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Come fare amicizia nel “cuore freddo della macchina capitalista”?

Il modo in cui costruiamo, conduciamo e diamo priorità alle nostre relazioni può essere uno sforzo creativo [Sophie K Rosa]

Red Flags è la rubrica del sito inglese Novara Media, che consultiamo spesso, dedicata ai consigli agli anticapitalisti. Ispirata al libro dell’editorialista Sophie K. Rosa, Radical Intimacy, Red Flags esplora il modo in cui il capitalismo incasina le nostre vite intime – non solo le relazioni sentimentali, ma anche le amicizie, la vita domestica, i legami familiari, le esperienze di morte e di morire – e cosa possiamo fare al riguardo.

Cara Sophie,

Come faccio a farmi degli amici intimi in una grande città? Quasi tutti i miei amici più stretti se ne sono andati negli ultimi anni e ora ho solo conoscenti e amici del mio dipartimento (sono una dottoranda), ma molti di loro stanno svolgendo un lavoro sul campo in tutto il mondo.

Questo comincia a deprimermi; non è che non abbia mai tempo per socializzare, ma non ho persone con cui sono molto legata o con cui esco regolarmente. Mi sento abbastanza isolata e, se devo essere sincera, anche un po’ imbarazzata. Ho 29 anni e non voglio compierne 30 senza avere amici con cui festeggiare! Sto cercando di mettermi in gioco e di essere più socievole, ma è difficile creare legami significativi. Tutti sono così impegnati e anch’io sono molto impegnata con i miei studi.

Qualche consiglio su come fare amicizia quando si vive nel freddo, freddo cuore della macchina capitalista?

– No Bestie

Cara No Besties,

Sentirsi isolati può essere molto doloroso. Inoltre, non sei affatto l’unica a sentirti sola: la mancanza di “legami significativi” è una fonte comune di sofferenza. Questa realtà è sia tragica, perché molti di noi sperimentano una solitudine carica di vergogna, sia piena di speranza: ci sono molti di noi che desiderano l’intimità e sono pronti a condividerla.

Come lei osserva, l’esistenza nella “macchina capitalista” non favorisce l’amicizia. A meno che non abbiamo un tipo di vita molto particolare, la maggior parte di noi passa gran parte del tempo a lavorare per sopravvivere e gran parte del tempo in cui non lavora, a riprendersi dal lavoro. La socializzazione è troppo spesso un’aggiunta rudimentale alla vita lavorativa: pinte dopo il lavoro, feste di lavoro, caffè in pausa pranzo.

Il tessuto delle nostre vite sotto il capitalismo rende difficile scoprire e coltivare l’amicizia. Come scrivi tu, “tutti sono così occupati e anch’io sono molto occupata […]”. Con un certo impegno, non è inverosimile riuscire a ritagliare più opportunità per far fiorire l’amicizia nelle nostre vite così come sono – ma le nostre realtà materiali pongono limiti intransigenti a queste possibilità. Un esempio concreto: Questo mese non vedevo l’ora di andare a una certa festa come occasione per coltivare relazioni nascenti, ma alla fine mi sono sentita troppo sopraffatta e stanca per andarci a causa dello stress lavorativo.

Affronterò il problema da un’angolazione diversa, che spero possa darvi la sensazione di avere più potere. Non hai parlato della tua sessualità, ma credo che la cultura etero dominante da cui siamo tutti influenzati ci privi e impoverisca l’amicizia. Non possiamo sfuggire a questa egemonia, ma credo che, interrogandola, scopriremo più opzioni per l’intimità.

Per cominciare, nella semantica eteronormativa, un’amicizia non è nemmeno “una relazione”. Credo sia importante mettere in discussione questo linguaggio perché le parole sono, in un senso importante, il modo in cui creiamo un significato nel mondo.

Nella cultura etero, l’amicizia è spesso strutturata intorno alla ricerca di una relazione romantica, piuttosto che una forma di relazione con un valore intrinseco. Gli amici possono essere posizionati come “spalla”, come partecipanti all’addio al celibato, al nubilato e al matrimonio, come spalle su cui piangere dopo una rottura. Quando le persone formano nuclei familiari, l’amicizia viene spesso ulteriormente declassata; I “contatti” possono avvenire al massimo ogni pochi mesi. Peggio ancora, le amicizie possono essere trattate come vere e proprie minacce alla coppia monogama. Certo, ci sono innumerevoli eccezioni, in cui le amicizie sono curate in modo tale da prosperare – ma il più delle volte mi sembra che la reificazione della nostra società di un particolare tipo di vita sminuisca l’amicizia.

Non è necessario che sia così. L’amicizia ha un aspetto molto diverso in alcune comunità, soprattutto tra le persone queer. Sia inevitabilmente che per scelta, le relazioni queer di ogni tipo spesso non si attengono ai costumi eteronormativi. Di conseguenza, possono sfidare i binari – romantico contro platonico, sessuale contro non sessuale, monogamo contro non monogamo, partner contro amico – in modi che permettono un riorientamento verso l’amicizia.

Penso che gli ideali poliamorosi possano essere utili anche in questo senso. Sia la monogamia che il poliamore possono essere dannosi per l’amicizia se comportano un investimento nella sfera romantica e sessuale tale da affamare l’amicizia. Ma l’idea del poliamore che – con sufficiente intenzione, attenzione e comunicazione – possiamo avere la capacità di promuovere più relazioni impegnate, è utile quando si tratta di rivalutare l’amicizia. Mi piace l’idea del “poliamore platonico” – la possibilità di avere più relazioni d’amore impegnate, non necessariamente romantiche o sessuali – e penso che ci offra qualcosa di diverso dall’ideale relazionale normativo di “un partner e alcuni amici”.

E se le nostre amicizie fossero prese “sul serio” come le relazioni sentimentali? E se ci occupassimo di loro con livelli simili di attenzione, energia e impegno? E se i nostri amici potessero essere compagni di vita? Come voi, molte persone desiderano legami veramente “significativi” al di là della forma di coppia.

Coniata nel 2006 dalla femminista e informatica svedese Andie Nordgren, l'”anarchia delle relazioni” propone che il modo in cui costruiamo, conduciamo e diamo priorità alle nostre relazioni possa essere uno sforzo creativo. La filosofia sostiene gli impegni su misura: relazioni collaborative costruite intorno alle persone coinvolte, in contrapposizione agli approcci e alle gerarchie del “senso comune”. In questo modo, le persone a cui teniamo non dovrebbero mai essere relegate a “semplici” amici.

Uno dei miei testi preferiti sull’amicizia queer è The Faggots and Their Friends Between Revolutions di Larry Mitchell – una sorta di favola utopica, splendidamente illustrata da Ned Asta. Nell’introduzione alla quarta stampa, l’artista Morgan Bassichis scrive dell’amicizia:

“L’amicizia non era un’idea o uno status che si dava per scontato, ma qualcosa che si faceva, continuamente: Quando il tuo amico arriva in città in aereo, trovi una macchina e lo vai a prendere all’aeroporto, e lo porti a mangiare un hamburger da In-N-Out. Quando è il compleanno di un amico, preparate la sua torta preferita (Earl Grey, se siete fortunati) e gli preparate un bel biglietto con pezzi di carta spessa e adesivi raccolti appositamente. Quando il tuo amico ha bisogno di un posto dove stare perché sta visitando la città o si sta riprendendo da un intervento chirurgico o sta uscendo di prigione, gli prepari un letto con le lenzuola e i cuscini in più che tieni per i visitatori e gli lasci uno spuntino in frigo. All’ombra dell’abbandono strutturale, dell’alienazione politica, del rifiuto della famiglia, della malattia cronica, della violenza di Stato e dell’incuria medica, l’amicizia queer ci salva”.

Affronto il vostro dilemma da questa prospettiva perché penso che sia un dilemma ampio. Anche se non possiamo scegliere di lavorare meno per avere più tempo per l’amicizia, possiamo – almeno in una certa misura – scegliere come affrontare e dare priorità alle nostre relazioni. Se le norme relazionali dell’etero – che hanno un impatto su tutti noi – possono essere ostili all’amicizia, cosa potrebbero offrirci altri modi di essere? Non credo che sia importante se ci consideriamo o meno queer o poliamorosi. Anzi, credo che tenere certi segni di identità con una certa delicatezza – nel senso di mantenere un’apertura su chi siamo e su chi potremmo diventare in relazione ad altre persone – possa essere proprio ciò che è più generativo per costruire relazioni appaganti.

