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Cos’ha da offrire al mondo la Palestina?

E’ impossibile costruire un museo nazionale in una situazione coloniale e di apartheid. Eppure a Parigi…

Parigi, 29 dicembre – Parleremo di musei, possibili, reali, creati e di un altro museo purtroppo impossibile, sognato e perciò divenuto virtualmente reale nel cuore di Parigi.

Fra i doni della Rivoluzione francese al popolo c’è stato quello di creare il principio di un museo pubblico, aperto a tutti, al fine di donare il piacere della conoscenza e di permettere di scoprire liberamente a tutti le opere d’arte.

Il museo nazionale rivela la volontà di riunire le sue collezioni per arricchire e dilettare il suo popolo, contribuendo, così alla costruzione nazionale di uno Stato.

Ma se un popolo, disgraziatamente, uno Stato non ce l’ha? Per esempio la Palestina?

Popolo e territorio palestinesi non hanno ancora uno Stato sovrano indipendente e sono, soprattutto ora, ben lungi da averlo.

Costruire un museo nazionale in una situazione coloniale e di apartheid ha dell’impossibile.

La mostra Ce que la Palestine apporte au monde, aperta all’Institut du Monde Arabe a Parigi, si interroga sul modo di fare un museo della Palestina e per la Palestina attraverso tre collezioni, due fisiche e una virtuale.

Dal 2016, l’Institut du Monde Arabe ospita tra le sue mura la collezione del futuro Museo Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea della Palestina, una “collezione solidale” di circa 400 opere, dall’informale all’iperrealista, costituite da donazioni di artisti, riunite su iniziativa di Elias Sanbar, scrittore ed ex ambasciatore della Palestina presso l’UNESCO.

Accanto ad essa, dal 31 maggio scorso, l’Istitut ha scelto di mettere in mostra l’effervescenza culturale che la Palestina continua a rivelare e ad alimentare, anzi, forse bisognerebbe dire “continuava”, a causa della seconda Nakba che l’ha colpita da due mesi.

La vastissima mostra è articolata in tre sezioni: 1) i palestinesi nei loro musei; 2) immagini della Palestina: una terra santa e una terra abitata; 3) le valigie di Jean Genet.

ZeftTime n°1, Hani Zurob

La prima mette in luce lo slancio e l’irriducibile vitalità dell’opera creativa palestinese, prodotta nei territori o in esilio da artisti palestinesi, uomini e donne, in dialogo con i loro omologhi del mondo arabo e della scena internazionale. La collezione testimonia e denuncia il destino del popolo palestinese dalla Nakba del 1948.

Le opere in mostra sono ispirate al poema di Mahmoud Darwich Éloge de l’ombre haute, recitato davanti al Parlamento palestinese in esilio ad Algeri nel febbraio 1983. La sua poesia ha continuato a guidare il lavoro di numerosi artisti visivi di tutte le nazionalità, che fanno eco alla lotta palestinese per riconquistare la libertà in una terra della quale il popolo che la abitava è stato espropriato.

La seconda, è una esposizione fotografica, che mette a confronto la Terra Santa “inventata” degli orientalisti e quella degli artisti contemporanei, fatta invece di ruderi, miseria ma anche volontà di vivere. Interessantissimo veder dialogare una foto dal gusto esotico di inizio Ottocento che ritrae borghesi bene abbigliati fra una moschea e una sinagoga e foto odierne, in cui campeggiano edifici sventrati e sobborghi massacrati e poveri, fra i quali si muovono bambini scalzi.

Soleiman Mansour, La Foule

Di assoluto interessa l’installazione di un artista palestinese contemporaneo che ricrea la vetrina di una agenzia immobiliare; in basso sono scritte le caratteristiche dell’immobile, la collocazione, il numero di abitanti, ma la foto che sovrasta è quella di un edificio in parte o del tutto distrutto.

La terza parte della una mostra è costituita dei preziosi archivi palestinesi di Jean Genet, due valigie lasciate dall’artista ad un avvocato 15 giorni prima di morire, nell’aprile 1986. Su appunti scritti su carta da lettere di hotel, ritagli di giornali, o qualsiasi cosa gli toccasse sotto mani, l’inquieto intellettuale “vagabondo” ci fa rivivere la Palestina tra il 1969 e il febbraio 1971, “con l’occhio di un testimone obiettivo”. In quell’epoca Jean Genet ha contribuito anche alla Revue d’études palestiniennes, in particolare con un potente resoconto dei massacri nei campi profughi di Sabra e Shatila nel 1982.

La valigia di Jean Jenet, Bruno Barbey (agenzia Magnum)

Nell’ambito della mostra Ce que la Palestine apporte au monde, è inserito il progetto del Museo Sahab (“nuvola” in arabo), guidato dal collettivo Hawaf, che mira a ricostruire una comunità a Gaza che parteciperà attivamente alla costruzione del museo, appena possibile, attraverso laboratori che riuniranno artisti di tutte le discipline e residenti locali. Utilizzando tecnologie di realtà virtuale e la creazione di opere d’arte digitali basate sul patrimonio palestinese, il museo sarà accessibile al pubblico in Palestina e in tutto il mondo. Nel cuore di Gaza, presso la galleria Eltiqa, quattordici artisti sono stati invitati dal collettivo Hawaf a partecipare a uno dei primi workshop del Sahab Museum: The Cloud Workshop che si è riunito per creare la prima opera per questo museo del futuro.

La mostra Ce que la Palestine apporte au monde, non vuole essere una cronaca del vittimismo, ma piuttosto una vetrina di incontri, echi e parallelismi talvolta inaspettati, che invitano i visitatori a immaginare un futuro auspicabile, portando il mondo in Palestina e mostrando la Palestina al mondo.

La foto di copertina: Sahab, me musée des nuages

 

 

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