La migliore “soluzione” che potrebbe scaturire è peggiore di quella che esisteva prima [Gilbert Achcar*]
L’attuale offensiva contro la Striscia di Gaza, accompagnata da una pericolosa escalation di attacchi sionisti in Cisgiordania, rappresenta senza dubbio la fase più grave dell’aggressione sionista che continua sulla scena palestinese dalla Nakba del 1948. È quindi un grande paradosso che questo attacco parossistico possa produrre risultati completamente opposti a quelli della guerra che ebbe luogo più di tre quarti di secolo fa. Dopo la sua tumultuosa nascita nel 1948, lo Stato sionista è stato considerato dai Paesi arabi un’entità coloniale illegittima, nonostante la legittimità concessagli dalle Nazioni Unite. La verità è che all’epoca l’organizzazione internazionale era sotto il totale dominio dei Paesi del Nord a capo degli imperi coloniali, mentre la maggior parte degli attuali Stati membri dell’organizzazione era sotto il giogo coloniale, senza alcuna rappresentanza nei consessi internazionali.
La sconfitta araba del 1967 ha portato gli Stati arabi a ritirarsi da questa posizione storica e ad accettare la legittimità dello Stato sionista all’interno dei suoi confini precedenti la Guerra dei Sei Giorni. Ciò avvenne con l’accettazione della Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (22 novembre 1967), adottata meno di tre mesi dopo che un vertice arabo nella capitale sudanese, Khartoum, aveva proclamato tre principi: “Nessuna conciliazione, nessun riconoscimento, nessun negoziato”. Questa terna di rifiuta di Khartoum era in realtà contraddetta dal loro stesso contesto, che richiedeva “sforzi politici” per “eliminare i risultati dell’aggressione” ottenendo il ritiro dell’esercito sionista ai confini prebellici.
Quanto all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), dopo aver rifiutato categoricamente la risoluzione 242 appena pubblicata, si è progressivamente adattata ad essa, adottando il programma di uno “Stato palestinese indipendente” accanto allo Stato sionista, fino ad accettare ufficialmente la risoluzione nel 1988, in occasione di una riunione del suo Consiglio nazionale tenutasi ad Algeri. Seguì l’accordo di Oslo del 1993, siglato da Yasser Arafat e Mahmoud Abbas nella convinzione che avrebbe portato all’auspicato “Stato indipendente”, anche se non prevedeva nemmeno il ritiro dell’esercito sionista dai territori del 1967, ma solo il suo dislocamento al di fuori delle aree ad alta densità di popolazione palestinese, né lo smantellamento degli insediamenti, e nemmeno il congelamento delle attività di insediamento, per non parlare dell’annullamento della decisione di Israele di annettere Gerusalemme Est e del diritto al ritorno dei rifugiati.
L’accordo di Oslo ha aperto la strada al Regno di Giordania per unirsi all’Egitto e all’OLP per “normalizzare” le sue relazioni con lo Stato sionista. Il regime di Sadat aveva colto l’occasione della terza sconfitta dell’Egitto nel 1973, che aveva descritto come la “guerra dell’attraversamento” (del Canale di Suez) e presentato come una vittoria, per concludere un accordo separato con lo Stato sionista, ispirato alla Risoluzione 242. L’Egitto recuperò così la penisola del Sinai con una sovranità ridotta e senza la Striscia di Gaza, che gli era stata amministrativamente annessa prima della guerra del 1967. In cambio, l’Egitto accettò una completa “normalizzazione” delle sue relazioni con Israele, al costo di una temporanea rottura delle relazioni con i Paesi arabi.
Cinquant’anni dopo la “guerra di attraversamento” di Sadat e trent’anni dopo gli accordi di Oslo, è arrivata l’Operazione Diluvio di Al-Aqsa, concepita come una seconda “guerra di attraversamento”. In realtà, ha portato a una seconda Nakba, più disastrosa della prima in termini di dimensioni del massacro genocida, della distruzione e dello sfollamento della popolazione. Mentre altri Paesi arabi si sono uniti al campo della “normalizzazione” nel 2020, vale a dire gli Emirati Arabi Uniti, il Regno del Bahrein e il Regno del Marocco (oltre alla cricca militare sudanese), il regno saudita si sta ora preparando a unirsi a loro per completare le condizioni per la creazione di un’alleanza militare regionale che riunisca le monarchie del Golfo, Egitto, Giordania e Marocco con lo Stato sionista sotto la protezione e la supervisione militare degli Stati Uniti, contro l’Iran e qualsiasi altra minaccia che possa mettere a repentaglio la sicurezza dei membri regionali dell’alleanza e gli interessi del loro sponsor americano.
Per quanto riguarda il destino dei palestinesi, “rimettere la questione sul tavolo” – che Hamas è orgoglioso di aver ottenuto con la sua operazione, nonostante l’enorme costo umano di questo “successo” – ha in realtà portato a vigorosi sforzi internazionali, soprattutto da parte degli Stati Uniti, per far rivivere il progetto di Oslo in un modo ancora peggiore di quello di trent’anni fa. L’obiettivo è quello di creare un nuovo Stato palestinese su parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, soggetto a uno stretto controllo militare da parte dello Stato sionista attraverso la presenza permanente delle sue forze all’interno di entrambe le aree, per non parlare delle terre cisgiordane sotto il controllo dell’esercito sionista e degli insediamenti, che Israele potrà ufficialmente annettere in cambio dell’accettazione della creazione del mini-Stato.
Se Washington riuscirà a imporre questo scenario, certamente ciò costituirà una (temporanea) frustrazione delle intenzioni dell’estrema destra sionista di realizzare la “Grande Israele” dal fiume al mare. Tuttavia, queste intenzioni erano in ogni caso fuori portata già prima che il “Diluvio di Al-Aqsa” fornisse all’esercito sionista l’opportunità di rioccupare la Striscia di Gaza e di intensificare le operazioni in Cisgiordania, parallelamente agli attacchi ai coloni. Resta il fatto che la migliore “soluzione” che potrebbe scaturire dall’attuale guerra genocida condotta dallo Stato sionista è peggiore di quella che esisteva prima di essa, e certamente peggiore di quella che appariva all’orizzonte dopo l’accordo di Oslo.
Il popolo palestinese dovrà tenersi la propria terra, rifiutare lo sfollamento “morbido” (gli incentivi all’emigrazione) dopo lo sfollamento forzato, e continuare la lotta con una strategia che gli permetta di far avanzare nuovamente la propria causa, dopo il grande declino che ha fatto seguito ai grandi progressi compiuti da questa causa all’apice della prima Intifada nel 1988, declino che ora ha raggiunto il suo punto più basso. La lotta palestinese deve mirare a dividere politicamente la società israeliana piuttosto che a unirla con atti indiscriminati, subordinando le necessarie forme di resistenza armata alle esigenze dell’azione politica e di massa, per tornare alle condizioni che seguirono l’invasione del Libano nel 1982 e la prima Intifada che ne seguì, quando iniziò a crescere tra gli ebrei israeliani una corrente, definita all’epoca “post-sionista”, che combinava il rifiuto dell’occupazione con il sostegno alla de-sionizzazione dello Stato israeliano per trasformarlo in “uno Stato di tutti i suoi cittadini”.
*Questo articolo, tradotto dall’autore (professore alla SOAS – Università di Londra) è stato originariamente pubblicato in arabo su Al-Quds al-Arabi, il 30 aprile 2024, e messo online sul suo blog su Mediapart.