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Tabula Gaza

A due mesi dall’“Alluvione al Aqsa” ricostruiamo quanto sta portando alla soluzione finale palestinese, almeno a Gaza

È questione di giorni, in barba a ogni nuova tregua. La Striscia sarà spianata, e la questione dei territori occupati entrerà in una nuova fase, non certo definitiva. A due mesi dall’“Alluvione al Aqsa”, come i militanti di Hamas hanno battezzato l’offensiva su Israele, ricostruiamo quanto sta portando alla soluzione finale palestinese, almeno a Gaza, per dirla come Eichmann.

Una pioggia inattesa?

Nella notte di sabato sette ottobre, un diluvio di razzi si leva dalle posizioni di Hamas, nella Striscia di Gaza, per abbattersi sugli insediamenti israeliani limitrofi. In risposta i jet dell’aviazione con la Stella di Davide bombardano la Striscia a tappeto, un po’ mirando e un po’ a casaccio, da allora. A tutt’oggi si contano quasi un migliaio di vittime tra gli israeliani, dieci volte tanti tra i palestinesi, decine di migliaia di feriti e oltre duecento ostaggi, oggetto di trattative per traballanti tregue. Circa trecento i militari israeliani finora caduti, delle perdite di Hamas nessuna contezza ma stimabili nell’ordine delle migliaia. Un milione mezzo i profughi tra i palestinesi, ammassati nella decina di campi profughi della Striscia e altrove, mezzo milione tra gli israeliani.

Bestie umane da estirpare

Dopo il repulisti dei “terroristi” dalle cittadine in prossimità della Striscia, Tel Aviv ha avviato il 27 ottobre l’invasione via terra che deve fare “tabula Gaza” della città e del suo territorio, con la più alta densità abitativa al mondo, dopo averla messa sotto assedio. Niente luce, acqua, cibo, niente di niente. Nessuna pietà per gli “animali umani” che la abitano, fanno sapere i vertici dell’esercito: l’attacco a Israele è stato senza precedenti e lo sarà anche la risposta, dicono. Ogni giusto non può dubitarne: da una parte c’è la legittima difesa di uno stato occupante cui tutto è concesso, dall’altra bestie umane che uccidono senza pietà, e dietro a loro ci sono quegli altri integralisti brutti, sporchi e cattivi che ammazzano le ragazzine perché non portano il velo, sterminiamoli e non se ne parli più. Del resto, gli “accordi di Abramo” con cui l’amministrazione Biden voleva cementare Riyad e Tel Aviv contro Teheran, ora congelati, erano a un passo alla conclusione, e l’offensiva di Hamas casca a fagiolo.

Deus vulvuit

La mentalità è sempre quella del biblico assedio di Gerico: sette squilli di tromba e giù le mura, si scateni il massacro nel nome del popolo eletto, i gojim malvagi capiranno una volta per tutte chi comanda in Terrasanta. Del resto, Dio gliel’ha data e guai a chi li tocca. Il cancan mediatico fa, come sempre, da grancassa alla narrazione. Nessun dubbio o incertezza: si scateni l’apocalisse e la nuova crociata. Deus vulvuit. Dio lo vuole, oggi come millant’anni fa. Eppure, a ben guardare tra i fumi degli orrori e della battaglia, qualcosa su cui dubitare c’è. Qualche lucina trapela nel bujo.

L’exclave di uno stato fantoccio

Gaza è un’enclave, o meglio exclave, del fantasmatico stato palestinese con il resto dei territori occupati – Cisgiordania, Golan e Gerusalemme est – con la strabiliante vittoria dei Sei giorni nel conflitto del ’67, e mai restituiti in barba alle tante risoluzioni Onu. Una striscia di terra di trecentosessanta chilometri quadrati, lunga una quarantina di chilometri e larga una decina. In pratica un terzo del comune di Roma, con quasi lo stesso numero di abitanti: circa due milioni e 200mila persone (prima dell’offensiva), la più alta percentuale del pianeta o giù di lì. A percorrerla tutta ci vuole una mezz’ora, meno che a fare il giro del raccordo anulare, senza contare gli ingorghi. A Gaza non si entra e non si esce se don Mohamed, ossia il padrone israeliano, non voglia. Un muro alto parecchi metri, reticolati e torrette con armi automatiche, droni e quant’altro ne controllano il perimetro. Idem, e peggio, nel resto dei Territori. Lì i camion di aiuti umanitari passano col contagocce, nonostante le proteste di Amnesty. Se un peschereccio si azzarda a gettare le sue reti al largo viene mitragliato, se non salta su una mina. Qualcosa di più passa, sottobanco, dall’unico valico controllato dall’Egitto e, ovviamente, dai tunnel illegali che traforano la Striscia in lungo e in largo. Gli israeliani non fanno in tempo a farne saltare uno che quegli altri ne aprono un altro. Insomma, una barriera poderosa, eppure sormontabile, un groviera espugnabile.