Non possiamo – e non dovremmo cercare di – controllare il modo in cui gli altri si relazionano con noi, ma possiamo almeno in qualche misura scegliere come costruire i nostri valori relazionali. Se riusciamo a concepire le relazioni come qualcosa che “inventiamo” noi stessi, in collaborazione con gli altri, allora “fare amicizia” potrebbe assumere significati completamente nuovi.  Sembri avere le idee chiare su ciò che è importante per te nelle tue relazioni, su ciò che ti manca. Come potresti fare amicizia con persone che condividono i tuoi desideri? Non conoscendo te e i tuoi interessi, è difficile per me suggerire cose specifiche. Di recente, ho visto sbocciare i circoli sociali delle persone attraverso gruppi di basket comunitari, gruppi di lettura e scrittura e incontri orientati alla costruzione di famiglie queer. So che le persone che cerchi sono là fuori – persone con cui ti relazionerai, persone che sarebbero felici di relazionarsi con te.

Sophie K Rosa è giornalista freelance e autrice di Radical Intimacy.

1 COMMENT

  1. “Non lo so, ma dobbiamo andare…”
    “Non lo so, ma dobbiamo andare…”

    IN MEMORIA DI BRUNO ZANIN PARTITO PER UN ALTRO VIAGGIO…

    Gianni Sartori

    Bruno Zanin se n’è andato – in “ malo modo – a luglio.

    Cominciamo allora dalla fine. Da quanto il figlio Francesco ha scritto per la morte di suo padre. Essenziale, toccante.

    ”Pour certains c’est le Tita de Fellini, pour d’autres un écrivain, un journaliste, pour d’autres encore un marcheur infatigable, un conteur, un jardinier aux pouces verts, un homme engagé auprès des migrants, engagé dans l’aide humanitaire, un masson, un homme en recherche de vérité… Pour moi, il est mon père, avec sa part de lumière et sa part d’ombre. Il était rugueux, aimant, généreux, exigent, cultivé, borné, curieux, “brontolone”. Il ne laissait pas indifférent : on l’aimait ou on le détestait quand ce n’était pas les deux à la fois.. A-t-il été un bon père ? Il a fait ce qu’il a pu, il s’est rendu compte qu’il avait fait beaucoup d’erreurs, il a essayé de réparer celles qui pouvaient l’être, et il a transmis…

    A moi il m’a transmis l’amour des mots, de l’écriture. Une grande partie de ma culture littéraire, c’est à lui que je la dois. A mon frère et à moi, il nous a laissé des amis qui ont été et sont pour nous comme une famille. A-t-il été un bon père ? Je pense qu’avec les années, il a été un aussi bon père que ce que ses écorchures le lui permettaient, infatigable dans ses tentatives d’essayer de s’améliorer, ne se resignant pas à ses propres limites. Ces derniers jours que j’ai passé avec lui et mon frère Fiorenzo, j’ai réalisé que personne n’avait expliqué à mon père comment on vit “ensemble”, et que très jeune il avait dû se débrouiller avec ses écorchures pour s’adapter au mieux à un monde où la différence fait peur et exclut. Il a su en partie transcender ses différences, mais il n’a jamais su tout à fait trouver sa place même parmi les gens qui l’aiment. Papà a reçu beaucoup d’hommages après sa mort, merci pour lui. Il a aussi reçu beaucoup d’affectation et de soutien durant ses derniers jours, et ça, ça n’a pas de prix. Merci du fond du cœur à vous qui lui avez manifesté votre affection.

    Merci à la famille que nous avons en Italie. Nous n’avons pas été proches par le passé, mais vous vous êtes montrés présent pour nous, avec humilité et grand cœur, discrétion et bienveillance. Merci pour tous vos mots de réconfort. Enfin, merci à Anne-Lise, Charlène et maman. Pas de fleurs, pas de cartes, (voir commentaire) merci“.

    E qui forse bisognerebbe aver l‘umiltà di fermarsi. Quello che si doveva dire è stato detto.

    Tuttavia, per quanto al momento del suo trapasso sia stato ricordato dai media, resto convinto che Bruno Zanin si meritava di più. Di essere letto, conosciuto…e anche ”studiato“, interpretato. Da vivo, intendo.

    Vorrei quindi provare a rimediare, portare un mio piccolo contributo.

    O almeno provarci.

    Una vita la sua a dir poco emblematica. Da tanti e tali punti di vista (nessuno dei quali può darci la cifra complessiva dell‘Uomo Zanin) che non si può certo esaurire in un articolo-epitaffio.

    E proseguo con una testimonianza ormai postuma, la sua ultima, lapidaria, mail. Non un lamento, forse nemmeno un’invettiva o una condanna, ma comunque un grido che suona da rimprovero per chi avrebbe potuto se non salvarlo, perlomeno rendere meno dolorosi, disperati i suoi ultimi giorni in questa valle di lacrime.
    Ma, come ha commentato un comune amico ”neppure la decenza di rispondere“.

    Nel suo “messaggio in bottiglia“ scritto d‘impeto evidentemente, si rivolge a quei medici che in Veneto lo avevano “posteggiato” a lungo, in attesa di una visita che non arrivò mai. Tanto che quando venne finalmente sottoposto a una TAC a Domodossola era ormai troppo tardi per qualsiasi cura.

    Un testimonianza che vorrei riportare qui per intero (ho ritenuto di omettere solo i nomi, anche se circolava già in rete).

    Rivolgendosi a uno dei medici che avrebbero dovuto prenderlo in carico, Bruno spiega “…perché non sarò da voi: dalla TAC fatta all’ ospedale di Verbania addome e torace una settimana fa si avvince che la massa del cancro si è praticamente raddoppiata nel fegato, forti dolori all’addome, la bilirubina dai valori tollerabili quando mi avete visitato il 28 maggio, sono saliti ad otto, qui al day hospital di Domodossola reparto oncologia, hanno tentato inutilmente di abbassarla con delle infusioni contenenti diversi farmaci, per cui mi hanno detto che la terapia chemio aggraverebbe il mio stato per insufficienza epatica. Mi chiedono tutti perché non mi avete programmato la terapia già allora quando mi avete ricevuto che ero in condizioni di tollerarla? La documentazione che vi avevo portato, mi ripeto, era completa, c’erano i risultati della biopsia della TAC addome e torace, l’ecografia che vi dava un quadro completo della mia situazione clinica. Invece no mi avete fatto tornare in Piemonte e aspettare qui. ed intanto le cose sono peggiorate velocemente, dolori intollerabili all’addome nausea inappetenza disturbi che i vostri colleghi risolvevo con le flebo Ma la bilirubina non è diminuita anzi è aumentata fino a giungere a 8,3 , urina marrone feci simile allo yogurt alla frutta. Non aggiungo altro perché veramente mi ha preso  una rabbia che difficilmente riesco a controllare, e come sono un personaggio pubblico (fui il protagonista di Amarcord di Federico Fellini oltre che molto teatro e con registi e compagnie di fama internazionale e altro cinema è chiaro che i media gossip si interesseranno a questa mia vicenda arrivata al capolinea, ripeto, impossibile fare le terapie sia qui a Domodossola dove si erano già procurati anche il farmaco immunoterapeutico più la chemio da protocollo. Sicuro che voi potete capire clinicamente parlando, e come sono stato anche un giornalista e reporter di guerra questo prima di ritirarmi a vita privata è chiaro che i media si interesseranno a questa mia situazione di salute arrivata al capolinea, mi ripeto, cosa si dovrà dire della dottoressa(…) che il professor (…) mi aveva assicurato che mi avrebbe preso in carico, cosa si dovrà avrebbe dire dello (…) ,eccellenza riconosciuta a livello europeo dove accorrono malati di tutta l’Italia soprattutto dal sud? Che sono diventati dei burocrati dei funzionari e hanno perso l’umanità? credo che sia così! (…) ma invece ho dovuto aspettare due settimane ospite di un centro di accoglienza , un monastero e venivo dal Piemonte e invece no ho dovuto aspettare due settimane prima di essere preso in carico da voi. Saluti Bruno Zanin”.

