A tre giorni dalla Cassazione un’altra importante sentenza sul caso dell’omicidio di Stefano Cucchi
Condannati. Tutti. Otto carabinieri. Tra loro anche un generale. Depistarono le indagini dopo il pestaggio che uccise Stefano Cucchi. Il giudice monocratico Roberto Nespeca ha pronunciato la sentenza nell’aula bunker di Rebibbia, dopo otto ore di camera di consiglio seguita alla quarantunesima udienza di un processo molto difficile per via della secolare soggezione del senso comune e della politica nei confronti di Viale Romania. Una forza che è riuscita a stendere un cono d’ombra per anni attorno alle responsabilità di un pezzo dell’Arma romana sulla vicenda di Stefano Cucchi. Fino alla breccia che ha incrinato il muro di gomma. Il processo ha scandagliato anche il contesto in cui maturarono sia l’arresto che i depistaggi fiancheggiati da una macchina del fango rodata. Prima di elencare le pene, vale la pena rammentare il contegno di alcuni politici in questa lurida storia. Dall’allora ministro La Russa che disse «la cosa di cui sono certo è il comportamento corretto dei carabinieri» prima ancora che scattassero le indagini fino a Salvini («Difficile pensare che sia stato pestato»), o Tonelli che da capo di un sindacato, il Sap, fece tributare alcuni minuti di standing ovation agli assassini di Federico Aldrovandi. Lui, ora in politica col “capitano”, di Cucchi ebbe a dire: «Se uno conduce una vita dissoluta ne paga le conseguenze». Tra le tante che ne ha dette Giovanardi, il padre del proibizionismo, ricordiamo: «Le lesioni? La causa è la malnutrizione. Ha avuto una vita sfortunata». E non è neanche la peggiore.
Il giudice del tribunale monocratico ha inflitto, tra gli altri, 5 anni al generale Alessandro Casarsa e 1 anno e 3 mesi al colonnello Lorenzo Sabatino. Agli imputati, a seconda delle posizioni, si contestano i reati di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. In particolare il giudice ha condannato a 4 anni Francesco Cavallo e Luciano Soligo, a un anno e 9 mesi, Tiziano Testarmata condanna ad 1 anno e 9 mesi, a 2 anni e 6 mesi Luca De Cianni. Infine a Francesco Di Sano sono stati inflitti 1 anno e 3 mesi e a Massimiliano Colombo Labriola 1 anno e 9 mesi.
«È stato confermato che l’anima nera del caso Cucchi è il generale Casarsa», commenta a caldo l’avvocato Fabio Anselmo, legale di Ilaria Cucchi. «Il dato di verità è che tutto quello che hanno scritto su Stefano Cucchi “tossicodipendente, anoressico, sieropositivo” e tutto quello che hanno scritto sulla famiglia è falso. È il momento che si prenda le proprie responsabilità chiunque vada contro questa sentenza e quella pronunciata dalla Cassazione lunedì. Perché chiunque avrà il coraggio di affermare che Stefano Cucchi aveva qualsiasi patologia, che era un tossicodipendente, che era anoressico o sieropositivo, commette un reato di diffamazione perché quelle relazioni di servizio, che hanno gettato tanto fango sulla famiglia Cucchi, per 12 anni, e che hanno ucciso lentamente Rita Calore e Giovanni Cucchi, sentendosele ripetere sui giornali, ogni giorno, e hanno logorato la vita di Ilaria, sono false, studiate a tavolino». E Ilaria: «Sono sotto shock. Non credevo sarebbe mai arrivato questo giorno. Anni e anni della nostra vita sono stati distrutti, ma oggi ci siamo. E le persone che ne sono stati la causa, i responsabili, sono stati sono stati condannati».
