Il Sudafrica ricorre alla Corte internazionale di giustizia per denunciare il “genocidio” a Gaza. Ma Israele sa di non rischiare nulla dall’Onu
«Nel modo più morale possibile». Così agirebbe Idf, l’esercito israeliano noto in ebraico anche come Tsahal, stando alle dichiarazioni di fine d’anno del premier Benyamin Netanyahu. Un portavoce militare, nelle prime ore di questo 2024, ha promesso ancora «combattimenti prolungati», almeno un altro anno di stragi. E’ Nakba, catastrofe, vista con gli occhi di una popolazione oppressa con ferocia da 75 anni e ora stritolata in ogni aspetto dell’esistenza.
Tornando a Netanyahu: «Continueremo la nostra guerra difensiva, la cui giustizia e moralità non hanno eguali – ha detto ancora – l’esercito “sta facendo di tutto per non danneggiare i civili, mentre Hamas fa di tutto per danneggiarli e li usa come scudi umani».
Netanyahu ha parlato ai membri del suo governo, il più a destra nella storia di questo controverso stato, ma in realtà stava rispondendo all’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia (CIG), accompagnata da una richiesta di misure provvisorie (l’equivalente di un’ingiunzione provvisoria). Questo organismo delle Nazioni Unite ha sede all’Aia e non va confuso con la Corte penale internazionale (Cpi), che ha sede anche nella città decisionale esecutiva e legislativa dei Paesi Bassi.
La richiesta in questione riguarda lo Stato di Israele e la sua eventuale mancata prevenzione del crimine di genocidio, di cui sembrano essere vittime i palestinesi intrappolati e bombardati nella Striscia di Gaza. Il deferimento alla CIG è una questione delicata, in quanto la giurisdizione della Corte è limitata dalla sovranità degli Stati, che sono soggetti alla sua giurisdizione solo dopo aver dato il loro consenso – per esempio, per risolvere la delimitazione di un confine terrestre o marittimo, come tra Niger e Burkina Faso (2013), o tra Perù e Cile (2014).
Però solo un terzo dei Paesi che fanno parte dell’ONU ha sottoscritto una clausola facoltativa di giurisdizione obbligatoria. L’URSS, oggi Russia, non ha mai firmato. Nemmeno la Cina. La Francia ha ritirato la sua firma per sfuggire alla condanna per i suoi esperimenti nucleari nel Pacifico. Gli Stati Uniti si sono tirati fuori al tempo di Reagan presidente, quando hanno finanziato i “Contras” in Nicaragua.
Oggi il Sudafrica, paese con una memoria viva di cosa sia l’apartheid, ha seguito una terza strada: ricorrere alla CIG sulla base di un trattato internazionale contenente una clausola di giurisdizione.
È il caso della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, approvata all’unanimità dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre 1948, dopo la distruzione degli ebrei in Europa. Il crimine di genocidio, sia esso individuale o collettivo, può e deve essere prevenuto o punito dal momento in cui si rivela l’intenzionalità che lo definisce. Il reato internazionale si configura infatti quando vengono commessi determinati atti “con l’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. E le condotte, oltre alle dichiarazioni, dei decisori sionisti non lasciano grandi margini all’immaginazione.
Vale la pena ricordare oltre alla montagna di morti che il ministro sionista della Difesa Yoav Gallant ha definito i palestinesi “animali umani” quando ha annunciato che Israele stava ponendo un assedio da fame su Gaza, tagliando acqua, cibo, elettricità, medicine e carburante. Isaac Herzog, presidente di Israele, ha indicato che tutti i 2,3 milioni di persone a Gaza – metà dei quali bambini – sono colpevoli e destinati alla morte: «È un’intera nazione ad essere responsabile. Non è vero, questa retorica sui civili non consapevoli, non coinvolti, non è assolutamente vera».
E, cosa più nota, Netanyahu ha paragonato il popolo palestinese ad Amalek, un nemico degli israeliti biblici: “Ora andate e attaccate Amalek e distruggete completamente tutto ciò che hanno, senza risparmiarli. Ma uccidete uomo e donna, neonato e bambino che allatta, bue e pecora, cammello e asino”, si legge nella Bibbia, il testo più gettonato nei secoli dai fautori di stragi di innocenti e dissidenti e ora manuale per le reali regole di ingaggio dei soldati di Tsahal.
Non mancano interpretazioni contraddittorie della convenzione Onu richiamata da Pretoria. «Nel febbraio 2022, il Cremlino ha giustificato l’invasione dell’Ucraina con presunti atti di genocidio perpetrati nel Donbass dal governo di Kiev. Quest’ultimo ha rigirato l’accusa contro il suo aggressore, documentando costantemente un processo che dovrebbe tenersi alla fine del 2024 davanti alla Corte internazionale di giustizia», segnala Antoine Perraud dal sito francese Mediapart.
