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Il Carro del principe, un viaggio durato 27 secoli

Inaugurata nel museo di Fara Sabina la sala del carro di Eretum. Dalla Sabina alla Danimarca e ritorno

La storia è vecchia di ventisette secoli. La raccontano Livio e Plutarco e, ovviamente, non può che essere avvolta nella leggenda, o meglio nel mito, che ha i suoi addentellati nella realtà storica. Risale al tempo della conquista sabina del Campidoglio, poco dopo la fondazione romulea della Roma quadrata sul Palatino. Mettio Curzio, principe di Eretum e comandante delle schiere sabine guidate dal re di Cures, Tito Tazio, venne a duello col braccio destro latino di Romolo, Ostio Ostilio, nonno del futuro terzo re di Roma, e lo uccise, sotto la rocca capitolina. La scaramuccia che ne seguì costrinse il condottiero sabino allo scampo nella marrana tra i due colli, rimettendoci quasi la pelle. Poi le due fazioni si ricomposero con la coreggenza dei due re, Tito con Romolo, finché questi non decise di sbarazzarsi del rivale, tempo dopo, con una congiura a Lavinio, presso il mausoleo d’Enea. Fine della storia, o meglio del mito.

La cronaca è vecchia di quarant’anni. Nella campagna romana presso Montelibretti, in località Colle del forno, nel passaggio dell’area al Cnr beninformati tombaroli trafugano dalla necropoli di Eretum i resti di un corredo principesco appartenuto a un nobile sabino del VII secolo avanti Cristo. I materiali finiscono, tramite il mercante d’antichità Giacomo Medici, nel museo Ny Carlsberg di Copenaghen, dove per decenni fanno bella mostra di sé con la dicitura “carro etrusco”. Numerose segnalazioni e sollecitazioni portano i carabinieri del nucleo di tutela patrimoniale a indagare sui fatti e riportano infine alla restituzione dei reperti trafugati in patria, nel 2016. In piena pandemia, nel 2021, il pubblico italiano può ammirare i resti ricomposti ed esposti a Rieti, a cura della fondazione Varrone, con la promessa di restituirli alla terra natìa, in un’adeguata sede.

L’attualità è di oggi. Il carro del principe di Eretum è tornato a casa, nella nuova sala espositiva di palazzo Brancaleoni, nel museo archeologico di Fara Sabina, accanto ad altre pietre miliari delle risultanze archeologiche del popolo centroitalico. Due tra tutte il cippo di Cures, con iscrizione arcaica, e il calco in terracotta di un trono – forse dello stesso principe – proveniente dal medesimo. Il lungo viaggio è finito, tra gli altri materiali recuperati, in un degno allestimento realizzato anche grazie ai fondi messi a disposizione dal Polo industriale di Passo Corese. A mo’ di risarcimento, assai parziale, per aver spianato l’antica necropoli di Curi, giacente sotto il magnificente centro logistico e di stoccaggio Amazon, dopo secoli d’oblio. Tutto interrato e cementificato, come riportato dalla trasmissione Report al tempo. Compresa la via sacra percorsa da Numa Pompilio, secondo re sabino di Roma, prima d’essere incoronato re al posto del predecessore, con miglior fortuna.

Alla cerimonia inaugurale c’erano un po’ tutti: media, archeologi – tra cui Paola Santoro e Francesca Licordari, idealmente a cassetta del carro – e autorità. Soprattutto gente. Tanta, al punto che per la presentazione del ritorno si sono dovute aprire le porte della collegiata di Sant’Antonio, prima di concedere un bel buffet di piazza e poter accedere, a gruppi, nella sala del carro. Nell’altre no, eppoi è giusto così, meglio godersele in pace e con calma, le poche testimonianze d’un popolo che ha dato alla storia di Roma e d’Italia assai più di quanto la memoria e l’archeologia abbiano potuto ricostruire, disvelandone le tracce e il ricordo. I resti del carro principesco, o meglio del cocchio da parata e del calesse cerimoniale – presumibilmente il carro funebre del principe, ricco del bestiario orientalizzante allora in voga – sono tra i pochi resti riemersi da un passato più famoso che conosciuto, per dirla come Manzoni, finalmente tornati a casa. Altri pezzi aspettano di fare ritorno, come l’elmo del principe, ancora sotto teca al museo di Magonza. Per ora, “de ‘na vacca emo reccapezzatu un cornu”, recita un motto della Sabina tiberina. Godiamocelo, è un corno d’oro.

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