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Zehra Dogan, pittura d’evasione

Alla Prometeo Gallery di Milano “Prigione n.5”, inediti di Zehra Dogan e pagine originali del suo diario dal carcere [Eliana Como]

Ha aperto a Milano mercoledì 27 ottobre Prigione n.5, opere inedite di Zehra Dogan insieme alle pagine originali del suo diario dal carcere. Alla Prometeo Gallery, fino al 20 dicembre.

Zehra Doğan è una giovane artista curda, nata a Diyarbakir, la più grande città a maggioranza curda della Turchia. Nel 2016 è stata arrestata dal regime di Erdoğan per aver pubblicato su Twitter un disegno di Nusaybin, città nel sud-est della Turchia, al confine con la Siria, rasa al suolo dall’esercito turco. È stata la prima donna arrestata per un disegno. Banksy realizzò per lei un murale a New York, facendo conoscere al mondo intera la notizia del suo incredibile arresto. Due anni, nove mesi e ventidue giorni di detenzione, scontati nelle prigioni turche di Mardin, Diyarbakir e Tarsus. Non c’era alcun capo d’accusa contro Zehra, ma, dopo il fallito golpe del 2016 e l’imposizione dello stato di emergenza da parte di Erdoğan, la libertà di espressione non ha diritto di cittadinanza in Turchia.
La nuova mostra di Zehra Dogan ha aperto proprio pochi giorni prima dell’arrivo di Erdoğan a Roma per il G20 e dopo la sua decisione di dichiarare “non grata” la presenza in Turchia degli ambasciatori di Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Finlandia, Danimarca, Olanda, Svezia, Norvegia e Nuova Zelanda, “colpevoli” di avere firmato un appello a favore della liberazione di Osman Kavala, detenuto da oltre 4 anni in un carcere di massima sicurezza, accusato, senza alcun processo, di terrorismo antiregime.
Alla Prometeo Gallery sono esposte, per la prima volta, le pagine originali del diario dal carcere, oltre ad opere inedite di Zehra, che ora vive in Europa, “libera”, ma non di tornare nel suo paese.


Rinchiusa in prigione, in celle sovraffollate, piene di donne e bambini, Zehra trovò nell’arte e nella sorellanza il modo per resistere alla reclusione e alla condizione degradante a cui lei e le altre erano condannate. Imparò a disegnare nell’unico spazio che le restava, accucciata sotto il letto. Quando le tolsero anche colori e pennelli, continuò con una penna e con quello che trovava: caffè, thé, buccia di melograno, altri resti di cibo, anche i capelli, persino il sangue mestruale, suo e delle sue compagne di cella.
Dipinse ovunque poteva, su carta da pacchi, lenzuola, asciugamani, fogli di giornale. È così che realizzò una intera graphic novel sulla vita in carcere e sulla repressione del popolo curdo, disegnando con una penna sulle lunghissime lettere che l’amica Naz Oke le inviava quotidianamente, avendo cura di lasciare il retro vuoto affinché Zehra trovasse lo spazio su cui disegnare. Una dopo l’altra, quelle lettere, insieme alle altre opere, riuscirono a superare la censura ed “evadere” dal carcere, nascoste tra le divise da lavare. Recentemente pubblicate dal Becco Giallo in Prigione n.5, sono ora esposte, in fila una dopo l’altra, alla Prometeo Gallery.
Quella di Zehra Doğan è una vicenda artistica straordinariamente potente che pone il tema del rapporto tra arte e potere, libertà e repressione, sorellanza e femminismo. Le opere di Zehra raccontano il suo strazio, quello delle sue compagne di carcere e insieme il dramma di un intero popolo, quello curdo. In particolare raccontano il dramma delle donne curde, protagoniste principali dell’opera di Zehra. I loro corpi nudi, contorti dall’odio e dal dolore, sono i corpi veri delle donne. Corpi che soltanto una donna poteva dipingere così, tutt’altra cosa dall’essere l’oggetto perturbante dello sguardo maschile.
Ma sono soprattutto i loro occhi a parlare. Occhi spalancati e fissi, come quelli delle icone bizantine, di una potenza assoluta, violenta e fragile al tempo stesso. Sguardi immobili, che inchiodano lo spettatore alla verità. Ci guardano, testimoniando e denunciando quello che loro hanno visto e, al tempo stesso, ci implorano di essere noi a guardare il dramma del loro popolo, invaso, posseduto e umiliato. Noi che, da questa parte del mondo, troppo spesso spostiamo lo sguardo altrove per non vedere.


La mostra alla Prometeo Gallery è un gioiello. Potente e quanto mai attuale nella denuncia del regime nazionalista e reazionario di Erdoğan e delle condizioni di vita nelle carceri turche, dove tuttora sono reclusi uomini e donne (con loro purtroppo anche tanti bambini) che, molto spesso, come Zehra, hanno l’unica colpa di aver osato esprimere un’idea.
La mostra, dal punto di vista artistico rappresenta anche un passaggio significativo nell’arte di Zehra, sempre straordinariamente potente, ma in evoluzione e non uguale a se stessa. Le sue nuove opere, realizzate a loro volte su antichi tappeti tessuti a mano da donne curde, hanno qualcosa di diverso dalle precedenti. Gli occhi di queste donne sono ancora più profondi, come se, nel loro dramma, avessero raggiunto una loro serenità, di cui il tratto fondamentale è, ancora più che nelle precedenti opere, la sorellanza. Andate a vederle, perché raccontarle non può rendere questa profondità. Soffermatevi sui loro capelli intrecciati come si intrecciano le loro vite, guardatele in fila, le une accanto alle altre, forti perché tutte insieme, in gruppo, che siano le combattenti del Rojava in abiti militari o donne che ballano o piangono a un funerale.

Guardatele dritte negli occhi. Vi accorgerete che, per un istante, finalmente, le donne di Zehra sembrano sorridere.

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