    Avevo conosciuto Bruno diversi anni fa, nel 2007 mi pare.
    Lo avevo intervistato e avevamo presentato il suo libro in un centro socio-culturale di Mestre (in coincidenza con la pubblicazione dell’intervista sul “Germinal” triestino).
    Nato nel 1951 a Vigonovo, provincia di Venezia (“…un paese tagliato in due dal Brenta, che allora aveva una sola strada asfaltata; partiva da un fondale di pioppi, rasentava l’argine per perdersi più avanti allo sguardo e sboccare nel respiro della pianura infinita. E ovunque casolari, campi lavorati, vigneti, stalle, pagliai…”), lo scrittore Bruno Zanin era sicuramente più noto come attore. Iniziò interpretando Titta Biondi in «Amarcord» di Federico Fellini, per lavorare in seguito con altri registi come Montaldo, Giordana, Ronconi, Brusati, Ferrara. E poi in teatro: con Strehler al Piccolo, con Lucien Piutilie al Théatre de la Ville a Parigi…

    Qualche anno fa, dal suo rifugio in una baita sul Monte Rosa, aveva intrapreso una nuova carriera, quella di scrittore. All’epoca il suo libro «Nessuno dovrà saperlo», pubblicato nel 2006 da Tullio Pironti, era stato positivamente recensito dai principali giornali italiani. In occasione del suo 65° compleanno era stato ristampato (in edizione limitata e numerata, diventata preziosa) da Grafica Veneta.
    Nel romanzo, in pratica autobiografico, un sacerdote si rende responsabile di un delitto da “macina al collo”.

    Racconta l’infanzia di un “bambino prodigio in una povera famiglia di contadini veneti negli anni 60 destinato da tutti a diventare prete”.
    Ma che prete non diventerà: ”un intoppo tragico insanabile lì nel collegio dove studia interrompe quel percorso e vocazione, invece che prete il ragazzino diventerà un piccolo delinquente, un alcolista, un emarginato”.
    Denuncia una realtà scabrosa in seno alla chiesa “realtà che se in tempi andati rimaneva sotto traccia, da come sta venendo fuori in questi ultimi anni, pare non abbia riguardato solo il protagonista del mio libro, ma tante altre persone che non avevano allora voce e coraggio per farlo sapere, per chiedere aiuto, per denunciarlo. Mi riferisco alla pedofilia dei preti e alle loro vittime. Il mio libro racconta il percorso doloroso che quel ragazzino uscito dal seminario dovrà fare in un paese di campagna dove, senza alcuna delicatezza, nella totale incomprensione e indifferenza, verrà chiamato “Prete falso“; racconta cosa può essere il dopo per un adolescente che ha subito un abuso da parte di un prete , un ragazzino che trovato il coraggio di raccontarlo al padre non viene creduto ma bastonato perché per l’uomo gli è impossibile credere a una cosa del genere”.
    Diventando con gli anni ben consapevole delle oscure dinamiche (sostanzialmente di potere) che portano le vittime a doversi “sentire in colpa”, mentre chi usa violenza trova il modo di auto assolversi. Gli oppressi diventano “colpevoli” di ribellarsi, le donne “colpevoli” di essere state violentate. Un meccanismo ben consolidato per perpetuare il dominio, il controllo.
    E così commentava:
    ”Non è semplice capire questo perverso meccanismo che fa sì che chi usa violenza si auto assolve e chi la riceve si sente in colpa. Quello che so è che chi usa violenza lo fa in forza a un potere che detiene e gli viene riconosciuto. Chi la subisce è sempre una persona debole, subordinata o sottomessa a quel potere. Perché succede questo, come mai la vittima non si ribella a volte, potrebbe spiegarlo con termini più appropriati un psicologo, un psicanalista. Io so solo che ero un ragazzino tredicenne totalmente ingenuo e timido, se posso fare riferimento al mio caso personale, il prete che abusò di me era un uomo sapiente, rappresentante di Cristo, un suo ministro, verso il quale andava la mia fiducia e totale obbedienza. Chi e cosa ero io ai suoi occhi e agli occhi del mondo? Nessuno, uno dei tanti; lui invece era un bravo prete, un prete che aveva avuto un momento di debolezza, forse anche due o tre momenti di debolezza, ma era comunque un bravo prete, un ottimo professore ed infatti in seguito ha fatto carriera e io che non valevo niente divenni uno sbandato e poi un delinquente.

    A chi avrebbero creduto se avessi denunciato la cosa allora? A me o al bravo prete professore? Ed infatti mio padre non mi credette e mi picchiò. Ora ho potuto farlo perché la cosa è sotto gli occhi di tutti e la Chiesa stessa ai massimi vertici lo ammette e sta facendo mea-culpa”.

    Scriverla, raccontare senza remore questa vicenda ha rappresentato quindi non solo una catarsi, una liberazione, ma anche una denuncia inappellabile. Ne riparleremo.
    Intanto va detto che Bruno Zanin non era un personaggio qualsiasi, da “prendere con le molle” talvolta. Ma comunque, per quanto ho potuto conoscerlo, dava regolarmente l’impressione di posizionarsi parecchi passi avanti. Sia sul piano culturale, sia per esperienze vissute (digerite e metabolizzate, almeno in parte), sia per consapevolezza generale sulla vita e sui massimi sistemi. Ma senza tirarsela, disponibile, alla mano.
    Altra considerazione personale (ne avevo anche parlato con l’interessato a suo tempo). Per una serie di coincidenze, analogie, affinità elettive etc. mi faceva pensare a qualche personaggio – di quelli border line, non omologati – espressione della controcultura del secolo scorso.

    Come lo scrittore Jack Kerouac (all’anagrafe Jean-Louis Lebris de Kérouac, franco-canadese con ascendenze bretoni). Universalmente ritenuto l’ideatore del termine beat (si presume da beatific)

    Accomunati, Kerouac e Zanin,dall’intima necessità di muoversi, viaggiare, vagabondare. Dal non poter star fermo troppo a lungo e da una una predisposizione – concimata e coltivata – alla discontinuità, alla devianza.

    Fermenti che impregnano sia “Sulla Strada (”On the Road“, ma la prima stesura era in francese), sia un libro di Zanin (rimasto purtroppo inedito, almeno per ora) di cui mi aveva parlato diffusamente: “Il ragazzo dei colombi viaggiatori”. Del resto Lipari era stata la sua Big Sur.
    Per entrambi una “breve estatica estate” sospesa sul mare della libertà
    Con uno stesso conduttore: il viaggio per il viaggio. Viandante e pellegrino instancabile (quante volte avrà percorso il Camino de Santiago?) avrebbe potuto senz’altro partecipare al famoso dialogo:

    “Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati”

    “Dove andiamo?”

    “Non lo so, ma dobbiamo andare”

    Ma Bruno evocava anche un altro “irregolare”. Un attore che recitò soltanto in tre film (in realtà due, l’ultimo rimase quasi sconosciuto): Mark Frechette.

    Come quella di Zanin anche l’infanzia di Frechette era stata segnata da abusi sessuali. Ed entrambi (oltre a conoscere il carcere) erano divenuti attori quasi per caso. Presi direttamente dalla strada da due grandi registi italiani:Fellini per Zanin, (nel 1973), Antonioni per Frechette (nel 1968). 

    Entrambi da giorni, settimane (Antonioni da quasi un anno) andavano cercando invano un volto, uno sguardo, una postura confacenti ai personaggi ideati.

    Rispettivamente il “Titta” Biondi di Amarcord (1973) e Mark (conservando anche il nome), il protagonista bello e perdente di Zabriskie Point (1970).

