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D’Alema rincorre il Pd che rincorre Renzi

D’Alema irrita Letta dicendo: il Pd è guarito dal morbo Renzi e quindi si può rientrare. Il primo tormentone politico del 2022

Nel Pd si registra «profonda irritazione» per le parole pronunciate venerdì scorso da Massimo D’Alema in riferimento alle vicende del partito. È quanto rilevano fonti del Nazareno. “Non è stato deciso nessuno scioglimento di Articolo Uno nel Pd – ribatte sempre oggi, 2 gennaio, Arturo Scotto, tra i fondatori di Articolo Uno e componente della direzione. D’Alema irrita a 360 gradi. La poco appassionante traiettoria di Articolo 1, la scissione di Bersani e D’Alema dal Pd proclamata nell’inverno del 2017, diventa il primo tormentone politico del 2022 con le reazioni al discorso di capodanno di D’Alema, indimenticato premier che guidò l’Italia nella guerra contro la popolazione civile della ex Jugoslavia, che gestì lo spezzatino Telecom con svendita, tutte le aziende municipalizzate che erogavano acqua, gas, elettricità, trasporti urbani, rifiuti urbani furono trasformate in imprese private, seminò sale bingo per la penisola e liberalizzò il mercato della casa cancellando una misura timida come l’equo canone. Tanto per dire a memoria di quanti possano pensare che il ritorno di quel pezzo di ceto politico nel Pd sia un segnale per il “campo largo” di spostamento a sinistra del baricentro politico del partito che, con Forza Italia, s’è spartito il compito di traghettare l’Italia nel torbido mondo del neoliberismo e dell’austerità (liberalizzazioni, privatizzazioni, precarizzazione, guerra, lager per migranti, furto delle pensioni, scippo dei beni comuni e altri reati politici e comuni). C’è da star sicuri che l’agenda setting dei media mainstream avrà non poca influenza a sinistra e che il tormentone su quanta percentuale c’è nel Pd ci accompagnerà per un bel pezzo. Fino alle elezioni politiche. Il succo, per chi non volesse finire di leggere il pezzo è che il Pd non può permettersi di non riassorbire gli articolisti uno, ma non vuole che se ne parli come di una svolta a sinistra perché la cultura politica di questo partito non contempla, banalmente, alcuna ipotesi di soluzione progressista, il renzismo non è stato un accidente ma una conseguenza del lungo cammino che ex Pci ed ex Dc hanno intrapreso sposando le tesi del neoliberismo, più mercato meno stato, per capirci. Che D’Alema sia urticante per l’approccio che adotta è solo materia da rotocalchi.

«Leggere che si pensi a D’Alema per spostare il PD a sinistra significa, primo, non aver capito nulla della storia di quel partito e ruolo di D’Alema – commenta l’economista Marta Fana – secondo, in 20anni non aver creato quadri e militanti di spessore e credibili per compiere una rottura anche dentro. Fine». Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione, distingue tra un D’Alema e un Renzi: «D’Alema è uno con cui doverosamente capita di litigare a sinistra. Renzi non ha nulla a che fare con la sinistra. Però che il ‘popolo del centrosinistra’ lo abbia votato in massa dà l’idea che il problema è molto più profondo di Renzi. E’ la mutazione genetica della ex-sinistra».

Il ritorno della ditta nel Pd è vicino, aveva annunciato costui in un brindisi di fine anno via Zoom a cui hanno partecipato anche Bersani e il ministro della Salute Speranza, entrambi favorevoli a un percorso comune con il Pd per una forza di centrosinistra che dialoghi con il M5s: un cammino iniziato proprio con le Agorà, la parvenza di consultazione della base messa in scena da Letta. D’Alema ha lanciato frecciate anche al presidente del consiglio, Mario Draghi e forse per questo è stato bersagliato da giornali e partiti tifosi del grande banchiere: «L’idea che il premier si auto-elegge Capo dello Stato e nomina al suo posto un alto funzionario del ministero dell’economia mi pare non adeguata per un grande Paese democratico come l’Italia, con tutto il rispetto per le persone». E poi: «Non mi impressiona che abbiamo al governo Draghi, che è una condizione di necessità, ma il tipo di campagna culturale che accompagna questa operazione, sulla necessità di sospendere la democrazia e di affidarsi a un potere altro che altro non è se non il potere della grande finanza internazionale». Quindi, per D’Alema la scelta del nuovo Presidente della Repubblica deve essere l’occasione per «un ritorno in campo della politica», con «una soluzione di compromesso che, inevitabilmente, non potrà non coinvolgere un ampio campo».

Massimo D’Alema ha definito il percorso di confronto delle Agorà organizzate da Enrico Letta «il modo migliore per arrivare ad una ricomposizione che appare necessaria» fra i dem e Articolo Uno, di cui fanno parte i «fuoriusciti» dal Pd quando a guidarlo c’era Matteo Renzi, quindi anche Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza. Alla stagione al Nazareno dell’allora rottamatore, D’Alema ha riservato parole durissime: «La principale ragione per andarcene era una malattia terribile che è guarita da sola, ma che c’era». Giudizi che hanno contrariato molti fra dem ed ex dem, renziani ed ex renziani. «D’Alema mi ha sempre fatto la guerra da dentro e da fuori. Quando ho guidato il Pd abbiamo preso il 40 per cento, governato 17 regioni su 20 e scritto pagine importanti sui diritti, per abbassare le tasse, sul lavoro e sull’impresa con Industria 4.0. Con noi la classe operaia ha ricevuto più soldi, non solo con gli 80 euro. Per uno come D’Alema tutto ciò è una malattia. La ricetta del dottor D’Alema, chiamiamolo così, è avere il 20 per cento, stare all’opposizione in larga parte delle Regioni, fare convegni sui diritti senza approvare alcuna riforma, fare scioperi sul lavoro e scommettere su sussidi di cittadinanza. Sono due visioni opposte della vita e della politica. Se i Dem di oggi pensano che il renzismo sia la malattia e D’Alema sia la cura sono contento per loro e faccio molti fervidi auguri. È il motivo per cui non sono più nel Pd: io credo nel riformismo, loro nel dalemismo», ha ribattuto Matteo Renzi, padre del jobs act e del salva Italia e di altre porcherie, intervistato da ‘Il Messaggero’. Ovvio che l’ex scout, già sindaco di Firenze, sorvola sul fatto che lui era alla guida del partito democratico anche quando dal 41% delle europee del ’14 è precipitato al 18 e rotti del 2018.