Per la cronaca, Viale Romania, il comando generale dell’Arma, ha emesso un comunicato immediatamente dopo la notizia delle condanne: «La sentenza odierna del processo che ha visto imputati otto militari per vicende connesse con la gestione di accertamenti nell’ambito del procedimento ‘Cucchi-ter’, riacuisce il profondo dolore dell’Arma per la perdita di una giovane vita. Ai familiari rinnoviamo – ancora una volta – tutta la nostra vicinanza. La sentenza, seppur di primo grado, accerta condotte lontane dai Valori e dai principi dell’Arma». Il comando ribadisce il «fermo e assoluto impegno» ad agire sempre «con rigore e trasparenza» specie nei confronti dei propri appartenenti. «L’amarezza – prosegue – è amplificata anche dal vissuto professionale e personale dei militari condannati. Nei loro confronti sono stati, da tempo, adottati trasferimenti da posizioni di Comando a incarichi burocratici e non appena la sentenza sarà irrevocabile, verranno sollecitamente definiti i procedimenti amministrativi e disciplinari conseguenti».
«Questa di oggi è una tappa molto importante anche se è fondamentale che si sia riconosciuto l’omicidio» lunedì nella sentenza della Cassazione. In attesa della sentenza, Fabio Anselmo aveva sintetizzato le aspettative, parlando con i cronisti fuori dall’aula bunker di Rebibbia. «Abbiamo vissuto le telefonate del generale Tomasone di solidarietà fasulla, le dichiarazioni infamanti, le scuse ipocrite sul fatto che Stefano sia stato definito negli atti come tossicodipendente quando invece negli atti mancava qualsiasi riferimento a uno stato di salute pregiudicato dalla tossicodipendenza, e anche anoressico e addirittura sieropositivo. Ha chiesto scusa qui in udienza ma quelle scuse le abbiamo respinte»,ha detto ancora il legale di questo e diversi altri casi di malapolizia, dal caso Aldrovandi a quelli di Rasman, Uva, Budroni, Ferrulli e Magherini. Riferendosi alla sentenza di lunedì scorso in Cassazione, Anselmo ha detto: «Il nostro pensiero va al maresciallo Mandolini, pensa di essersela cavata per un vizio motivazionale della sentenza di secondo grado e conta di godere della prescrizione. La sua esultanza dopo un annullamento con rinvio, facendolo passare per un’assoluzione credo meriti adeguata stigmatizzazione e forse anche un po’ di compassione».
Anche per Ilaria, «oggi è un giorno importante, ancora più importante di lunedì perché un istante dopo la morte di mio fratello si metteva in piedi la macchina dei depistaggi che è costata alla nostra vita anni e anni di processi a vuoto facendo in modo che entrambi i miei genitori si ammalassero gravemente per tutta quella sofferenza inflitta in maniera brutale».
«Ogni volta che entravo in questa aula – ha aggiunto – mi trovavo davanti agli imputati con la loro aria di superiorità, con quel senso di impunità che mi faceva capire che mio fratello non contava niente e tanto meno la sua famiglia contava niente. Ho fiducia e spero che oggi venga messo un altro punto su tutta questa tristissima vicenda dalla quale usciamo tutti sconfitti. Mi aspetto che gli imputati vengano condannati e che gli venga impedito di fare il proprio lavoro: non hanno mai chiesto scusa, ci guardavano dall’alto al basso come a dire che non contavamo niente». In mattinata, nel corso di una dichiarazione spontanea, uno degli imputati ha detto: «Ho agito sempre nel rispetto della legalità. Sempre ho dato la stessa versione rispetto a quanto accaduto e ho fatto tutto per consegnare alla giustizia la verità su Cucchi, che per me è stato, come sono tutti i detenuti, una persona indifesa affidatami in funzione dell’incarico ricoperto nell’amministrazione». Si tratta di Massimiliano Colombo Labriola, all’epoca dei fatti era comandante della stazione di Tor Sapienza.
