Alain Krivine, l’ultima figura militante del maggio francese. Sempre contro ambizioni di potere e settarismi di partito [Edwy Plenel]
“Passerà con l’età”. Quando, nel 2006, Alain Krivine ha accettato di raccontare non la sua vita ma una “avventura collettiva” all’emblema della “possibilità di una rivoluzione democratica”, ha scelto questa frase come titolo del suo racconto.
Dal suo impegno comunista come giovane studente parigino negli anni ’50 al passaggio del testimone, mezzo secolo dopo, alla nuova generazione del Nuovo Partito Anticapitalista (NPA), passando per il suo ruolo costante di portavoce della Gioventù Comunista Rivoluzionaria (JCR) nel 1968, poi della Lega Comunista (1969-1973) e, infine, della Lega Comunista Rivoluzionaria (1974-2009), “non gli è mai passata”, anzi.
Cosa? Questa semplice idea che l’emancipazione, la ricerca della libertà, la speranza di uguaglianza, la richiesta di giustizia, sono prima di tutto un rifiuto, una negazione dell’ordine esistente, uno sfogo contro le sue miserie, le sue menzogne, le sue dominazioni. Ciò che di solito chiamiamo sinistra nasce da questo movimento infinito, sempre rinnovato e incompiuto, di fronte al conservatorismo di ogni tipo, costantemente rigenerato.
Ma a volte le sinistre del potere, della ragione di partito o di stato, gli voltano le spalle, incarnando a loro volta l’ingiustizia fino a distruggere la loro promessa. Se Alain Krivine si distingue nel mondo politico, è perché la sua incrollabile fedeltà alla sua rivolta iniziale è stata accompagnata da un rifiuto delle ambizioni e dei compromessi, delle carriere e delle posizioni, dove l’ideale si smarrisce e si corrompe.
Il momento della sua morte ci ricorda quanto queste rigidità, nel suo caso prive di settarismo, possano salvare la lucidità. La vita impegnata di Alain Krivine è iniziata con la sfida all’impostura il cui disastro e lo sfacelo hanno oggi dato vita al nuovo imperialismo russo guidato da Vladimir Putin, un mostruoso avatar dello stalinismo sovietico, del grande zarismo russo e del capitalismo selvaggio.
È l’opposizione della sinistra al socialismo reale come l’URSS e i suoi satelliti l’hanno instaurato nel XX secolo dal 1917 in poi, sulla scia di una “rivoluzione tradita”, secondo la formula di Leon Trotsky. Lungi dall’essere un passato remoto, inghiottito con la fine dell’Unione Sovietica nel 1991, la guerra di invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito di un dittatore educato dal KGB ci mostra la sua persistente attualità. Come in risonanza con questo presente passato, si dà il caso che la famiglia paterna di Alain Krivine provenga dall’Ucraina, suo nonno Albert Meyer Krivine (1869-1946), ebreo ateo e anarchico, essendo fuggito dai pogrom antisemiti dell’impero russo in Francia all’inizio del XX secolo.
Quali che siano le sue varianti settarie, nate da situazioni minoritarie o addirittura da situazioni di gruppuscolo, il trotskismo, di cui Alain Krivine è indissociabile, fu un’insurrezione etica che obbligò a confrontarsi con la verità di un sistema totalitario invece di cedere all’allineamento, a costo di cecità e menzogne. Nella sua versione più libertaria, vicina soprattutto al surrealismo, era il rifiuto di mezzi inconfessabili che contraddicevano i fini proclamati, così come di un ripiegamento nazionalista o imperialista che voltava le spalle all’internazionalismo, così come era il rifiuto delle logiche degli apparati che producevano burocrazie di politici professionisti.
In questo senso, la vita militante di Alain Krivine lascia in eredità la promessa di una sinistra onesta quando, troppo spesso, il carrierismo elettorale e il cinismo di parte hanno ferito i suoi principi e distrutto le sue speranze. Iniziò a metà degli anni ’50 quando, come giovane militante del Partito Comunista Francese (PCF), divenne rapidamente responsabile di tutti i licei comunisti parigini.
Da allora, fu destinato a una rapida ascesa nell’apparato del PCF, e nel 1957, l’anno in cui compì 16 anni, partecipò al “Festival Mondiale della Gioventù Democratica” a Mosca, dopo aver ottenuto il record di vendite de L’Avant-Garde, il giornale della Gioventù Comunista. Ma tornò turbato, soprattutto dopo aver incontrato i militanti algerini dell’FLN, sorpresi dall’atteggiamento attendista del PCF, che si basava sullo slogan “Pace in Algeria” e rifiutava di sostenere risolutamente la lotta per l’indipendenza.
