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25 aprile, la memoria è resistente. Buona liberazione

Il senso di un giorno come questo. Nostra intervista con Paolo Pezzino, storico e presidente dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri

Che cosa è il 25 aprile?

Innanzitutto è una festa nazionale. L’anniversario della Liberazione dal nazifascismo e di quella parola che ne ha sintetizzato il significato: “Resistenza”.

Vale ancora la pena ricordarlo?

In questa data noi ricordiamo la fine della guerra, la sconfitta dell’esercito tedesco ad opera degli alleati, celebriamo il sacrificio dei tanti, civili e combattenti, morti in quegli anni lottando contro il regime fascista, e l’inizio di una nuova fase nella storia del paese, che vide i suoi momenti fondanti nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946, che sanzionò il distacco degli Italiani dalla monarchia, complice dei crimini del fascismo, e nella Costituzione della Repubblica italiana del 27 dicembre 1947, che  garantisce tuttora libertà civili, diritti politici ed economici il progresso sociale.

Ma quella Costituzione è stata attuata?

Nonostante rappresenti ancora oggi un baluardo a difesa dei diritti fondamentali, purtroppo l’anelito alla giustizia sociale che essa esprimeva si è offuscato. I diritti del lavoro, le garanzie di una tutela sindacale hanno ceduto il posto a una precarietà neoliberista. L’uguaglianza di tutti i cittadini si scontra quotidianamente contro fenomeni di sfruttamento che in alcuni casi (lavoratori stranieri non regolarizzati) sfiorano addirittura la schiavitù. La deregulation (spero che Rampelli non mi multi!) che ha investito settori in grande espansione come la logistica e servizi connessi alla ristorazione fa sì che questi lavoratori siano sottoposti a ritmi di lavoro micidiali e vengano sottopagati.

Ma perché oggi la Resistenza appare così divisiva?

Dipende molto dal giudizio che si dà sul regime fascista. Se lo si definisce come un regime da operetta, ovviamente si sminuisce l’importanza della Resistenza.

In realtà il fascismo fu un regime totalitario e poliziesco che, con la promulgazione della legislazione razziale, inflisse alla civiltà l’offesa più grave che un regime politico possa arrecarle, e spinse infine il paese in un’avventura, quella della guerra, dalla quale gli Italiani, al pari dei cittadini di tutte le nazioni coinvolte nel conflitto, ricavarono lutti e distruzioni.

Quella guerra, scatenata dall’Italia fascista e dalla Germania nazista, era funzionale ad un progetto di nuovo ordine internazionale, lucidamente perseguito, basato sulla subordinazione delle nazioni agli interessi delle razze superiori, un progetto, di sovversione della civiltà europea, attorno al quale si sarebbero dilaniati i popoli del vecchio continente.

E come nasce la Resistenza?

Proprio la tragedia della guerra, le ripetute sconfitte, infine lo sfascio dell’8 settembre 1943, significarono per alcuni Italiani il punto di svolta, la spinta ad una consapevole scelta di campo antifascista, che rappresentò il primo segno di riscossa della coscienza democratica dopo venti anni di regime fascista: si trattò allora di scegliere, nei dilemmi indotti dai conflitti di appartenenza, fra la continuità statale rappresentata dalla monarchia, nonostante la sua passata compromissione col fascismo e la vergognosa fuga della famiglia reale, oppure le lusinghe di un malinteso onore di patria, che alcuni vedevano ancora rappresentato dal fascismo della Repubblica sociale; oppure ancora di impegnarsi in nome di un futuro diverso che non trovava, allora, alcun solido punto di ancoraggio istituzionale, ma che, anche attraverso il sacrificio personale, mirava alla nascita di un’Italia “nuova”.

Ma la Resistenza fu solo una guerra patriottica, di liberazione nazionale?

No, fu anche una guerra civile.

Fu comunque una scelta dolorosa e non facile, perché si trattava di combattere non solo contro gli ex alleati, divenuti forza d’occupazione, oppure contro i nuovi alleati, ritenuti dai fascisti repubblicani, nonostante l’armistizio, i nemici di sempre, ma anche contro altri Italiani, schierati a fianco dell’esercito straniero contro il quale si era deciso di combattere. In quei mesi, in Italia, gli Italiani combatterono contro gli Italiani, per la prima volta nella storia della nostra nazione: il che conferisce a quella guerra anche il carattere di una guerra civile che, va sottolineato, si inseriva in quella più vasta guerra civile europea, fra due progetti alternativi di ordine internazionale, nella quale si era trasformato ben presto il secondo conflitto mondiale nel vecchio continente.

Ma allora le parti in lotta sono sullo stesso piano? Vanno equiparate?

A tutti coloro che in quella guerra fratricida caddero vada il vostro rispetto, ma ciò non spinga a commettere l’errore di cancellare le differenze fra le due parti in lotta, annullando le loro identità opposte, se non altro per rispetto nei confronti di chi, proprio per affermare quelle identità, ha creduto di dover rischiare la vita. Se i morti sono tutti eguali, nel senso che a ciascuno di essi va tributata umana compassione, non equivalenti sono le cause per le quali essi hanno combattuto. Ed allora bisogna esercitare la nostra capacità di giudizio storico ed affermare che coloro che avevano scelto di seguire fino in fondo i sogni di grandezza nazionale ed imperiale della dittatura fascista, anche se erano (alcuni) sinceramente convinti di difendere l’onore della patria, si misero comunque al servizio dell’esercito tedesco in una guerra non solo totale, ma anche per la conquista di territori e per l’affermazione della supremazia razziale ariana. E che all’Italia e agli Italiani in quel progetto di nuovo ordine europeo venisse assegnato un posto tutto sommato subalterno niente toglie alla responsabilità di chi per quel progetto scelse comunque di combattere e schierarsi.

Ma la Resistenza fu una sola?

Le forme della Resistenza sono molteplici.

Tutti coloro che si opposero alla guerra, all’occupazione tedesca e ai fascisti repubblicani, con o anche senza le armi (i partigiani combattenti, i militari italiani internati in Germania che rifiutarono la libertà loro promessa se si fossero arruolati nell’esercito di Salò o in quello tedesco, i deportati per motivi politici, le donne che aiutarono i soldati sbandati a nascondersi e raggiungere le loro abitazioni, i contadini che nascosero prigionieri alleati fuggiti e nutrirono tante persone sfollate nelle campagne, i sacerdoti che rimasero a fianco dei propri fedeli, affrontando insieme spesso violenze e morte, sono tutti resistenti.

Ma allora il 25 aprile dovrebbe ricordare tutti coloro che sono morti nella guerra civile?

No, non per tutti i caduti di quegli anni celebriamo il 25 aprile: la pietas anche per gli sconfitti è doverosa, rappresenta il segno di un’autentica riconciliazione nazionale, manifesta l’attenuazione dei rancori e dei risentimenti, il riconoscimento delle tragedie umane anche nell’altra parte. Ma il 25 aprile si ricorda, e non può che essere così, la vittoriosa lotta antifascista dalla quale è nata la Repubblica e la nostra Costituzione.

C’è chi ha recentemente affermato che nella nostra Costituzione non è contenuta la parola antifascismo…

L’antifascismo è indubbiamente uno dei valori fondanti la nostra convivenza civile, perché i diritti di cittadinanza in questo paese storicamente sono stati l’esito di una lotta combattuta contro un regime totalitario, quello fascista. E la Costituzione è un felice compromesso fra tutte le forze politiche che parteciparono a quella lotta.

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