In scena al Teatro Nazionale di Genova, Il mercato della carne di Bruno Fornasari
«Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni…»
Foss’anche il sogno, ormai proibito, di una vita decente: un lavoro normale, adeguato alla propria formazione, che dia da vivere in maniera dignitosa. Un po’, in fondo, come i propri genitori. Una specie di minimo sindacale, a ben vedere, di tutte le cose che si potrebbero sognare a vent’anni. Risuona più di una volta – fino a restituire una chiave di lettura a sorpresa nel finale – la citazione del Grande bardo sulle scene di Il mercato della carne.
Scritto da Bruno Fornasari del Teatro dei Filodrammatici di Milano e diretto da Simone Toni, la nuova produzione del Teatro Nazionale di Genova in scena alla Sala Mercato è una commedia grottesca e spietata, ambientata in un tempo distopico contrassegnato da un apparato simbolico pandemico che assomiglia tanto al nostro.
Un gruppo di giovani pronti a tutto, in perenne attesa di un lavoro che non arriverà mai, parcheggiati, un giorno dopo l’altro, in un ufficio di collocamento, pomposamente ribattezzato Città dei mestieri, gestito da un ambiguo sfruttatore che offre colloqui con misteriosi datori di lavoro cinesi in cambio di mazzette. Tenendo tuttavia per sé i colloqui migliori, gli unici che potrebbero portare davvero a qualcosa perché anche lui condivide, come le vittime di cui è carnefice, la speranza di scappare da quel piccolo claustrofobico universo concentrazionario di cui si è autonominato caporale.
Interpretato da un gruppo di attori tra i venti e i trent’anni, diplomati alla Scuola di Recitazione “Mariangela Melato” – Rita Castaldo, Vincenzo Castellone, Marion Costantin, Matteo Gatta, Sam Nazionale, Carolina Shadi Osloobi, Carolina Rapillo, Rebecca Redaelli, Marco Rivolta, Matteo Sintucci, Piergiorgio Tacchino – lo spettacolo è nato nella passata stagione durante il lockdown dei teatri. Presentato a porte chiuse a un ristretto numero di operatori, ha avuto ora la sua prima messa in scena nazionale davanti a un pubblico.
I giovani interpreti danno vita a una galleria di personaggi che rappresenta ogni tipo umano: c’è chi è estroso e dinamico, chi sta sempre incollato al cellulare, chi guarda vecchie conferenze sul clima, la ragazza che si è rifatta il seno per disperazione, l’attore che sogna di interpretare Cechov, il laureato ubriaco che discute di politiche economiche complesse. Ironici e feroci, ognuno con la propria strategia di sopravvivenza, tutti invariabilmente sovraqualificati rispetto ai lavorettidimmerda che potranno mai trovare. Tutti muniti di straordinari e inutili curricula con le loro lauree al Dams e dottorati in scienze poltiche con fantasiose tesi sull’approccio semiotico alla pornografia italiana degli anni Ottanta o a una prospettiva di genere nella risoluzione nonviolenta dei conflitti. Costretti a una competizione senza esclusione di colpi, mantengono tracce di ultima, sfinita, solidarietà. Sullo sfondo l’amicizia e l’amore, il sesso e le dipendenze da sostanze come “booster” indispensabile per tirare avanti un altro giorno di delusioni. E tutto il corredo di umane fragilità che si possono avere a vent’anni. E anche dopo.
La scrittura di Bruno Fornasari tratteggia un mondo grottesco ma vero, in cui i sogni naufragano in un clima di crisi permanente. Nulla cambia nel Paese in cui il cosiddetto “ascensore sociale” parte solo per il seminterrato: chi è ricco diventa sempre più ricco, chi è povero sempre più povero. «Quando il pubblico ride, si rilassa ed è più facile parlare di temi seri. Il pregio principale di questa commedia è affrontare con ironia la difficoltà di accedere a qualsiasi tipo di carriere lavorativa, una situazione con cui anche i nostri giovani attori sono costretti a confrontarsi personalmente» afferma il regista Simone Toni. «Perché devo studiare? Perché devo impegnarmi? Perché devo comportarmi bene? Se la società non riesce a dare risposte a queste domande, i giovani finiscono col cadere nel nichilismo, l’apatia e la violenza prendono il sopravvento su intraprendenza e coraggio. E questo è il sostrato filosofico su cui poggia l’intero spettacolo».
Nulla della retorica di quella straordinaria macchina di distruzione di futuro e di speranze, e inversamente di produzione di esclusione che risponde al nome di Mondo del lavoro viene risparmiato a questi ragazzi: dal mettersi sempre in gioco al licenziamento come occasione di reinventare sé stessi, alla competizione feroce come miglioramento continuo dei propri skill. Molte nefandezze si sono compiute nel nome del lavoro. La più atroce luccicava in cima a un cancello di ferro battuto e riassumeva in tre parole il senso ultimo della fortunata dizione di “risorse umane”. «Arbeit macht frei», recitava.