A partire da questa consapevolezza, nata dalla questione coloniale, del bisogno di solidarietà con i popoli che lottano per essere padroni del proprio destino, Alain Krivine si distacca progressivamente dallo stalinismo che, governando il PCF all’epoca, pesava sulla sinistra francese. Questa evoluzione fu anche un affare di famiglia, poiché trovò suo fratello maggiore Jean-Michel e suo fratello gemello Hubert, già membri del Partito Comunista Internazionalista (PCI), una delle organizzazioni trotskiste e la sezione francese della Quarta Internazionale.
Impegnato nel sostegno clandestino all’FLN algerino con la rete della Jeune Résistance, pur rimanendo comunista, Alain Krivine, diventato studente di storia, fu attivo sia nell’Union des étudiants communistes (UEC) che nell’Union des étudiants de France (Unef). L’anticolonialismo e l’antifascismo furono i due marcatori decisivi del suo impegno di allora, che portarono alla creazione, alla Sorbona, del Front universitaire antifasciste, di cui fu uno dei leader con Henri Weber, morto nel 2020.
La rottura definitiva con il PCF avvenne nel 1965, quando il settore Sorbonne-Lettres dell’UEC, nel quale federò una frazione trotzkista “entrista”, si rifiutò di sostenere la candidatura di François Mitterrand alle elezioni presidenziali, che il PCF aveva sostenuto. Ancora da ricordare, l’impegno del futuro presidente eletto nel 1981 contro l’indipendenza algerina e per la guerra contro il “separatismo” era imperdonabile agli occhi di questa giovane generazione, politicizzata e radicalizzata dalle lotte anticoloniali.
Ormai escluso dal partito comunista e preparandosi a diventare insegnante di storia, Alain Krivine diventa a poco a poco la polena di un’avventura collettiva di cui non ha mai voluto essere il leader ma piuttosto uno dei portavoce. Affermando di essere un organizzatore migliore di un teorico, in ogni caso un eccellente oratore, un agile dissertatore e un notevole pedagogo, si è sempre affermato come un attivista tra gli altri, senza gerarchie o privilegi.
L’emblematico trio che originariamente formava con Daniel Bensaïd (1946-2010) e Henri Weber (1944-2020), divenuto un duo negli anni ’80 quando quest’ultimo entrò nelle file socialiste, ricorda la giovinezza che fu il motore di questo impegno per tutta la vita. Quando, nel 1969, sulla scia del maggio 1968, si candidò alle elezioni presidenziali mentre faceva il servizio militare, aveva solo 27 anni. Fu allora un’intera generazione che scosse e superò i suoi anziani, inventò e innovò, sfidando l’ordine stabilito con audacia e coraggio.
Tuttavia, questa apparente rottura generazionale nascondeva una continuità essenziale: una storia ebraica, come sottolinea la sua nota biografica nel Maitron. Il nucleo dirigente della Lega Comunista, fondata nel 1969 dopo lo scioglimento del JCR nel 1968, era in gran parte l’erede della “Yiddishland rivoluzionaria”, radicata nella cultura politica di un movimento operaio ebraico diasporico che rifiutava di dissolversi nel nazionalismo del movimento sionista.
“Nous vengerons nos pères (Vendicheremo i nostri padri)”, un documentario del 2017 della generazione successiva (Florence Johsua e Bertrand Boespflug), mostra il peso della memoria del genocidio e il ruolo primario dell’antifascismo nell’impegno della Ligue negli anni ’70. La sua logica conseguenza fu una feroce resistenza alla rinascita delle ideologie assassine del fascismo e del nazismo.
Il secondo soggiorno di Alain Krivine in prigione, per qualche settimana, dopo il primo che seguì lo scioglimento della JCR nell’estate del 1968, fu provocato da un secondo scioglimento: quello della Ligue per aver organizzato una manifestazione violenta contro lo svolgimento di una riunione di estrema destra a Parigi il cui tema era “Fermare l’immigrazione selvaggia”. In un momento in cui il clima ideologico dell’attuale campagna presidenziale è pieno di ossessioni xenofobe e razziste, la sua scomparsa sottolinea, se fosse necessario, l’attualità di una lotta che non ha mai smesso di essere presente.
