«Chi ha pestato Stefano non si poteva permettere che vedesse un legale di fiducia». Fabio Anselmo ricostruisce il depistaggio
«I depistaggi su Stefano Cucchi sono stati finalizzati, fin dal primo momento, ad allontanare qualsivoglia responsabilità delle istituzioni dello Stato sulla sua morte, quando Stefano era proprio nelle mani dello Stato. Depistaggi che hanno come principale motore e ‘anima nera’ nel generale Alessandro Casarsa». E’ la voce di Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, a risuonare per quasi quattr’ore, nell’aula bunker di Rebibbia, nella quarantesima udienza del processo, che vede imputati otto carabinieri, per i depistaggi messi in atto dopo la morte del trentunenne romano avvenuta nel 2009. Il legale della famiglia Cucchi ha inoltre fatto ascoltare in aula la registrazione dell’udienza di convalida del fermo, avvenuto per detenzione di droga, di Cucchi. «Fa venire i brividi ascoltare Stefano: esce da quell’udienza per andare a morire. Cucchi era un ragazzo perfettamente sano, faceva palestra, era magro esattamente come sua sorella e nessuno rivedendo le sue foto direbbe che è una tossicodipendente». «L’esame di Casarsa è una confessione – ha concluso Anselmo – di chi sente al di sopra di tutto e di tutti, di chi mostra un amore viscerale per la carriera. È l’uomo operativo: si è tentato di farci credere che nessuno sapeva nulla, che le notizie venivano apprese dalla stampa. La cosa che più mi ha stupito in questo processo è che si è negata l’evidenza, la logica, fino alla fine».
Anselmo si concentra sui giorni immediatamente successivi alla morte del detenuto. Tutto si giocherà fra il 22 e il 30 ottobre del 2009. Questo sui depistaggi è indicato come Cucchi-ter, il primo fu quello scaturito proprio dal depistaggio contro alcune guardie penitenziarie incastrate dalle deviazioni di un’inchiesta nata male, nei giorni in cui l’Arma, a Roma, era stata travolta dallo scandalo Marrazzo, il governatore della Regione Lazio ricattato da quattro carabinieri della Compagnia Trionfale. Sappiamo dal processo Cucchi bis, quello sull’omicidio, che Stefano era incappato in una campagna di arresti a tappeto promossa da un maresciallo che voleva farsi notare. L’operazione fu violentissima e maldestra mentre il depistaggio più raffinato. Ha spiegato Anselmo che l’elemento chiave del depistaggio è stata la criminalizzazione secondaria, un tema ricorrente nei processi di malapolizia: la denigrazione della famiglia Cucchi, accusata di aver abbandonato il figlio a sé stesso, e contro la vittima, un drogato-sieropositivo-anoressico. Vennero fatti sparire dai verbali i nomi degli autori del pestaggio che si rivelerà fatale. Per anni non avremmo saputo nulla di quel transito di Cucchi, la notte dell’arresto nella caserma Casilina per un fotosegnalamento obbligatorio dal 2006 ma che “stranamente” non venne effettuato. Poi vennero manomessi i verbali dei due piantoni della caserma Tor Sapienza, quella in cui passò la notte prima della convalida dell’arresto. Infine vennero suggerite alla stampa parole inverosimili che avrebbe detto Rita Calore, la mamma di Stefano, al suo figlio durante la persecuzione e il ritornello dei “carabinieri che non c’entrano niente” ripetuto a reti unificate da ministri come La Russa, sottosegretari alla presidenza del consiglio come Giovanardi. Fandonie che negli anni sarebbero state date in pasto agli haters e alla Bestia salviniana per continuare il linciaggio morale di una famiglia che si batteva per verità e giustizia.
Se il frontman dell’operazione fu l’allora comandante provinciale colonnello Vittorio Tomasone – «lui materializza l’umiliazione sistematica, schifosa, del dolore della famiglia Cucchi, una ferita che non si richiuderà mai», dice l’avvocato, dietro le quinte il regista sarebbe stato Casarsa, oggi generale e all’epoca comandante del Gruppo Roma. Anselmo e i suoi colleghi delle parti civili non hanno aggiunto molto all’ampia requisitoria di Giovanni Musarò, il pm a cui si deve la riapertura del caso. Ma l’arringa di Anselmo ha restituito enfasi ad alcuni aspetti rimasti tra le righe. Come la questione dell’avvocato di fiducia, nominato da Stefano Cucchi, ma mai avvisato dai militari. Il nome del legale compare sul verbale di consegna del detenuto alla polizia penitenziaria dopo la convalida dell’arresto. A Stefano gli prese un colpo quando non lo trovò in aula, per questo si arrabbiò parecchio. «Chi lo ha pestato non si poteva permettere che un legale di fiducia lo trovasse in quelle condizioni». Un’operazione «costruita a tavolino» che Anselmo non esita a definire «spietata», «disumana», di «bassa macelleria messicana».