    Così Bruno raccontava della sua iniziazione alla settima arte:
    “Ero arrivato a Roma da Lipari, dove, dopo la fuga da casa, ero vissuto alcuni anni fabbricando collanine, sulle tracce di un’avventuriera a cui avevo prestato centomila lire senza riaverle indietro, erano soldi che mi servivano per comprare il materiale per il mio lavoro, filo e perline. I suoi figli lavoravano come comparse, quindi li avevo seguiti a Cinecittà sperando di essere preso anch’io per un western, ma nonostante i miei capelli lunghi mi avevano scartato. Ero deluso, arrabbiato, quando vidi la fila interminabile davanti alla porta dello Studio 5. Mi misi in coda anch’io per vedere il grande Fellini. Lui entrò, con certe madonne addosso, scontento di tutte quelle facce che gli sottoponevano per i provini. Io avevo una consuetudine di visioni, preveggenze. Cose strane, che non capivo. Oggi credo siano fenomeni isterici, qualcosa che succede a persone cui il dolore ha acuito la percezione e che non hanno più i muri, sono trasparenti. Quando ho visto Fellini devo avergli mandato un messaggio come a dire ‘prendimi’ e ho provato una grandissima emozione, come se mi avesse ‘trovato’. Come se lui avesse visto chi ero sotto le maschere che portavo. Vivendo sulla strada, dovendo sopravvivere, ero diventato Zelig”.

    Mentre la carriera cinematografica di Bruno Zanin fu piuttosto lunga (con oltre una ventina di film) quella di Frechette, per quanto intensa, risulterà brevissima.

    Dopo Antonioni Mark ebbe una parte importante in un altro film italiano “Uomini contro” di Francesco Rosi. Film antimilitarista ispirato da “Un anno sull’Altopiano” di Emilio Lussu, a cui prese parte anche Gian Maria Volonté.
    In entrambi Mark alla fine veniva fucilato.

    Un tragico presentimento della sua fine da ribelle. Arrestato per tentata rapina (con armi scariche) a una filiale della New England Merchant’s, verrà ritrovato cadavere nella palestra del prigione di Norfolk il 27 settembre 1975.

    Ma vedo che sto divagando. Del resto la personalità di Zanin mi appariva talmente sfaccettata, poliedrica, difficile da mettere a fuoco, da “scolpire”una volta per tutte.

    Ragion per cui lo devo abbozzare un po’ alla volta, procedendo per accostamenti, affinità, analogie.

    Per esempio confrontandolo con un altro “outsider per scelta” che entrambi avevamo conosciuto: l’eremita scalzo (e vegetariano) della Val Grande, Gianfranco Bonaldi.

    Per tutti “il Gianfri” scomparso tragicamente nel 2015

    Praticamente un suo compaesano (da quando Bruno si era insediato nei pressi del Monte Rosa) in cui aveva riconosciuto una certa sintonia spirituale, un riflesso delle medesime inquietudini. Entrambi tra le montagne per lenire un malessere esistenziale non solamente metropolitano.

    Tra gli scrittori a lui affini, oltre al Kerouac, dovrei citare anche William Seward Burroughs e Heinrich Karl Bukowski.
    Se non altro per quella vena di “realismo sporco” che scorre, striscia (tra sesso occasionale,, alcol, rassegnato cinismo e disperata solitudine) anche tra le pagine di Zanin.
    Lascerei perdere invece il riferimento a Pasolini (apparentemente scontato). In realtà per certi aspetti si tratta di esperienze diametralmente opposte.

    Anche se – confrontandolo con don Gelmini – aveva detto che “Pasolini passerà alla storia perché era un grande, di Gelmini fra 10 anni nessuno più ne parlerà se non per disprezzarlo”.

    Spiegando che “Pier Paolo Pasolini che pure era omosessuale e ha vissuto sulla sua pelle un cristianesimo sofferto in contrasto con le pulsioni della carne, ha pagato con la vita quella contraddizione.
    Don Gelmini invece si definisce martire, perseguitato, messo in croce, bestemmia: è un ipocrita, vive una doppia morale. In pubblico appare il santo paladino contro la droga, in privato è ben altro”.

    Intravedo invece dense sintonie (ma anche dissonanze) con Vitaliano Trevisan.
    ntrambi hanno saputo esplorare il lato oscuro (o meglio: non del tutto colonizzato) dell’animo umano. Con lucidità, andando oltre la propria sofferenza personale e le proprie (indiscutibili) contraddizioni, arrivando a un grado di consapevolezza dei rapporti umani e – più ancora direi – dei rapporti “di potere” in questa società gerarchica e ingiusta. Fornendo una “mappa esistenziale” a viandanti, pellegrini, sfollati e naviganti su come si possa affrontare la tragicità della vita senza soccombere, rielaborandone anche gli aspetti peggiori.

    Ma fermiamoci qui che mi divento retorico.

    Talvolta Bruno poteva (voleva ?) apparire ingenuamente naif.
    Un “Forrest Gump de noaltri” che quasi per caso aveva incontrato e frequentato personaggi del calibro del pittore-scultore Edward Melcarth (nel 1967), Peggy Guggenheim (lo assunse come dog sitter a Venezia), Federico Fellini, Raffaele La Capria, Giorgio Strehler, Elsa Morante, Quanto a Luca Ronconi, raccontava – da finto ingenuo – che quando lo chiamò a recitare Goldoni credeva “parlasse dei preservativi…”.

    E su richiesta di Jean Louis Barrault reciterà (in francese) anche in commedie di Ionesco al Théâtre de la Vallée a Parigi.

    A Parigi Bruno era già approdato tempo prima, in autostop e privo di documenti. Vagabondando poi curioso per la città (mete ricorrenti le Père-Lachaise, il Marché aux Puces de Saint-Ouen, Pigalle…).

    “A’ la derive”. Applicando, consapevolmente o meno, il metodo lettrista e situazionista della psicogeografia.*

    Speculare a certi atteggiamenti vagamente autodistruttivi, la sua costante ricerca di redenzione o almeno di serenità. Sia, poco più che adolescente, andando a vendere collanine ai turisti nelle isole Eolie, a Lipari (dopo una parentesi convulsa, caotica a Roma). Sia, più avanti nel tempo, tra le vette delle Alpi occidentali. E soprattutto con gli anni di generoso, disinteressato volontariato in zone di guerra (Bosnia- Erzegovina).

    Qualche aspetto meno “nobile”.

    Parlando della sua altalenante relazione con una attempata nobildonna romana benestante (Lydia da lui detta “Maga Circe”), avevamo discusso in merito allo stile non “politicamente corretto” con cui raccontava di alcune “sue” donne.
    Costei (da cui si era fatto mantenere, quasi come un toy-boy) veniva descritta in maniera irriverente: “agile e morbida come una foca da circo quando le prendeva la fregola (…) negli ascensori, dentro le toilette, nei guardaroba degli hotel, nei vicoli bui di Sperlonga…”

    Non in linea con l’abituale sua sensibilità, empatia verso vittime, esclusi e diseredati.
    Parentesi non propriamente edificante quella romana. Da cui l’inquieto adolescente si era emancipato fuggendo a Lipari (e portandosi appresso la vespa regalata da Lydia e i piccioni viaggiatori). Perdendosi, anzi ritrovandosi, tra la luminosità marina (“tutto brillava, tutto risplendeva…”).

    A distanza di anni rievocava (lo sguardo un po’ appannato, nostalgia ?) le piazzette e le stradine impervie, le “lampare tremolanti”, il castello, la cattedrale, le case antiche. Ma soprattutto il mare “così turchese, così trasparente e sfavillante, da flippare, altro che Ostia o Fregene”. E la gente. Che pasolinianamente percepiva non ancora corrotta dalla modernità capitalista (non del tutto almeno). Ritrovandovi l’innocenza della mitizzata infanzia perduta. Pur mantenendo anche nell’isola uno stile di vita quanto meno “scanzonato” (oggi magari si direbbe fluido) in campo sessuale.
    Vivendo quasi con rassegnazione tale contraddizione.

