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Cucchi, condannato anche il maresciallo Mandolini

Condannato per falso, a sei ore dalla prescrizione, il maresciallo che comandava chi pestò Stefano Cucchi

«Condannato anche lui», si legge sui social di Ilaria Cucchi. A poco più di sei ore dalla prescrizione che avrebbe vanificato gli sforzi di chi, da tredici anni insegue verità e giustizia per Stefano Cucchi. Lui è il maresciallo Mandolini, il comandante dei tre carabinieri che arrestarono e pestarono Cucchi fino a provocarne la morte. Aveva strombazzato che avrebbe rinunciato alla prescrizione, non l’ha fatto.

Fu lui a recitare il primo atto del depistaggio: negando a Stefano l’avvocato di fiducia, nascondendo al mondo il luogo del fotosegnalamento (quello in cui avvenne il pestaggio) e omettendo la presenza dei due autori del pestaggio.

I difensori potrebbero, ora, ricorrere in Cassazione e se i giudici ammetteranno l’impugnazione scatterà la prescrizione ma in caso di mancata ammissione del ricorso gli effetti della prescrizione saranno nulli.

Chissà se ora ripeterebbe le certezze che infuse al cronista di un quotidiano di casa Berlusconi: «Siamo innocenti, siamo stati messi alla gogna senza alcun motivo. L’Arma è pulita e questa perizia lo dimostra». Era ottobre del 2016. E ovviamente quella perizia non scagionava affatto l’Arma. Ma in questo paese basta parlare col cronista giusto e un titolone a effetto si ottiene sempre.

Ora la corte di appello di Roma lo ha condannato a tre anni e sei mesi assieme al carabiniere Francesco Tedesco che prende 2 anni e 4 mesi nell’ambito del processo di appello bis sul pestaggio di Stefano Cucchi. I due sono accusati di falso.

«Considero Roberto Mandolini responsabile esattamente come gli autori dell’omicidio di Stefano perché se avesse fatto il suo dovere e non avesse fatto quei falsi probabilmente il caso Cucchi non sarebbe mai esistito», dice Fabio Anselmo, legale di Ilaria Cucchi, commentando la condanna. «Per me questo è un momento emozionante: voglio esprimere grande gratitudine al procuratore Generale Roberto Cavallone e ai magistrati Pignatone, Prestipino e Musarò che hanno avuto il coraggio di riprendere in mano le fila di una vicenda processuale che era del tutto sbagliata e hanno avuto l’onestà intellettuale e la competenza di portarla avanti, da soli non avremmo fatto nulla. In merito all’imminente prescrizione faccio il mio in bocca al lupo al ricorso che presenterà Mandolini e se questo verrà ritenuto ammissibile godrà della prescrizione. Quello che per noi è importante e che gli venga tolta la divisa, lui non dove portare quella divisa».

Per Mandolini il pg aveva chiesto, il 4 luglio scorso, di confermare la condanna di primo grado a tre anni e otto mesi. Per Tedesco, che con le sue dichiarazioni ha fatto riaprire le indagini sul caso, il pg aveva chiesto l’assoluzione. Era stata la Cassazione, lo scorso 4 aprile, a disporre un nuovo processo di secondo grado nell’ambito dell’udienza con la quale è stata resa definitiva la condanna a 12 anni di carcere per i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro accusati di omicidio preterintenzionale.

«Della morte di Stefano Cucchi sono stati dichiarati responsabili, con sentenza divenuta definitiva, due carabinieri della stazione Roma Appia come conseguenza delle lesioni praticate. Di queste lesioni non c’è traccia nel verbale di arresto. Proprio in virtù di questo silenzio – aveva sottolineato il procuratore generale Roberto Cavallone nel corso della requisitoria – gli agenti della polizia penitenziaria hanno subito un lungo e ingiusto processo. Il processo agli agenti della polizia penitenziaria e il processo agli Ufficiali dell’Arma si sono verificati in conseguenza alle omissioni del verbale di arresto. In quelle 42 righe del verbale di arresto si nasconde il male, la banalità del male».

