Finalmente una Giornata internazionale di riflessione su uno dei capitoli più oscuri della dissoluzione dell’ex Jugoslavia
Sarà l’11 luglio di ogni anno. Ll’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha proclamato quella data Giornata internazionale di riflessione e commemorazione del genocidio di Srebrenica, dove, nel 1994, furono sfollate e deportate quasi 30.000 persone ed uccise almeno 8.372 (per lo più uomini tra i 16 e i 70 anni). Questo è il numero delle vittime di cui sono accertatale la morte e l’ identità grazie all’ opera di riconoscimento che il laboratorio ICPM sta attuando a Tuzla dal 2000 tramite DNA, ma circa 1000 sono le persone scomparse, di cui ancora non si è trovato neppure un frammento.
Nell’area di Srebrenica sono state distrutte intere comunità.
Un tentativo analogo di risoluzione davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU era fallito nel 2015 per il veto posto dalla Russia, e quindi la proposta era stata presentata nei mesi scorsi all’Assemblea Generale dove non c’è il diritto di veto.
La scelta della data dell’ 11 luglio come giornata della memoria del genocidio non è casuale. Infatti l’ 11 luglio 1995 è il giorno in cui le truppe della Republika Srpska, capitanate da Ratko Mladić, entrano nella città, dichiarata safe area dall’ ONU con la Risoluzione 819 del 16 aprile 1993, e iniziano il massacro. Una piccola, poco armata e pavida unità di peacekeepers olandesi sotto la bandiera delle Nazioni Unite non è in grado di resistere alle forze serbo-bosniache. Il risultato è la brutale e pianificata uccisione dei musulmani bosniaci a Srebrenica da parte dell’esercito della Republika Srpska, che è stata riconosciuta come un atto di genocidio dalla Corte internazionale di giustizia e dal Tribunale criminale internazionale per l’ex Jugoslavia, entrambi con sede a L’ Aja.
Questo 23 maggio, adottando la risoluzione, l’Assemblea delle Nazioni Unite ha anche chiesto al Segretario generale di istituire un programma di sensibilizzazione sul genocidio di Srebrenica in preparazione del 30° anniversario del prossimo anno.
L’Assemblea ha inoltre condannato qualsiasi negazione del genocidio di Srebrenica come evento storico e ha invitato gli Stati membri a preservare i fatti accertati, anche attraverso i loro sistemi educativi, al fine di prevenire la negazione e la distorsione e il verificarsi di qualsiasi genocidio in futuro.
Il testo della risoluzione è stato proposto da Germania e Ruanda. Presentando la bozza di risoluzione, Antje Leendertse, Ambasciatrice e Rappresentante Permanente della Germania presso le Nazioni Unite, ha affermato che l’iniziativa intende onorare le vittime e sostenere i sopravvissuti, “che continuano a vivere con le cicatrici di quel periodo fatale”. L’ Ambasciatrice ha inoltre sottolineato il ruolo dei tribunali internazionali “nel combattere l’impunità e assicurare la responsabilità per il genocidio, e nell’ usare un linguaggio contro la negazione di esso e contro la glorificazione dei perpetratori”. Ha anche parlato contro le “false accuse”, affermando che la risoluzione “non è diretta contro nessuno, non contro la Serbia, un membro stimato di questa Organizzazione. Semmai, è diretta contro gli autori del genocidio”, ha aggiunto Leendertse. “Invito quindi tutti a giudicare il testo nel merito e a sostenere il nostro appello a commemorare e riflettere su quanto accaduto a Srebrenica quasi trent’anni fa”.
Purtroppo non stupisce che la Serbia abbia invece ritenuta ingiusta e oltraggiosa la Risoluzione.
La Serbia e la Republika Srpska (entità della Bosnia Erzegovina), infatti, si erano da subito opposte alla proposta di Risoluzione conducendo un’intensa campagna contro tale iniziativa, appoggiate dal patriarca ortodosso e con l’ aiuto dei media, il cui controllo da parte dello stato è decisamente forte. Il messaggio chiave è mi nismo genocidan narod “noi non siamo un popolo genocida”. Dalle persone comuni, ai media, alle istituzioni, il messaggio è stato ripetuto incessantemente e scritto come graffito sui muri e su striscioni.
E questo, nonostante il testo della Risoluzione fosse stato modificato, escludendo esplicitamente il concetto di colpa collettiva di un intero popolo.