Nel frattempo è sotto gli occhi di tutti la paralisi del sistema internazionale: la Corte, che dovrebbe emettere decisioni giuridicamente vincolanti senza avere i mezzi per farle rispettare, ha ordinato alla Russia di porre fine alla sua offensiva in Ucraina nel marzo 2022, senza alcun risultato sul piano concreto.
Solo un esempio di questa fragilità voluta è l’assordante silenzio di Alice Wairimu Nderitu, consigliera speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per la prevenzione dei genocidi.
Mentre i gruppi per i diritti umani, gli esperti indipendenti delle Nazioni Unite e gli studiosi di genocidio suonano il campanello d’allarme per la campagna di sterminio di Israele a Gaza, Nderitu è rimasta in silenzio (dopo aver condannato con prontezza gli attacchi di Hamas) violando impunemente il suo mandato. Nderitu suggerisce persino che i palestinesi attaccano Israele non perché sono sotto una brutale occupazione pluridecennale, ma piuttosto “sulla base dell’identità” – facendo eco all’assurda e riprovevole propaganda di Israele secondo cui è l’antisemitismo a motivare la resistenza palestinese. Con una mossa molto insolita, il mese scorso decine di membri del personale delle Nazioni Unite hanno firmato una nota in cui si il suo rifiuto di affrontare le azioni illegali e disumane di Israele a Gaza e più di una dozzina di organizzazioni palestinesi per i diritti umani hanno espresso il loro allarme per la sua dichiarazione sbilenca e il suo continuo silenzio su Gaza: «Il suo silenzio sul rischio di genocidio in Palestina… è assordante».
Eppure anche moltissimi intellettuali ebrei hanno avvertito sugli intenti genocidi dello Stato israeliano. Lo ha fatto, sul New York Times del 10 novembre, Omer Bartov, professore israeliano di studi sull’Olocausto e sui genocidi alla Brown University, un mese prima lo aveva fatto Raz Segal, professore israeliano di studi sull’Olocausto e sui genocidi all’Università di Stockton: «[Gaza] è un caso da manuale di genocidio», come ricorda The Electronic Intifada, sito indipendente di attivisti arabo-americani.
Ma Nderitu e il suo ufficio per la prevenzione dei genocidi ha ignorato le ripetute richieste mentre il suo ufficio “ha lanciato avvertimenti sul diritto al ritorno dei rifugiati armeni, sull’aumento del rischio di genocidio e di crimini di atrocità in Tigray, Amhara, Afar, Oromi e sul rischio di genocidio in Darfur, Sudan”, osservano i gruppi per i diritti dei palestinesi.
In questo contesto c’è poco da farsi illusioni tuttavia, l’opinione pubblica mondiale potrebbe essere sensibile a questo modo di enunciare la legge. In quest’ottica, la richiesta del Sudafrica del 29 dicembre 2023 afferma che “gli atti e le omissioni di Israele sono genocidi in quanto accompagnati dal necessario intento specifico di distruggere i palestinesi di Gaza come parte del più ampio gruppo nazionale, razziale ed etnico dei palestinesi”.
Ancora: “Come risultato della sua condotta – attraverso i suoi organi, agenti e altre persone o entità che agiscono sotto le sue istruzioni, direzione, controllo o influenza – nei confronti dei palestinesi di Gaza, Israele ha violato gli obblighi previsti dalla Convenzione sul genocidio”.
Come reagirà Israele? Quest’anno è già stata presentata alla CIG una richiesta di parere consultivo sulle “conseguenze legali derivanti dalle politiche e dalle pratiche di Israele nei Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est” votata dall’Assemblea generale ONU il 30 dicembre 2022, da 87 Stati, con 53 astensioni e 26 voti contrari. Le discussioni orali sono previste per il 17 febbraio e il procedimento potrebbe portare la Corte internazionale di giustizia a pronunciarsi sulla legalità della presenza di Israele nei territori in questione.
La rappresentanza israeliana alle Nazioni Unite si è opposta senza successo a tale risoluzione, che a suo dire «demonizza Israele ed esonera i palestinesi da qualsiasi responsabilità per la situazione attuale». Il delegato israeliano ha aggiunto che il rinvio all’istituzione «decimerebbe qualsiasi possibilità di riconciliazione tra Israele e i palestinesi». Questo argomento pretestuoso è stato ripreso da Washington, Londra e Ottawa – ma non da Parigi.