Lo stato di un movimento fantoccio

Questo almeno hanno mostrato i raid dei militanti di Hamas. Barchini e deltaplani, ruspe e gipponi si sono fatti beffe d’ogni difesa. Il Mossad, lo Shinbet e Aman (il servizio dello Tshal), fino a ieri reputati il non plus ultra dell’Intelligence mondiale, si sono mostrati occhiuti come una talpa. Uno shock mondiale. Salvo poi riprendersi di colpo e spazzare via, uno a uno e a mucchi, i capi militari dei raid. Spianare la Striscia e tutto quel che si muove dentro, ospedali e scuole comprese, nell’assordante silenzio dei buonisti a singhiozzo, dei tribunali di guerra pronti a mettere le mani sui criminali di guerra, quando non sono al soldo dell’Occidente, altrimenti sordi ciechi e muti come le tre scimmiette. Intanto Israele, forte della grancassa mediatica, bombarda a raggiera dal Libano alla Siria, tanto per far capire che col popolo eletto non si scherza. Mentre scoppiano bombe e attentati un po’ a casaccio, da Bruxelles a vattelapesca, tanto per ricordare di che pasta sono le belve, dove sta di casa la ragione, ai salottieri d’Occidente. Che fanno a gara a chi le spara più grosse, a chi sta con chi, con la bilancia sempre truccata. Ma le belve sono ben pasciute e nutrite da mani nemiche.

Hamas e Netanyahu, fratelli coltelli

Quella in corso è l’ennesima guerra di Gaza. Dalla guerra civile che ha opposto Hamas all’Olp, nel 2007, con lo sradicamento dei “laici” eredi di Arafat dall’area, l’esercito israeliano è penetrato nella Striscia nel 2008 (operazione Inverno caldo) e 2009 (Piombo fuso), e ancora nel 2014 con l’operazione Margine di protezione per lo smantellamento dei famigerati tunnel, senza considerare la panoplia di omicidi e attacchi “mirati” ai dirigenti di Hamas. Ma la mano che toglie è la stessa che dà, secondo la vulgata biblica. Israele, e in primis Netanyahu, è il miglio garante dei cospicui fondi versati dal Qatar per pagare gli stipendi ai funzionari di Hamas. Si tratta di un miliardo di dollari l’anno, versati a un corpus di oltre 30mila militanti, mica spicci. La stessa nascita degli estremisti musulmani, come il loro predominio all’interno di Gaza, fa parte della strategia del Likud e del suo premier, Netanyahu, per dividere i palestinesi e meglio dominarli, secondo l’antico adagio. Come i talebani e Al Qaeda sono una creatura degli Usa, utili alla bisogna, Hamas lo è di Israele fin dalla sua fondazione. Quanto poi la creatura sfugga alla mano di chi la plasmata, come un moderno Golem ebraico, e la nutre, è evidente allo stesso apprendista stregone che continua a reggerne le fila. Ma l’11 settembre d’Israele era noto a chi l’ha permesso, come e più dell’altro che porta la stessa marca. La sua logica (o follia) è partorita dai medesimi cervelli di strateghi del fiasco. Né occorre essere fini machiavellici per capire il livello di infiltrazione all’interno di Hamas da parte dell’intelligence israeliana. Al confronto, le Br erano intonse verginelle, neppure sfiorate dalla mono dei “servizi deviati”.

Ora Netanyahu sembra voler mettere sotto al suo disegno il frego finale. Gaza dovrà essere rasa al suolo, con un genocidio che farà impallidire la nakba del 1948, lo sradicamento di massa dei palestinesi dalla loro terra dopo la nascita d’Israele. Il potenziale militare di Hamas dovrà essere annichilito, ma il movimento non dovrà essere azzerato. Ché certi arnesi tornano sempre buoni, utili alla bisogna. Quanto a chi dovrà regnare sopra un cumulo di macerie, non sarà certo quel che resterà d’Hamas e neppure l’Olp – persino l’ottuagenario Abu Mazen si rifiuta di tornare nella Striscia sospinto dai carrarmati israeliani – ma non è cosa che preoccupi le teste fini di Tel Aviv. Dopo che le “spade di ferro” – così si chiama l’ennesima operazione a Gaza ­– avranno fatto il loro dovere e benbene a fette la Striscia, sradicato i suoi abitanti sotto un diluvio di fuoco, quel che resta potrà essere riposto sotto tutela militare per un tempo a piacere, come il resto dei territori occupati, obtorto collo o col placet della comunità internazionale. La terza guerra di Gaza dovrà prima o poi finire, salvo poi riesplodere fino a confluire nell’altra, più generale, terza guerra mondiale. Ma il “buffone della sicurezza nazionale”, come taluni media israeliani non ultranazionalisti definiscono il premier – Maariv, 11 ottobre – non potrà forse godere dei frutti del suo intenso lavorìo. Scriveva un editorialista del Jerusalem Post, alla vigilia dell’invasione: «Questa guerra è colpa di Netanyahu. Ha coltivato Hamas come partner strategico e ha guidato l’illusione che essa potesse essere comprata con il denaro del Qatar… Ha rimpiazzato ministri della difesa come fossero calzini… Ha diviso la società israeliana… Non serve un profeta per predire che ciò che ci ha colpito finirà per rimuoverlo dal potere, e segnerà la sua carriera». Ma la resa dei conti può attendere, ora è tabula Gaza.

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