Nel radicalismo indissolubilmente democratico, sociale e internazionalista che lo animava, Alain Krivine era decisamente dalla parte del movimento della società piuttosto che della politica istituzionale. I sostenitori di quest’ultimo gli opporranno la necessaria assunzione di responsabilità di fronte all’impotenza del suo attivismo. Visto lo stato della sinistra oggi, le sue debolezze, le sue divisioni e le sue lacerazioni, sarebbe bene opporsi ad esse nella misura in cui le lotte concrete sono il terreno di coltura della rinascita, il più vicino possibile ai primi interessati.
Sotto l’egida di questa “rivoluzione permanente” teorizzata da Trotsky, il movimento della corrente politica di cui Alain Krivine è stato a lungo la voce e il volto ha sempre voluto essere alla ricerca dell’evento fondatore, dell’improbabile e dell’imprevisto, di quella breccia nella fatalità del presente attraverso la quale poteva scivolare la promessa del futuro. Accompagnandolo, faceva così parte di tutte le mobilitazioni, dagli operai della Lip ai contadini del Larzac, dal movimento delle donne alle lotte degli immigrati, dalla solidarietà internazionalista ai raduni alterglobalisti, senza tregua.
Divenne un politico a tempo indeterminato, poi un giornalista per Rouge, un giornale che fu quotidiano dal 1976 al 1979, e fu anche, per un mandato (1999-2004), un deputato europeo. È un eufemismo dire che non gli è piaciuto molto, sentendosi molto più impotente in questa assemblea parlamentare che nell’attivismo militante. Era decisamente un outsider, che metteva a distanza tutto ciò che poteva erodere, compromettere o minare l’ideale.
Ma aveva un’intransigenza da gentiluomo, che spiega la sua popolarità, di cui testimoniano molti omaggi dei suoi rivali politici. Mostrando una modestia scherzosa, amando le confraternite ridenti, praticando volentieri l’autoironia, professava un ascetismo da bon vivant che aveva disertato ogni desiderio di successo e ogni desiderio di fortuna.
Senza dubbio è stato questo ostinato rifiuto di dominare e possedere che ha permesso la rara sfida rappresentata dalla fondazione dell’NPA nel 2009, il passaggio del testimone a una nuova generazione, di cui Olivier Besancenot è stato il primo portavoce, mentre la storia a cui è associato il nome di Alain Krivine, quella della Ligue, si è conclusa.
Tra altri dieci, ha rilasciato la sua ultima lunga intervista a Mediapart nel 2018, per una serie di documentari in occasione del cinquantesimo anniversario del maggio 68. Trent’anni prima, per il ventesimo, lui e Daniel Bensaïd avevano pubblicato Mai si! in cui si ponevano come “ribelli” intransigenti contro i “pentiti” della loro generazione.
“Come possono arrendersi così in fretta, si sono chiesti. Perché questi eretici si sono convertiti così facilmente? Sembra che la loro eresia non sia mai stata più di uno snobismo. […] Un’altra volta, un altro tessuto. Gli antichi erano impregnati dalla prova della sfortuna. I moderni non hanno spesso resistito alla dolce seduzione della notorietà. Nessuno sceglie la propria epoca. Ci si può solo rattristare del fatto che coloro che chiedevano a gran voce il diritto di parola si accontentassero così facilmente del diritto al pettegolezzo; e che non riuscissero a sopportare il primo rovesciamento di opinione.Così tanto per il vento dei tempi.
Da un vento favorevole a uno contrario, Alain Krivine ha scelto di rimanere sulla stessa rotta. Concludendo C’était la Ligue, il loro libro di riferimento sulla storia di cui era l’araldo, Hélène Adam e François Coustal mettono in calce un estratto di Sans la nommer, una canzone di Georges Moustaki, scritta e composta nel 1969. È un titolo appropriato per accompagnare l’ultimo addio a quest’uomo la cui fedeltà, umiltà e integrità comandano la stima di tutti, compresi quelli che non hanno seguito la stessa strada:
“È quella che viene presa a randellate,
È quella che viene inseguita e braccata.
È proprio lei che si alza,
Che soffre e sciopera.
È proprio lei ad essere imprigionata,
Che viene tradita e abbandonata,
Che ci fa venire voglia di vivere,
Che ci fa venire voglia di seguirla
Fino alla fine, fino alla fine.
“Vorrei, senza nominarla,
Per parlarvi di lei.
Amato o non amato,
Lei è fedele,
E se vuoi
Lasciate che ve la presenti,
La chiamiamo
Rivoluzione permanente”.