    Con rimpianto anche in anni successivi per quel periodo: “Oh, poter stare lì con lei (rievocando, con toni francamente piccolo-borghesi per lui inusuali, la visita in casa della nonna di un suo amico isolano nda) rincantucciato nel salottino da bambola con l’odore di cera dei pavimenti, la pendola grande della sala da pranzo che spandeva per tutta la casa quel suo tic tac rassicurante, il debole ronzio del frigorifero, il remoto rumore della risacca del mare così rilassante, e lì dentro, avvolto in quel tepore, da quel senso di benessere, con un gatto tra le ginocchia leggere tutti quei bei libri rilegati ed esposti con tanta cura nelle librerie e nella vetrinetta accanto alle foto di famiglia. Verga Pirandello Deledda Pavese Melville London Maupassant Flaubert Proust Dostoieskij Tolstoj…(l’ansia di appropriazione della cultura “borghese”, peculiare di ogni proletario autoalfabetizzato nda) e liberarsi da quell’intimo malefico sospetto che mai avrei conosciuto in realtà una gioia così grande”.

    Ma forse, come Jack Kerouac, anche Bruno in fondo cercava solo il suo spicchio di “beatitudine”.
    Mi spiego. Kerouac ideò l’espressione Beat Generation nel 1948 per definire il movimento giovanile dell’underground newyorkese attribuendole aspetti quasi mistici (nel senso di “beato” dalla contrazione di “beatific”). Tanto che per lo scrittore cattolico franco-canadese esprimeva la sacralità segreta degli oppressi.

    E Bruno il suo “spicchio di beatitudine” lo inseguiva, pedinava anche entrando “senza sapere perché in una chiesa appena giunto a Lipari”.
    Mettendosi in ginocchio davanti alla statua della Vergine (“carica d’oro”) a pregare “con gli occhi chiusi, le mani giunte, il cuore traboccante di gratitudine”. Finché a strapparlo dall’estasi mistica non giunse, strattonandolo sulla spalla, sbraitando “in siciliano stretto” e tirandolo per un braccio, un “prete con la faccia butterata, lo sguardo cattivo, con un vocione da orco” che lo aveva scambiato per “uno delle giostre. Era infatti la fiera di San Giuseppe ed era arrivato anche il circo”.
    Ma l’idillio bucolico-insulare doveva presto finire. Interrotto dall’arresto – a Stromboli dove lo aspettavano i carabinieri – per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti (tre grammi di cannabis nel borsellino). E poi, dopo la perquisizione a casa sua, anche per coltivazione di canapa indiana. Con un risvolto tragico. Una parte dei suoi amati piccioni viaggiatori venivano abbattuti a fucilate dai finanzieri (non dai carabinieri, precisava) in quanto sospettati di venir utilizzati per il traffico della droga (!?!).

    Conseguenza fatale, un periodo di permanenza forzata nella Casa circondariale di Messina, il “Gazzi”. Per la cronaca, la sua terza esperienza carceraria dopo quelle al minorile e al Regina Coeli (per “resistenza a pubblico ufficiale”).
    Tra i ricordi indelebili, una frase, vagamente dantesca, scritta con il fumo di una candela sul soffitto: “Ricorda sempre tu che sei entrato: la legge degli uomini è uno sporco trucco e puzza di merda come questo bugliolo”.

    Tuttavia l’infelice esperienza non mancò di produrre effetti benigni. Grazie a un compagno di cella istruito (un ex accademico all’ergastolo, il “professore”) che lo incoraggiò alla lettura (“Pirandello, Herman Hesse…”) e alla scrittura. Cominciando “a scrivere su un quadernetto una sorta di diario, provando l’estasi di sfogare la propria tristezza sulla carta”.
    In tempi successivi avrebbe spiegato che “personalmente alla scrittura io ci sono arrivato per un bisogno tutto mio di tirare fuori un mondo segreto e doloroso che mi portavo dentro e premeva per uscire, un peso di cui dovevo per forza liberarmi per poter tornare a vivere. Avevo degli amici- parlo di quando ero ragazzo- a cui scrivevo delle lettere dove raccontavo ciò che mi accadeva in giro per il mondo dove, da quando ero uscito dal correzionale, me ne andavo zaino e sacco a pelo in spalla. Ad un certo punto qualcuno di loro ha cominciato a dire che non scrivevo poi così male e che non erano tutte stupidaggini quelle che raccontavo. Fellini, col quale ebbi una significativa corrispondenza durante e dopo Amarcord, fu uno di questi, ma non il primo. Elsa Morante con la quale dopo aver letto l’Isola di Arturo entrai in contatto sommergendola di lettere, me lo disse che avrei dovuto cominciare a farlo con applicazione e costanza, e me lo ridisse anche Giovanni Comisso quando lesse le sgrammaticate poesie il giorno che lo conobbi, tantissimi anni fa, ma io, io non ho mai creduto a costoro, non davo peso a questi complimenti. E poi ero troppo intento nella mia fuga ad oltranza a scorribandare per il mondo, a barcamenarmi e sopravvivere per fermarmi, sedermi davanti a una macchina da scrivere e farlo. Per me valeva il detto o si vive o si scrive. Se prima ero un sradicato saltafossi senza fissa dimora, in seguito, passato a una vita totalmente diversa dentro il vortice del cinema, vita che non era mia, vita senza tempi morti per poter esistere e restare a galla nella fiera delle vanità chiamata cinema, non avevo nè tempo nè voglia di farlo”.

    Finché anni dopo, lo Raffaele La Capria, suo vicino di casa a Roma “mi obbligò a farlo il giorno che gli raccontai un fatto accadutomi in Bosnia durante la guerra. Obbedii e la cosa portò dei risultati lusinganti, ebbi una pagina intera sul Corriere della Sera, fu la conferma che potevo scrivere, La Capria mi esortò a continuare e di fare della scrittura un metodo, una disciplina, una ricerca introspettiva. Gli ho dato retta…”.
    Per fortuna vien da dire.
    Bruno uscì dal “Gazzi” in anticipo sul previsto. Sostanzialmente per “non aver commesso il fatto” in quanto un maresciallo dei carabinieri dal cuore tenero avrebbe – a suo dire – bruciato le pianticelle di “maria” sostituendole con erbacce di aspetto simile. Quanto a Bruno si è sempre detto convinto che in realtà se le fosse fumate.
    E intanto la vocazione letteraria innescata dal carcere e perorata dal “professore” non si andava esaurendo.
    Mettendo per scritto una sorta di autobiografia, riandando all’infanzia trascorsa in un paese della campagna veneta dove allora “c’era solo povertà, odore di fiume e di letame, d’inverno la nebbia chiudeva tutto dentro un sacco che si riapriva a primavera”.
    Per inciso, un paese (Vigonovo, ancora provincia di Venezia, ma in realtà più vicino a Padova) che come minimo dovrebbe dedicargli una via, un parco. O come suggeriva un amico “almeno una panchina”,
    Di fatto stava creando una prima, ancor rozza stesura di quello che diventerà il libro-denuncia “Nessuno dovrà saperlo” (Tullio Pironti editore, 2006; menzione speciale premio letterario Città di Latisana per il Nord Est; quarta di copertina di Raffaele La Capria).

    Un crudo, impietoso resoconto dell’esperienza in seminario quando, tredicenne, cadde nelle grinfie di un prete pedofilo (un “missionario” che in seguito divenne anche vescovo).

    Come ebbe a scrivere Ferdinando Camon su La Stampa:
    “Non è un libro, è una vita. Una sapiente, allucinata, ingenua-veritiera descrizione-narrazione di quel mondo nascosto, dove succede ciò che “nessuno dovrà sapere”. Zanin voleva alzare un grido al mondo. Ecco, il grido arriva, lo sentiamo. Chi ha orecchie per intendere, intenda…”.
    Altra sofferenza al ritorno in paese (incompreso, deriso…) dove “per reazione al mio isolamento feci tutta una serie di esperimenti altresì chamati cazzate”. Poi la fuga da casa, il vagabondaggio durato mesi, le violenze subite da un giostraio incontrato alla stazione di Milano, i carabinieri che lo fermano a Busto Arsizio per portarlo al Cesare Becccaria, il carcere minorile di Milano: “vi rimasi un bel po’ finché non venne uno zio a prendermi e tornai a casa con lui”.

    Seguirà un periodo come apprendista tagliatore in una fabbrica di scarpe. “Mi misero – raccontava – alla trancia a tagliare fodere, cinturini, punte, solette. Nove ore al giorno a volte dieci sempre piegato sulla trancia con la luce del neon che illuminava il reparto di una luce spettrale (…). Quando entravo nel reparto, mi accoglieva il gelo totale, i compagni mi apparivano dei fantasmi con volti duri, ostili, senza nessuna gentilezza, se sorridevano era per sfottermi con battute cattive, mi coglionavano perché non parlavo con loro, e come avrei potuto, appena tentavo di dire qualcosa le parole mi si fermavano in gola e mi veniva da piangere”.