A dicembre il pm ha chiesto la condanna per gli 8 cc imputati, per l’accusa ci fu «un’attività di depistaggio ostinata e ossessiva, andata avanti fino al 2021» scattata immediatamente dopo il pestaggio e la morte di Stefano Cucchi, il 31enne romano, arrestato il 15 ottobre del 2009 e deceduto sette giorni dopo all’ospedale Sandro Pertini. Per quel pestaggio lunedì scorso la Cassazione ha condannato in via definitiva a 12 anni per omicidio preterintenzionale i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, che si trovano ora entrambi nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Al processo sui depistaggi invece sul banco degli imputati ci sono 8 carabinieri tra cui il generale Alessandro Casarsa all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma. Gli otto militari dell’Arma sono accusati a vario titolo e a seconda delle posizioni di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Oltre a Casarsa e Sabatino, sono a processo Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti tenente colonnello e ufficiale addetto al comando del Gruppo Roma; Luciano Soligo, all’epoca dei fatti maggiore dell’Arma e comandante della compagnia Roma Montesacro; Massimiliano Colombo Labriola, all’epoca dei fatti comandante della stazione di Tor Sapienza; Francesco Di Sano, all’epoca in servizio alla stazione di Tor Sapienza; Tiziano Testarmata, comandante della quarta sezione del nucleo investigativo dei Carabinieri e il carabiniere Luca De Cianni.
L’accusa di falso è contestata a Casarsa insieme a Cavallo, Colombo Labriola, Di Sano e Soligo mentre quelle di omessa denuncia e favoreggiamento a Sabatino e Testarmata. Per De Cianni le contestazioni sono quelle di falso e calunnia. La richiesta di pena più alta è per il generale Alessandro Casarsa: per lui il pm Giovanni Musarò lo scorso 23 dicembre ha chiesto 7 anni. Cinque anni e mezzo sono stati sollecitati invece per Francesco Cavallo, cinque anni per Luciano Soligo e per Luca De Cianni, quattro anni per Tiziano Testarmata, invece, per Francesco Di Sano tre anni e tre mesi, tre anni per Lorenzo Sabatino e un anno e un mese per Massimiliano Colombo Labriola per il quale il pm ha chiesto le attenuanti generiche. L’accusa ha chiesto inoltre l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per Casarsa, Cavallo, De Cianni e Soligo mentre per Di Sano, Sabatino e Testarmata l’interdizione per cinque anni. «C’è stata un’attività di depistaggio ostinata, che a tratti definirei ossessiva. I fatti che oggi siamo chiamati a valutare non sono singole condotte isolate ma un’opera complessa di depistaggi durati anni» aveva detto Musarò nella sua requisitoria lo scorso dicembre alla presenza in aula del procuratore aggiunto Michele Prestipino, seduto accanto al pm.
«Fatti caratterizzati dalla volontà di ostacolare l’individuazione dei fatti – aveva sottolineato la pubblica accusa – quello che è emerso con evidenza dalla fase dibattimentale è che i depistaggi non si sono fermati al 2018 ma sono andati avanti fino al febbraio 2021. Sono state alzate tante cortine fumogene che cercheremo di diradare. Il depistaggio del 2009 è particolare, viene organizzata un’attività di depistaggio che viene portata avanti scientificamente con tre agenti della polizia penitenziaria che si ritrovano da innocenti sul banco degli imputati. La vera finalità di questo depistaggio sconcertante non era solo depistare l’autorità giudiziaria, ma farlo anche da un punto di vista mediatico e politico. Fattori che hanno un rilievo enorme» aveva aggiunto Musarò nella requisitoria. Il pm aveva sottolineato anche che «questo non è un processo all’Arma dei carabinieri e vogliamo evitare qualsiasi strumentalizzazione. Il procedimento riguarda 8 persone appartenenti all’Arma ma non è un processo all’Arma – aveva spiegato Musarò in aula – per ragioni formali e sostanziali: il ministero della Difesa si è costituto parte civile, gli atti più importanti ci sono stati forniti dal reparto operativo e nucleo investigativo del comando provinciale dei carabinieri di Roma e anche il comando generale ‘all’ultima curvà ci ha fornito una tessera mancante. L’Arma è un corpo con 200 anni di storia, con persone che lavorano nelle strade e negli uffici e anche per loro non deve essere un processo all’Arma».