Dopo il balletto delle relazioni ritoccate, edulcorate, ci sarà la parte medico legale del depistaggio. «Casarsa detta la linea», dice ancora Anselmo citando un appunto del comandante del gruppo Roma. L’autopsia deve ipotizzare che le fratture sul corpo di Stefano fossero antiche, antecedenti all’arresto, e dirottare il processo sulle responsabilità dei medici del repartino del Pertini piuttosto che sulla violenza dei due carabinieri. Ma la retrodatazione era impossibile e ciò che restava di Stefano raccontava un’altra storia. C’era sangue ovunque nei suoi organi, nel midollo, nel gluteo, uno dei polmoni pesava il doppio dell’altro tanto era gonfio e la sua vescica, di cui il perito della procura quasi non si accorse (sosterrà poi che non ci sarebbe legame tra le fratture e quel globo vescicale), in realtà era un «globo gravidico» da 1440 cc di urina (ne bastano 200 per sentire fastidi). Il perito sembra accettare la pista fornita da Casarsa di seguire i medici e lo annuncia «con una chiarezza imbarazzante» senza nemmeno attendere le perizie di un collegio di specialisti. Ma perfino la relazione medica preliminare non può fare a meno di ipotizzare che «quel mappamondo di lesioni» sia il risultato di «un unico evento traumatico etero-provocato». Al contrario, Casarsa avrebbe tentato di sostenere che non c’erano rilevazioni di percosse.
Anselmo ricostruisce quei giorni, sullo schermo i documenti, le relazioni, i ritagli di giornale con le annotazioni indignate, a penna, di Giovanni Cucchi, il padre di Stefano e Ilaria che, da allora, s’è dovuta trasformare in icona dei diritti civili a tempo pieno. Un Tg5 del 9 novembre di quell’anno ha parecchio impressionato l’avvocato dei Cucchi (e anche degli Aldrovandi, Magherini, Budroni, Uva, Bianzino) perché sposa senza una grinza la tesi della criminalizzazione secondaria della famiglia e della vittima e della pista della malasanità inanellando una perla di Giovanardi – secondo cui Cucchi era un morto che camminava – e le dichiarazioni del perito del pm del processo kafkiano: «Sono portato a ritenere che la responsabilità sia dei medici».
Anche Stefano Maccioni, legale di parte civile per conto della mamma di Cucchi e di Cittadinanzattiva, ha sottolineato che il «cuore della macchinazione» sia da cercare nell’ordine di Casarsa ai cc Culicchio e Di Sano di manomettere le annotazioni «troppo particolareggiate» di fine turno. «La palla di neve che ha dato inizio alla valanga».
«Il miglior depistaggio è quello in cui viene fornita sia la verità che la bugia, a questo servivano le due relazioni». Ed è quello che è capitato in questi dodici anni con la macchina del depistaggio che ha operato anche nel 2015 e nel 2018 ossia negli snodi cruciali della vicenda.
«Il tempo in questo caso va contro gli imputati – ha ricordato Maccioni – perché questo processo passerà alla storia. Una valanga che travolge chi l’ha iniziata».
I legali dei familiari hanno chiesto un risarcimento di oltre due milioni di euro e una provvisionale di 750 mila euro. Per Casarsa, all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, il pm Giovanni Musarò ha sollecitato una condanna a 7 anni di carcere. Nei confronti degli imputati i reati contestati, a seconda delle posizioni, sono di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia.
Concludendo il suo intervento Anselmo ha detto: «siamo stati carne da macello per queste persone, ma noi siamo essere umani: è stato fatto di tutto per nascondere responsabilità gravi. Questa è stata una vicenda tremenda per la famiglia, per gli agenti della Penitenziaria, per lo Stato, e anche per l’Arma che è parte civile. Da questo processo è emerso che esistono tanti parti sane nell’Arma». Il processo proseguirà fino alla fine di febbraio. Pochi giorni dopo, forse il 3 marzo, la sentenza.