    Ripercorrendo poi, con puntiglio e precisione, il primo viaggio oltre confine in semi-clandestinità. Sua meta, Parigi. Raggiunta con l’autostop passando la frontiera illegalmente (”de sfroso”) in quanto sprovvisto di documenti. Periodo non limpido, sia per certe ambigue frequentazioni, sia per la sfortunata incursione di un paio di mesi in quel di Amstersdam. All’epoca ritenuta la “capitale immorale” di hippy e capelloni europei (anche se, spiegava “non era tutto quel paradiso che tutti dicevano”). Sempre in autostop, ma stavolta provvisto di documenti, per quanto falsi.

    Acquistati presso la fontana di boul’mich (boulevard St. Michel).

    Purtroppo in Olanda si lasciò convincere, venne indotto a fare uso di altre sostanze stupefacenti (acido lisergico, oppio…):”Vissi male e vissi brutte esperienze”.

    Spaesato e confuso dopo esser rocambolescamente sfuggito (buttandosi contro una finestra e rimanendo ferito) a un tentativo di stupro. Per ritrovarsi, in pieno “delirio allucinatorio, assalito da visioni spaventose, seminudo e mezzo dissanguato”, su una diga a 30 chilometri dalla città. Braccato da mostruosi gabbiani (presumibilmente un effetto dell’LSD) come in un film di Alfred Hitchcock.
    Fermato dai gendarmi olandesi, dopo qualche giorno in ospedale (“reparto psichiatria”) venne rimpatriato. Preso in consegna dalla polizia a Linate, il suo peregrinare si concludeva provvisoriamente al “Paolo Pini”, il noto ospedale psichiatrico di Milano. Dove in anni futuri (i novanta) Enrico Baj metterà in pratica la lezione di Franco Basaglia. Coinvolgendo gli ex degenti, nella realizzazione di alcune opere alquanto significative (utilizzando anche specchi e specchi infranti: riflessione, sparizione, ricomposizione…). Alcune come “Il Sole di Specchi” sono ora esposte al MAPP (Museo d’Arte Paolo Pini).

    Quanto a Bruno, con il foglio di via della questura, se ne tornò a Roma.
    E qui la storia si fa lievemente surreale. Avrebbe (mantengo qualche riserva nell’usare l’indicativo) convissuto e collaborato con un misterioso “avvocato”. In realtà un esperto “truffatore professionista, famoso per aver venduto anche una nave che non era mai esistita”. Un “bandito gentiluomo” che dopo la truffa inviava mazzi di fiori alle sue vittime “giustificandosi con ragioni sociali” (alla Horst Fantazzin).
    Stando al racconto di Zanin funzionava così. Spacciandosi per studente e nipote del sedicente avvocato (“colto e preparato anche se in realtà aveva solo la terza elementare e tutto quello che sapeva lo aveva imparato leggendo”) andava ad abitare in un appartamento affittato dal lestofante di professione che intanto con annunci sul giornali lo metteva in vendita.
    A un prezzo vantaggioso in quanto spiegava affranto che “i soldi gli servivano per curare la moglie”.
    Ovviamente chiedeva una caparra a tutti i potenziali acquirenti e appena ne aveva raccolte il più possibile il sedicente nipote e giovane studente sloggiava dal locale. Tornando a vivere dall’avvocato in contrada Ottavia.
    Finché una sera, sceso dall’autobus incontrò un signora che gli chiese cosa avesse combinato “suo zio” per essere stato appena “portato via in manette da quelli della Questura”. Rispose che “forse non aveva pagato una multa”.
    Entrato in casa “col cuore in gola dopo aver rotto i sigilli del sequestro giudiziario” mise le sue poche cose tutte insieme e se ne andò dritto alla stazione.

    Dopo un mese trascorso “dormendo sui treni e mangiando dai frati” (e altre storie non propriamente esemplari), finì a piazza Navona. A collaborare con un pittore di strada tossicodipendente e bohémien di Primavalle che gli propose di vendere i suoi disegni ai turisti tenendosi la metà del ricavato. Mentre il pittore si assentava sempre più spesso andando in farmacia per rifornirsi di Cardiozol. Uno sciroppo oppioide, sedativo per la tosse che all’epoca andava forte tra i freaks (falciandone parecchi oltretutto).

    Ma lasciamo ora il Bruno diciottenne al suo girovagare per l’Europa “dormendo sotto i ponti solo e malato di scabbia” e alle sue picaresche disavventure romane, per ritrovarlo negli anni novanta quando per tre anni è stato in Bosnia (allora percepita come “una patria ideale, da difendere”). Sia come corrispondente free lance (Radio vaticana, Corriere della Sera, Der Spiegel, Famiglia Cristiana…) che in veste di volontario per una ong francese, trasportando viveri e medicinali ai profughi.

    Mi aveva spiegato di essere stato in un primo tempo volontario fai-da-te, per poi entrare a far parte dall’ong francese Emmaus Internazionale, fondata dall’Abbè Pierre (altro personaggio oggetto in anni recenti di controversie, rivelazioni e discussioni, ma lasciamo perdere) come “responsabile stipendiato, ma non credo che rifarei ancora una scelta del genere avendo visto e capito laggiù cose che mi hanno cambiato molti punti di vista, in primis l’ opinione che avevo sulla guerra, sulle guerre in genere e anche sugli aiuti umanitari e le organizzazioni umanitarie di cui ho fatto parte. Lo stesso vale per la politica messa in atto dai responsabili delle parti coinvolte nel conflitto e così per i governi che hanno preso parte alle trattative per risolvere la spinosa questione. In poche parole, per usare un eufemismo, la guerra è comunque e sempre un gran merdaio, dove tutti hanno una buona dose di torto e responsabilità, nessuno ha sufficiente ragione per dire: sono totalmente dalla parte della ragione, sono stato aggredito ingiustamente”

    Pur concedendo che magari “ci saranno anche delle eccezioni…”.

    Tutto era cominciato vedendo in televisione un programma su”un Paese vicino all’Italia dove accadevano cose inimmaginabili. Passavano al Tg scene raccapriccianti che solitamente si vedono solo nei film: bombardamenti, violenze, villaggi bruciati, gente cacciata dalla propria terra, esodi strazianti di donne e bambini terrorizzati, piangenti. E decisi così su due piedi, senza tanto pensarci, di andare a vedere. Erano l’infelicità o forse la voglia di evadere, l’attrattiva del rischio, che mi spinsero laggiù a cercare un valore e una ragione di vita? Ancora non mi è chiaro. L’ infelicità ha questo di straordinario, che ci fa uscire a volte da noi stessi e frantuma ogni struttura protettiva, ci stana dalla nostra appagante mediocrità per scaraventarci in mare aperto in balia degli eventi e del destino. Ed ecco che partii, in testa una quantità di propositi incantevoli, una chiarezza di coscienza così acuta da esserne eccitato come da uno stimolo fisico, quasi affrontassi una avventura estrema; ma oggi so che forse era più per arrestare la caduta e attutire l’impatto con il fondo del baratro dove stavo precipitando che per portare aiuto a gente che non conoscevo. Poco dopo il mio arrivo incontrai per caso un altro italiano che s’era mosso per una ragione più che nobile, quella di andare laggiù a cercare e portare in salvo la famigliola di un giovane bosniaco musulmano conosciuto a un semaforo di Lecco, rimasta bloccata in un villaggio non lontano da Sarajevo. E mi accodai a quella impresa romantica e sgangherata senza una carta geografica, senza sapere una parola di quella lingua, senza sapere chi combatteva contro chi, senza sapere cos’era una guerra. E quanto più ci inoltravamo nel territorio dove uno spettacolo maestoso si andava presentando ai nostri occhi, un esodo biblico in tutta la sua grandiosità e caos, ovvero migliaia e migliaia di civili in fuga con ogni mezzo, carichi oltre il credibile di masserizie, avvolti da una inverosimile nuvola di polvere, trasfigurati dalla stanchezza, tanto più la mia mente lavorava, tesseva instancabile progetti di protezione e salvezza per quella gente di cui da subito m’ero invaghito, a cui ciecamente mi votai. E quanto più in fretta andava la nostra macchina in direzione opposta a quel flusso senza fine, tanto più ero esaltato dall’immaginazione, avevo come la certezza di essere stato chiamato a una missione dove serviva solo il mio sì, la mia adesione a tempo pieno, la mia furbizia e quanto di meglio o di peggio avevo imparato nella mia strampalata vita. Non tutto mi era chiaro, né razionalmente comprensibile, ma sapevo, sentivo che tutto mi sarebbe stato rivelato, chiarito in seguito. Non ero io a creare le circostanze, queste mi attendevano, erano misteriosamente lì in attesa di me. Si era risvegliato l’idealismo e tutto il romanticismo che da bambino aveva animato il mio cuore, l’ideale cioè di fare il samaritano. Avevo la sensazione di aver ritrovato un cammino perduto, perduto per una colpevole distrazione, e di essere lì lì per rimpossessarmi della mia parte più autentica e genuina. A tal punto ne ero convinto che, una volta che fummo catturati e poi rilasciati dai serbi, mi sono proiettato a capofitto a servire la causa dei musulmani che a buona ragione ritenevo gli aggrediti, le vittime per eccellenza di quella barbarie. E’ stata questa la dinamica e il ragionamento, oppure, oppure ero precipitato senza rendermene conto in un delirio mistico?”.