A dicembre il pm ha chiesto la condanna per gli 8 cc imputati, per l’accusa ci fu «un’attività di depistaggio ostinata e ossessiva, andata avanti fino al 2021» scattata immediatamente dopo il pestaggio e la morte di Stefano Cucchi, il 31enne romano, arrestato il 15 ottobre del 2009 e deceduto sette giorni dopo all’ospedale Sandro Pertini. Per quel pestaggio lunedì scorso la Cassazione ha condannato in via definitiva a 12 anni per omicidio preterintenzionale i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, che si trovano ora entrambi nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Al processo sui depistaggi invece sul banco degli imputati ci sono 8 carabinieri tra cui il generale Alessandro Casarsa all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma. Gli otto militari dell’Arma sono accusati a vario titolo e a seconda delle posizioni di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Oltre a Casarsa e Sabatino, sono a processo Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti tenente colonnello e ufficiale addetto al comando del Gruppo Roma; Luciano Soligo, all’epoca dei fatti maggiore dell’Arma e comandante della compagnia Roma Montesacro; Massimiliano Colombo Labriola, all’epoca dei fatti comandante della stazione di Tor Sapienza; Francesco Di Sano, all’epoca in servizio alla stazione di Tor Sapienza; Tiziano Testarmata, comandante della quarta sezione del nucleo investigativo dei Carabinieri e il carabiniere Luca De Cianni.
L’accusa di falso è contestata a Casarsa insieme a Cavallo, Colombo Labriola, Di Sano e Soligo mentre quelle di omessa denuncia e favoreggiamento a Sabatino e Testarmata. Per De Cianni le contestazioni sono quelle di falso e calunnia. La richiesta di pena più alta è per il generale Alessandro Casarsa: per lui il pm Giovanni Musarò lo scorso 23 dicembre ha chiesto 7 anni. Cinque anni e mezzo sono stati sollecitati invece per Francesco Cavallo, cinque anni per Luciano Soligo e per Luca De Cianni, quattro anni per Tiziano Testarmata, invece, per Francesco Di Sano tre anni e tre mesi, tre anni per Lorenzo Sabatino e un anno e un mese per Massimiliano Colombo Labriola per il quale il pm ha chiesto le attenuanti generiche. L’accusa ha chiesto inoltre l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per Casarsa, Cavallo, De Cianni e Soligo mentre per Di Sano, Sabatino e Testarmata l’interdizione per cinque anni. «C’è stata un’attività di depistaggio ostinata, che a tratti definirei ossessiva. I fatti che oggi siamo chiamati a valutare non sono singole condotte isolate ma un’opera complessa di depistaggi durati anni» aveva detto Musarò nella sua requisitoria lo scorso dicembre alla presenza in aula del procuratore aggiunto Michele Prestipino, seduto accanto al pm.
«Fatti caratterizzati dalla volontà di ostacolare l’individuazione dei fatti – aveva sottolineato la pubblica accusa – quello che è emerso con evidenza dalla fase dibattimentale è che i depistaggi non si sono fermati al 2018 ma sono andati avanti fino al febbraio 2021. Sono state alzate tante cortine fumogene che cercheremo di diradare. Il depistaggio del 2009 è particolare, viene organizzata un’attività di depistaggio che viene portata avanti scientificamente con tre agenti della polizia penitenziaria che si ritrovano da innocenti sul banco degli imputati. La vera finalità di questo depistaggio sconcertante non era solo depistare l’autorità giudiziaria, ma farlo anche da un punto di vista mediatico e politico. Fattori che hanno un rilievo enorme» aveva aggiunto Musarò nella requisitoria. Il pm aveva sottolineato anche che «questo non è un processo all’Arma dei carabinieri e vogliamo evitare qualsiasi strumentalizzazione. Il procedimento riguarda 8 persone appartenenti all’Arma ma non è un processo all’Arma – aveva spiegato Musarò in aula – per ragioni formali e sostanziali: il ministero della Difesa si è costituto parte civile, gli atti più importanti ci sono stati forniti dal reparto operativo e nucleo investigativo del comando provinciale dei carabinieri di Roma e anche il comando generale ‘all’ultima curvà ci ha fornito una tessera mancante. L’Arma è un corpo con 200 anni di storia, con persone che lavorano nelle strade e negli uffici e anche per loro non deve essere un processo all’Arma».