«Se fosse stato accennato quanto avvenuto nella sala fotosegnalamento in quel verbale di arresto, Stefano Cucchi non sarebbe morto. La vita di tante altre persone, a partire dai suoi familiari, sarebbe stata diversa – ha detto il pg – Mandolini non poteva prevedere che Stefano Cucchi sarebbe morto ma che quello poteva essere un grande problema sì. E che fosse consapevole di quello che era successo lo ha detto Tedesco nella sua testimonianza. Mandolini era consapevole nell’immediatezza della gravità di quanto era successo». Al termine della requisitoria il procuratore generale ha chiesto la conferma della condanna di primo grado per Mandolini e l’assoluzione per Tedesco poichè «non c’è sussistenza del dolo».

Il 15 ottobre del 2009 nella caserma Casilina dove era stato portato dopo il fermo, Stefano Cucchi venne picchiato, preso a calci e pugni. Mandolini e Tedesco erano accusati di avere falsamente attestato, nel verbale di arresto di Cucchi, la rinuncia da parte del giovane romano alla nomina del difensore di fiducia. Nelle motivazioni con cui gli «ermellini» hanno disposto un nuovo processo di appello si afferma che gli imputati avevano «soprattutto omesso di menzionare quanto realmente accaduto durante il tentativo fallito di effettuare i rilievi fotosegnaletici» a Cucchi e in particolare avevano taciuto sulla «partecipazione del Di Bernardo e del D’Alessandro alle operazioni di arresto».

Secondo i giudici di merito, Mandolini – che era il superiore di Tedesco -, «è stato l’autore materiale della condotta, mentre Tedesco, nella consapevolezza del contenuto mendace del verbale, lo ha fatto proprio accettando di sottoscrivere l’atto come richiestogli da suo superiore». Per quanto riguarda il pestaggio la Suprema Corte afferma che si è trattato della «causa primigenia» di una serie di «fattori sopravvenutì», tra i quali le «negligenti omissioni dei sanitari», che ha causato la morte di Cucchi che morì dopo una settimana dall’arresto mentre era ricoverato all’ospedale ‘Pertini’.

Il profilo di Mandolini, vigorosamente sostenuto da statisti del calibro di Gianni Tonelli (un parlamentare salviniano che, quando era segretario del Sap fece tributare una standing ovation del congresso nazionale ai quattro agenti condannati in via definitiva per l’omicidio di Federico Aldrovandi) era emerso alla fine del 2016 quando «dirompenti elementi di novità» consentirono di arrivare finalmente a un processo vero. Questo che si è appena concluso.

Dal suo profilo fb continuava a dipingersi come un paladino delle persone per bene, nel processo è emerso che ci teneva soprattutto a mettersi in mostra per fare carriera.

Come moltissimi tutori dell’ordine anche il maresciallo sembra convinto di servire con onore uno stato, troppo permissivo, che non difende adeguatamente i propri servitori. Per esempio il post del 20 settembre 2014: “Le forze dell’ordine arrestano……e i giudici liberano…..!!!! È sempre stato così in Italia e sempre così sarà”.

Nel febbraio 2016, faceva sapere che: «Ad oggi ho ricevuto quasi 3000 messaggi in privato di padri e madri di famiglia, di cittadini onesti, di persone che non delinquono nella vita per vivere, genitori attenti all’educazione dei figli (il neretto è mio, ndr)… ».

Ecco cosa scriveva di Davide Bifolco: “Con tutto il rispetto per il dolore di una madre per la perdita del figlio…..ma io a 17 anni, alle 03:00 di notte, non andavo in giro per la città in tre su un motorino rubato, senza assicurazione, senza patentino e in compagnia di un latitante e un pregiudicato. Io stavo a casa a dormire…..!!!! Mia madre diceva: “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei…..”.

Così anche il primo ottobre del 2014, commentando l’assoluzione dei poliziotti che causarono la morte di Domenico Ferrulli: «Finalmente una Corte che smentisce l’operato di alcuni PM……. Chi è causa dei suoi mali…..pianga se stesso……!!! Alle 20:00 si cena a casa e in famiglia e non si sta a schiamazzare ubriachi sotto le case della gente……». Le vittime, insomma, se la sono cercata.

 

 

 

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