    Di quella intensa esperienza rimane esemplare un suo articolo apparso sul Corriere della sera in cui delineava la figura di un mercenario tedesco che combatteva per i bosniaci e che aveva tentato, ma invano, di andarsene, forse disgustato dalla brutalità della guerra. Alla fine “Heinz il mercenario” (orogonario dalla DDR) si era tirato un colpo alla testa.

    In tempi più recenti Bruno aveva scritto un altro libro (purtroppo rimasto inedito, forse per un eccesso di scrupoli da parte di Bruno, nell’ultima versione stava cambiando tutti i nomi…) “dove questi “mutamenti e alchimie” che la guerra produce sulle persone sono osservati e raccontati dal suo particolare punto di vista.

    “La guerra – spiegava – non solo tira fuori ciò che in peggio o in meglio sta nell’uomo e alla massima potenza, ma molto, molto di più essa produce o distrugge (…). Credo sia indistruttibile nell’uomo l’elemento barbarico e l’istinto elementare dell’annientamento del nemico, e per nemico si intende tutto quello che è diverso e lontano da te”.

    Tra le persone che ricordava con maggior frequenza, apppunto il combattente “Heinz, un gigante alto 2 metri e passa, finito in Bosnia a fare il mercenario; eppure non è riuscito a compiere il suo sporco lavoro senza esserne sopraffatto, il male fatto si è trasformato in pentimento e vergogna e si è ucciso, ha compiuto alla lettera un precetto evangelico si potrebbe dire, alla macina ha sostituito il mitra. Motivo? Si era reso complice dell’uccisione a sangue freddo di un ragazzino disarmato e indifeso”.

    Alla fine aveva voluto vedere con i suoi occhi, toccare con mano:

    “Sovente i soldati di ritorno dal fronte venivano in abiti borghesi nel magazzino dove tenevo e distribuivo gli aiuti umanitari che attraverso la mia organizzazione andavano alla popolazione della cittadina dove operavo. Ascoltavo i loro discorsi e vedevo che le crudeltà, i massacri, la pulizia etnica che il mondo indignato condannava, sui quali i media versavano fiumi di inchiostro a renderli ancora più raccapriccianti e assurdi, non erano perpetrati solo dai serbi a danno dei poveri musulmani o croati aggrediti, ma anche costoro, che lamentavano d’esserne vittime, similmente le compivano e se non le stesse, di peggiori e più atroci. Ciò che i serbi avevano fatto loro, essi restituivano con gli interessi maturati. E si vantavano pure di compierle queste imprese, le raccontavano come si racconta la trama di un film appena visto o la cronaca di una partita di calcio.

    Ero allibito, non potevo credere che quei ragazzi cosi apparentemente miti e simpatici, sempre pronti alla battuta, allo scherzo, un tempo contadini, operai, studenti ora soldati per necessità, bravi ragazzi tutto sommato che aiutavano le vecchie nonne a spingere le carriole piene di taniche d’acqua nelle ripide salite e quando c’era un pallone giocavano come ragazzini con i bambini, una volta al fronte si facessero crudeli e sanguinari come dai racconti, capaci di azioni simili… poteva essere vero quello di cui si vantavano?

    Così, per rendermi conto se erano spacconate o fatti veri, un giorno mi presentai nella caserma di un gruppo di giovani squadristi, la jeep piena di ogni ben di Dio e offrii quel carico al comandante chiedendo, come controparte, un ragionevole favore: poter andare sulla linea da lui presieduta a dare un’occhiata (…).

    La vita di trincea, gli angusti bunker densi di fumo dove l’odore del sudore e della polvere da sparo creava un eccitante lezzo di gioventù votata alla morte, mi avvolse e stravolse conquistandomi. Il mio cuore si aprì e si sciolse per quei soldati così giovani, così mal equipaggiati e malmessi eppure arditi e coraggiosi, saldati insieme da antica frequentazione, dalle avventure adolescenziali, così protesi anima e corpo, uniti e inseparabili nelle azioni. Tornai e ritornai altre volte, feci amicizia e mi legai ad alcuni, i più diretti nei sentimenti; per questi soldati provai una dolorosa ammirazione, mi sentii uno di loro, solo e perduto come loro, generoso e irresponsabile come loro, assetato di grappa e canzoni come loro. E in loro compagnia le giornate volavano via tra dettagliati racconti di terrore e morte, scherzi e lazzi goliardici, giochi di carte, partite a scacchi, lettura di giornali, bevute di grappa, canzoni e caffè, e le notti erano calme e tranquille, nei soldati c’era l’idea che quel tratto di linea fosse sicuro e inattaccabile, e come la zona era in aperta campagna, lontana da qualsiasi obiettivo, strada o presidio strategico, questa convinzione incoraggiava e giustificava. Vi furono comunque delle scaramucce, un paio di azioni di disturbo e in primavera una grossa offensiva, appoggiati da forze provenienti da altri corpi. Vi partecipai rimanendo nelle retrovie. Passai la notte precedente spiando tutto quanto emergeva dalla tenebra dalle colline circostanti battute dai canti dei grilli, notte passata con i ragazzi che si caricavano a vicenda il morale, filmai l’attesa e filmai lo scontro che avvenne all’alba nel folto di un bosco di faggi ai margini di un villaggio musulmano perduto e ripreso più volte. Provai il brivido della guerra in diretta, provai l’ansia di vedere con quale noncuranza e vaghezza quei ragazzi, sani e giovanissimi, il viso pitturato come selvaggi della Amazzonia andassero, con quel terrificante aspetto, ad affrontare i serbi di gran lunga meglio equipaggiati e superiori in armamenti, senza tenere presente gli svantaggi, calcolare gli imprevisti, gli scarsi margini di riuscita che avevano. E il frastuono delle raffiche di mitra, il fragore delle esplosioni delle granate era tale da sospendere ogni facoltà percettiva. Dimmi tu quanto mi bastava a quel punto passare dalla telecamera a imbracciare un mitra?”.

    Rimane un’altra questione. Come mai un promettente, affermato attore aveva abbandonato quella carriera quando molta gente farebbe carte false per una semplice apparizione in TV?

