante del pensiero neoliberale: le studentesse e gli studenti – e tutti/e noi insieme a loro – non sono che consumatrici/tori e in questa veste possono tutt’al più scegliere il distributore che offre i prezzi più bassi. Le grandi scelte, i ragionamenti globali sul nostro futuro lasciamoli all’ENI.
Insomma – spiega il professore alle studentesse pisane – non siate cittadine, questo ruolo non vi compete.
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Sia chiaro, non ce l’ho personalmente con Claudio Giunta che magari, a conoscerlo, è un simpatico buontempone con il quale è bello discutere tutta la notte di cultura e tradizioni giapponesi, sulle quali ha persino scritto un libro. Potremmo farci delle grasse risate parlando del sistema editoriale italiano. Ce l’ho invece con quelle centinaia, migliaia di spettri che come lui si aggirano nelle aule universitarie e che non hanno il coraggio di ammettere a sé stessi la propria fascinazione per la retorica di destra, dove tutto è più semplice, definito: nero/bianco; maschio/femmina. Dove si possono aggredire senza argomenti degni di questo nome tre studentesse che con grande coraggio e competenza esprimono il proprio dissenso.
Spettri che ci obbligano incessantemente a confrontarci con le loro frustrazioni, alle quali continuiamo a dare spazio per non sembrare antidemocratici e forse anche perché siamo un po’ affascinati dal loro cinismo, così lontano da quella che dovrebbe essere la nostra tradizione di pensiero. Imponendosi nel dibattito a sinistra approfittando di un equivoco, provano a tenerci incatenati ai loro rancori. Non sono il nostro unico e più urgente problema, è vero, ma lo sbatacchiare delle loro catene nella notte ci distrae dal lavoro incessante e necessario di affilare le armi della critica.
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