In occasione del voto, il presidente serbo Aleksandar Vučić, recatosi a New York per un’ offensiva diplomatica cercando di bloccare la Risoluzione, nella sala delle Nazioni Unite, ha definito il testo della risoluzione “altamente politicizzato”, affermando che avrebbe “aperto un vaso di Pandora”. La bozza di Risoluzione “è stata nascosta dai suoi autori” ha affermato, aggiungendo che manca un processo inclusivo rispetto alla “Risoluzione per il Ruanda”, che è stata preparata in modo “molto trasparente”. Ricordando poi le discussioni sulla questione al Consiglio di Sicurezza a marzo, ha aggiunto “quando volevamo discutere del bombardamento della Serbia nel 1999, ci hanno detto ‘non guardate al passato, guardate al futuro: è successo 25 anni fa. Due giorni dopo abbiamo scoperto che stavano preparando questo tipo di Risoluzione relativa a eventi accaduti anche quattro anni prima [del 1999]: quando hanno delle esigenze, esigenze politiche, possono andare in profondità nel passato, quando qualcun altro si riferisce al passato, in quel caso i fatti non contano. Con i verdetti e le condanne già emessi attraverso il processo giudiziario, la Risoluzione non farà altro che approfondire le divisioni e portare all’instabilità. Non si tratta di riconciliazione, né di memoria, ma di qualcosa che riaprirà una vecchia ferita e creerà un completo scompiglio politico. Non solo nella nostra regione, ma anche qui, in questa sala”. E concludendo ha aggiunto, “avete scoperchiato il vaso di Pandora”.
Il testo si ispira alla risoluzione dell’Assemblea Generale che ha designato il 7 aprile come Giornata internazionale di riflessione sul genocidio del 1994 contro i Tutsi in Ruanda ed è stato adottato con un voto registrato di 84 nazioni a favore, 19 contrarie e 68 astensioni. Più una ventina di paesi non si sono presentati.
Volker Türk, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, ha accolto la Risoluzione come “un ulteriore riconoscimento” delle vittime e dei sopravvissuti e della loro ricerca di giustizia, verità e garanzie di non ripetizione.
“La risoluzione è ancora più importante alla luce del persistente revisionismo, della negazione del genocidio di Srebrenica e dei discorsi di odio pronunciati da leader politici di alto livello in Bosnia-Erzegovina e nei Paesi vicini”, ha dichiarato in un comunicato.
Ha inoltre sottolineato la responsabilità dei leader politici della regione di impegnarsi in un dialogo costruttivo per creare società pacifiche “dove le persone possano vivere in sicurezza e libertà, senza discriminazioni o paura di conflitti e violenze”.
Siamo andati a intervistare chi a Srebrenica ha vissuto o vive tuttora, per raccogliere a caldo le loro sensazioni sulla Risoluzione.
Nadja Mujćić, laureata in fisica, abitava lì con il marito Muharem, laureato in lingue, e i tre figli, Elvira, Irvin e Nermin, e una madre. Aveva anche un fratello Nadja: Mevko.
Allo scoppio della guerra, lei fugge con i bambini piccoli e la madre anziana. Restano a Srebrenica il fratello e il marito, che viene preso come interprete alla base ONU di Potočari, compound del Dutchbat, il battaglione di caschi blu olandesi che avrebbe dovuto difendere la popolazione della città e che, invece, ha consegnato ai carnefici tutti gli uomini, fra i 16 e i 70 anni, che non avevano tentato la fuga (poi chiamata Marcia della Morte) nei boschi verso Tuzla, nel territorio sotto il controllo bosniaco.
Nel genocidio, Nadja ha perso il marito e il fratello.
«Mio marito non l’ho rivisto mai più, di mio marito non ho più saputo nulla. Per molto tempo ho sperato che fosse prigioniero, che prima o poi sarebbe riuscito a liberarsi e a tirnare. Ormai ho smesso di farlo. Spero solo che ne trovino qualche resto nelle fosse comuni ma ogni anno si abbassano le probabilità. Per chiudere davvero cerchio di dolore avrei bisogno di vedere il suo corpo, anche solo qualche osso. Almeno le ossa di mio fratello sono state trovate, nove anni fa, mio fratello mi è stato riconsegnato in una busta di plastica», dice Nadja.
E ora, chiediamo, di fronte a questa risoluzione come ti senti, Nadja?
«Non so dirti che cosa sento, è una decisione importante questa delle Nazioni Unite. Ma purtroppo la reazione dei serbi e dei serbi bosniaci è negativa. Loro non hanno ancora riconosciuto il genocidio e non hanno chiesto scusa. Sono però contenta che tutta Europa abbia votato per la Risoluzione, escluse Grecia, Cipro e Slovacchia. Anche tutti paesi dell’ex Jugoslavia hanno votato in favore».
Forse è un frammento di quella bratsvo i jedinstvo “fratellanza e unità”, a cui inneggiava Tito sin dai tempi della lotta partigiana.