    Questa la spiegazione che mi aveva fornito all’epoca della prima intervista:

    “La verità è questa: innanzitutto era lontano da me anni luce l’idea di diventare attore e questo vuol dire molto. Se non hai l’ambizione, la passione o chiamiamola vocazione per fare una certa cosa e la fai lo stesso, la fai male e stai male, se poi la fai anche bene, e io ero un discreto attore, così almeno diceva la critica di quel tempo, allora sorge dentro di te una voce implacabile e urticante che ti dice: non vedi che ti stai prostituendo? Stai imbrogliando tutti e anche te stesso, nulla di ciò che ottieni con questo mestiere è meritevole, tanto meno il guadagnato, troppo facile, i soldi che ti danno non te li meriti e così le lodi la fama e l’ ammirazione. Questo è quello che ho sentito per tutto il tempo che ho fatto l’attore conducendo una vita non autentica, dissipata e filtrata attraverso questo equivoco. Il malessere è poi cresciuto con la consapevolezza che non riuscivo ad amare assolutamente quel lavoro anche se mi dava l’occasione di vivere dentro una favola. Credo sia stato il bisogno di realtà, la voglia di crescere, di rendermi indipendente, di prendermi cura di me, di sanare vecchie ferite. Ecco, la scrittura mi ha dato questa opportunità. Sono ancora agli inizi, diciamo, agli inizi del cammino, e non è mai troppo tardi per cominciare a mettere a posto le cose, e poi meglio tardi che mai, meglio coltivare il proprio orticello che entrare in un mondo che non è il proprio, un mondo in cui si è destinati solo ad essere usati. Il mio orticello oggi è la scrittura. Con essa voglio avvicinarmi al massimo a quello che sento di essere”.

    Questo estratto di parte della vita di Bruno Zanin è forzatamente parziale. Da raccontare ci sarebbero tante altre faccende. Per dirne una, il suo ruolo di accusatore nei confronti di don Gelmini in quanto molestatore seriale di ragazzini. Non certo secondo rispetto a quello più noto del giornalista Marco Salvia (autore di “Mara come me” pubblicato da Stampa Alternativa, un preciso atto d’accusa nei confronti del prelato).

    Dell’ambigua personalità di don Gelmini, Bruno aveva avuto modo di farne diretta esperienza alla fine degli anni sessanta. Così l’aveva raccontata a Rete Abuso (associazione dei sopravvissuti agli abusi sessuali del clero):

    “Erano i tempi in cui la Beat Generation cominciava a confrontarsi con gli Hippies, i capelloni, come ci chiamavano allora. Io ero scappato di casa e mi ritrovavo insieme agli altri ragazzi a Piazza di Spagna a Roma. Don Gelmini ai tempi si faceva chiamare “il monsignore”, e veniva a cercarci nei nostri luoghi di incontro, nei locali che erano diventati le nostre mete preferite. Ci raccontava che la Chiesa e il Vaticano erano molto vicini ai nostri ideali e che se Gesù fosse vissuto in quel tempo, sarebbe certamente stato un capellone (…). Ci portò a casa sua perchè potessimo farci una doccia. Mentre eravamo in bagno entrò e si rivelò per quello che era. Insisteva, nonostante i nostri rifiuti. Ero solo un ragazzino. Ci vergognammo moltissimo del suo atteggiamento. Era un uomo di 40 anni passati e noi dei ragazzini. E poi era un uomo di chiesa! E io, che avevo vissuto delle bruttissime esperienze, non li sopportavo proprio i tipi come lui, per questa loro doppiezza che li portava a predicare una cosa e fare, poi, l’opposto”.
    Anche per questo diceva a tutti di “non mandare i figli ad Amelia (la comunità di recupero per tossicodipendenti “Incontro”, basata sulla “Cristoterapia” e conosciuta come Centro di Mulino Silla, nda) perché rischiavano di finire nell’harem di don Pierino”. Rivendicando apertamente il suo ruolo nella beffa “situazionista”, orchestrata da Luther Blisset, con cui nel gennaio 1997 venne diffusa la notizia (falsa, ma quasi “profetica” con dieci anni di anticipo) dell’arresto di don Gelmini (dal 1988 Esarca Mitrato della Chiesa cattolica greco-melkita).

    E Bruno non si era tirato indietro nemmeno nel 2007, andando a deporre davanti agli investigatori della Procura di Terni nell’inchiesta giudiziariain cui ad accusare don Gelmini erano decine di ragazzi. Come da manuale, don Gelmini si scagliò allora contro le “toghe rosse” e la “lobby ebraico-radical-chic” (diventata poi, correggendo il tiro “lobby massonica-radical chic”) per quello che definiva un “complotto” ordito nei suoi confronti per “indebolire la Chiesa tutta”. Patetica, pietosamente e miseramente patetica la difesa d’ufficioportata daVittorio Messori: “Un uomo di Chiesa fa del bene e talvolta cade in tentazione? E allora? Se fosse così per don Pierino Gelmini, se ogni tanto avesse toccato qualche ragazzo ma di questi ragazzi ne avesse salvati migliaia, e allora?”.
    E allora, appunto.
    Per la cronaca, nel 2008 la Procura chiese il rinvio a giudizio accordato dal gup nel giugno 2010. Tuttavia, dopo una serie di rinvii (ufficialmente per ragioni di salute), anche il presunto reato veniva a cadere con la morte del controverso personaggio (12 agosto 2014).

    Degli abusi di cui si era reso responsabile il discusso sacerdote, Zanin ne aveva parlato sia con Federico Lombardi, all’epoca direttore di radio Vaticana (“mi rise in faccia”), sia con Monsignor Giovanni d’Ercole (in Bosnia per Tele Pace). Tempo sprecato, ca va sans dire.
    Rendendone partecipe anche Carlo Carretto quando si era recato in pellegrinaggio – a piedi – fino alla comunità religiosa di Spello.

    Ma scoprendo che ne era già a conoscenza in quanto “don Gelmini aveva infastidito sessualmente anche due ragazzini dell’Azione cattolica quando Carretto ne era presidente”. Già da tempo isolato dalla Chiesa per le sue posizioni “mi disse che l’unica possibilità era che lo denunciassero direttamente i ragazzi vittime dei suoi abusi”.
    Insomma, all’epoca per la Chiesa cattolica i tempi non erano ancora abbastanza “maturi”: Del resto l’avevo sperimentato anch’io nel mio piccolo. Quando – forse ingenuamente – inoltrai la mia intervista a Zanin alla redazione del giornale diocesano con cui ho collaborato per anni (pagine degli Esteri). Mai pubblicata, nemmeno in parte.

    In ogni caso (a mio parere) da gran parte delle vicende e vivissitudini intrecciate alla vita di Bruno Zanin emerge una costante. L’ostinato tentativo di suturare la ferita del seminario (mai del tutto rimarginata), ricomporre il mosaico della propria esistenza e della propria identità. Violate, “dirottate”. Avendo dovuto prendere atto che “le esperienze vissute in collegio mi avevano segnato, la mia sessualità era stata pervertita e violata…”.

    Cos’altro intendeva descrivendo la sua precipitosa esistenza come “precaria e assurda, selvatica e aggressiva”?

    In fondo anche per Bruno, a titolo di epitaffio, vale quando scrisse (una citazione ?) del suo alter-ego Alessandro: “Accumulò dei vizi. Ma mai rimase a lungo soggiogato a uno di questi”.

    Se non una totale redenzione, sicuramente un degno riscatto.

    Un pensiero finale. A Roma e a Lipari Bruno accudiva i colombi viaggiatori, in montagna le capre. Regolarmente poi gli capitava di adottare qualche bastardino randagio, i gatti provavano per lui una simpatia istintiva (ricambiata)…

    Un aspetto questo della sensibilità, empatia verso gli animali che – col senno di poi – lo caratterizzava. Forse avrei dovuto approfondire. Si identificava? Compensava qualche carenza affettiva?
    Avrà pensato anche lui “meglio di tanti esseri umani?”. Purtroppo ormai nessuno potrà saperlo.

    Gianni Sartori

    *nota uno:

    “Une ou plusieurs personnes se livrant à la dérive renoncent, pour une durée plus ou moins longue, aux raisons de se déplacer et d’agir qu’elles se connaissent généralement, aux relations, aux travaux et aux loisirs qui leur sont propres, pour se laisser aller aux sollicitations du terrain et des rencontres qui y correspondent. La part de l’aléatoire est ici moins déterminante qu’on ne croit: du point de vue de la dérive, il existe un relief psychogéographique des villes, avec des courants constants, des points fixes, et des tourbillons qui rendent l’accès ou la sortie de certaines zones fort malaisés”.

    (Guy Debord)

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