«Il Pd da quando è nato, 14 anni fa, è l’unica grande casa dei democratici e progressisti italiani. Sono orgoglioso di esserne il segretario pro tempore e di portare avanti questa storia nell’interesse dell’Italia Nessuna malattia e quindi nessuna guarigione. Solo passione e impegno», taglia corto, infine, su Twitter il segretario Enrico Letta, dopo le polemiche suscitate dalle affermazioni di venerdì scorso di Massimo D’Alema. Anche per Scotto D’Alema ha ribadito “cose già note”, ovvero che “la stagione renziana è oggettivamente finita e il Pd torna a guardare a sinistra”. “Con l’adesione alle Agorà del Partito Democratico stiamo dando il nostro contributo per riscrivere il programma del campo progressista, in primavera ci sarà il nostro congresso e i nostri iscritti decideranno”: stupisce nelle parole di Scotto – uno dei primi a mollare l’idea di Grande Sel, accarezzata all’epoca da Vendola e i suoi per calamitare i centrifugati da Renzi – la totale assenza di un bilancio politico inconsistente delle manovre alla sinistra del Pd eppure anche oggi assicura: «stiamo portando nel dibattito i nostri temi: dalla lotta alla precarietà, alla riforma elettorale in senso proporzionale, dall’ambiente ai beni comuni. Su questo misureremo il confronto e a valle seguiranno le scelte politiche che dovremo fare ma siamo dentro a una discussione che è in corso da tempo”.

E’ uno spazio politico, quello occupato da Mdp-Articolo 1, in cui si puà dire tutto e il contrario di tutto: «Il 2022 ci aprirà uno spazio politico significativo per rendere ancora più forte le sfide di fondo che ci hanno accompagnato per una vita e che non sono mai state così forti», stravede Roberto Speranza, ministro della Salute di Conte e Draghi che con la recente manovra continua a tagliare la sanità pubblica per dare fondi a quella privata. Eppure Speranza parla come un Luther King: «Vedo tornare attuali valori e principi di fondo, dentro la crisi pandemica si apre uno spazio per un messaggio diverso, un nuovo rapporto tra Stato e mercato, una nuova fase in cui solidarietà, integrazione, inclusione sono valori più facili da affermare».

«Enrico Letta ha voluto le agorà come progetto di apertura e coinvolgimento di tutti coloro che credono nei valori e nei principi del centrosinistra, anche favorendo ricomposizioni con chi ha abbandonato il PD. Un progetto che guardi al futuro e sappia dare speranza alle giovani generazioni. Le parole rozze di D’Alema vanno in senso contrario: guardano al passato e rimestano rancori mai sopiti. Se questi sono i presupposti per ragionare su future evoluzioni del Partito Democratico, per noi semplicemente la questione non esiste». Così il senatore Alessandro Alfieri, coordinatore nazionale di Base Riformista, i renziani rimasti nel Pd. «Ci sono due punti sicuramente positivi: da un lato il fallimento politico di chi ha prodotto scissioni e oggi, con ritardo, sembra esserne finalmente consapevole; dall’altro – prosegue Alfieri in una nota – la conferma, nei fatti, che il Partito Democratico è e rimane l’unico soggetto politico autentico e popolare nel quale si concretizza qualsiasi progettualità riformista e progressista».

Poi è arrivata anche la nota di Fassina, molto duro su Renzi ma incapace di immaginare una sinistra autonoma dal Pd: «Renzi non è stato la malattia del Pd. Ed è stata proprio la larghissima prevalenza, tra noi fuoriusciti del Pd, di tale lettura a segnare l’esito delle nostre improvvisate avventure politiche. Renzi è stato l’interprete estremo, abilissimo e spregiudicato dell’impianto originario del Pd, della matrice liberal-democratica del Lingotto, nel 2007. L’agenda Monti è la nostra agenda era il mantra della classe dirigente veltroniana in prima fila anche nel Pd guidato da Bersani. Per inciso: i montiani del 2012 sono sostanzialmente gli stessi che, oggi, sostengono che l’agenda Draghi è l’agenda del Pd. Comodo Renzi capro espiatorio. Ma Renzi ha stravinto le primarie del Pd non soltanto nel 2013, dopo la sconfitta di Bersani, ma anche nel 2017, dopo la batosta referendaria e la botta ricevuta dal M5S nelle elezioni amministrative del 2016. Al dominio di Renzi nel Pd, hanno posto fine gli elettori, in via definitiva il 4 marzo 2018. Certo, aiutati da chi ha combattuto da dentro e da chi ha combattuto da fuori. Ma l’impianto difettoso del Pd rimane, sebbene, dopo l’avvento di Zingaretti e Letta, implicito e bilanciato dal timido affacciarsi di qualche voce laburista e Keynesiana, sospinta dal cambio di stagione culturale e politica. C’è un enorme lavoro culturale e politico da affrontare per riportare la Sinistra, dentro e fuori il Pd, a fare il suo mestiere».

 

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