Nel 2004, la Corte internazionale di giustizia ha emesso un parere consultivo chiaro e inequivocabile contro il “muro di separazione” voluto da Israele e che, secondo l’istituzione delle Nazioni Unite, un elemento di opposizione al diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione. Il parere raccomandava di distruggere il muro, di rimborsare i danni e di proibire alle imprese di continuare a costruire. Il parere non ebbe seguito, ma Israele non accettò di buon grado un’accusa alla sua politica sistematica.
Da allora, secondo un attento osservatore della Corte, essa ha perso i suoi giudici internazionali più sagaci e pungenti (sono quindici, eletti per nove anni), sostituiti per lo più da diplomatici in pensione, esperti nell’arte di spaccare il capello in quattro e formati per non infastidire nessuno.
Per Israele sarebbe un enorme errore adottare una politica di sedie vuote – e quindi non difendersi sulla base di prove di fronte a un’accusa di genocidio – ma non sarebbe il primo errore del governo Netanyahu, né il primo atto di schermo nei confronti delle istituzioni della comunità internazionale.
Il governo sionista ha appena respinto le affermazioni del Sudafrica «con disgusto» attraverso Lior Haiat, portavoce del Ministero degli Affari Esteri che ha definito la richiesta al tribunale dell’ONU come «diffamazione senza base legale», mentre ha assicurato che il suo Paese «rispetta il diritto internazionale nella sua guerra contro Hamas a Gaza». La strada da percorrere è ancora lunga e tortuosa, per far sì che la ragione del più forte non abbia più la prima o l’ultima parola. E affinché coloro che ci governano siano a loro volta governati dalle leggi. Tuttavia, la richiesta di Pretoria alla Corte internazionale di giustizia potrebbe lasciare un segno, che non potrà che turbare coloro che contano di cancellarlo.
I bollettini di guerra che arrivano da Gaza, dalla Cisgiordania, dall’Ucraina e altre zone del mondo meno visibili da qui, sono un grido d’allarme sulla debolezza strutturale della comunità internazionale modellata più a misura delle esigenze dei mercati che sulla scorta delle dichiarazioni sui diritti umani. Anche questo siparietto alla CIG ripete lo stesso copione di fragilità per nulla accidentale e aumentata dall’assenza sulla scena mondiale di un movimento di massa contro la guerra e il genocidio. Già la vicenda Ucraina ha dirottato buona parte dei settori antimperialisti su posizione filorusse e spinto le reti tradizionalmente pacifiste sull’appoggio acritico al governo di Kiev (con imbarazzanti paragoni con la guerra civile spagnola), ora la questione palestinese registra un’altra linea di frattura tra le reti pacifiste e progressiste che non riescono a mobilitarsi massicciamente accanto alle organizzazioni palestinesi per via di una disarmante pretesa di equidistanza di pezzi importanti di mondo pacifista. Se esiste una sola possibilità di liberarsi dall’oppressione e dalla guerra, di espellere il genocidio dalle possibilità della storia, questa passa attraverso mobilitazioni di massa, dal basso e di lunga durata, capaci di sedimentare consapevolezza condivisa e sviluppare dibattito oltre alla pressione sui decisori.
Un esempio virtuoso lo fornisce la campagna internazionale BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni per i diritti del popolo palestinese) che, proprio nel dicembre 2023, ha registrato una vittoria importante: PUMA, celeberrimo marchio di abbigliamento sportivo, non rinnoverà il suo contratto con la Federcalcio israeliana (IFA). PUMA è stata l’obiettivo di una campagna BDS mondiale dal 2018 per il suo sostegno all’apartheid israeliana che opprime milioni di palestinesi. L’IFA dirige le squadre e sostiene il loro mantenimento negli insediamenti israeliani illegali su terra palestinese rubata. Messaggi interni trapelati hanno rivelato che il management di PUMA era sottoposto a enormi pressioni per rescindere il contratto. Pressioni aumentate dopo l’avvio del genocidio all’indomani del 7 ottobre. Tutto ciò non è solo una lezione per tutte le aziende che sostengono l’apartheid israeliana ma anche un modo per articolare la partecipazione e sviluppare la consapevolezza. Che sia una «vittoria dolceamara mentre continua la pulizia etnica dei palestinesi da parte di Israele» è chiarissimo anche i promotori. «Ma ci dà speranza e determinazione nel denunciare le responsabilità di tutti i sostenitori del genocidio e dell’apartheid. Noi continueremo a denunciarli finché tutti i palestinesi non potranno vivere in libertà, giustizia e uguaglianza».