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La guerra di Netanyahu svuota Gerusalemme

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Rumori, colori, odori, sapori sono scomparsi dalla città vecchia, attendono anche loro, chiusi dietro gli usci, la fine della guerra

Un reportage da Gerusalemme

Un pomeriggio di fine giugno a Gerusalemme, il 267esimo dall’inizio del conflitto.

Gerusalemme, etimologicamente ‘città della pace’, che ironia! Qui sono in guerra e, anche se Gaza dista 80 km, nella città vecchia di Gerusalemme si respira un’atmosfera da “the day after”.

Cammino nei vicoli lastricati dai Romani nel quarto secolo, lucidi per il sole, dentro le mura ottomane che ispirano venerabile rispetto, e tutto è silenzio. Ticchettio dei miei tacchi sul selciato e silenzio. A tratti qualche miagolio. I gatti, magri e affamati pure loro, sembrano rimasti i soli ad abitare qui.

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Eppure quel dedalo di viuzze era impercorribile prima della guerra: turisti da tutto il mondo, pellegrini di quattro religioni, venditori chiassosi pronti a contrattare, vuoi che si trattasse di ebrei, mercanti per antonomasia, vuoi di musulmani, campioni nelle trattative sul prezzo.

Dei colori accesi e sgargianti che invadevano questi vicoli, neanche l’ombra. I colori arcobaleno, simbolo di pace, sono fuggiti da Israele in guerra. Non può che essere così. E al posto delle stoffe dalle varie tinte che pendevano dalle botteghe aperte del suq, ci sono usci serrati. Ecco, i soli colori, scialbi, che si vedono in queste stradine sono quelli del legno degli usci serrati, alcuni marroni, altri verde chiaro, altri celeste di un cielo senza sole. Prima in queste viuzze l’odore delle spezie stordiva e inebriava e i loro colori attiravano lo sguardo: il sabbia dello zenzero, il giallo dello zafferano, il verde del cardamomo, il rosso della paprika, l’arancione della curcuma, la terra della noce moscata, il marrone delle stecche di cannella. Anche queste sfumature dell’arcobaleno hanno lasciato Gerusalemme vecchia insieme alla pace. Pregustavo una vera spremuta di melagrana, ma non c’è nessuno a venderla.

La melagrana è un po’ come questa città: un prodigio e un simbolo per molti popoli. Per le culture ebraica, araba, greca, cristiana, armena che si fondono dentro le mura di questa città, la melagrana è simbolo di fecondità, alleanza, unione, amicizia, concordia. Ecco perché non si trova più nella Gerusalemme vecchia: nulla di tutto ciò che simboleggia è più presente dal 7 ottobre quando ad un pogrom si è iniziato a rispondere con un genocidio. Non c’è neppure un tavolino all’aperto per un tè, un locale in cui mangiare. Ticchettio dei miei passi verso il quartiere armeno. Ricordavo un paio di ristoranti nella Al Armaneya, la via principale di questo settore di Gerusalemme. Bastava scendere qualche gradino e potevi gustare i khorovat, gli speziati spiedini al barbecue o il lahmacun, la pizza armena. Ma anche qui i portoni, questa volta grandi e marrone scuro, sono tutti chiusi, così come sono chiuse le numerose botteghe artigianali di ceramica e le piccole cappelle.

Tutti i rumori, i colori, gli odori, i sapori sono scomparsi dalla città vecchia, attendono anche loro, chiusi dentro gli usci, la fine della guerra.

Le vie di Gerusalemme sembrano immerse in una calma e in una tranquillità surreali, interrotte solamente da qualche ebreo ortodosso che avanza di fretta. Seguo queste figure in nero, che paiono comparire da uno shtetl dell’Ottocento e mi ritrovo al Muro del pianto. Qui al posto del brusio delle orazioni di migliaia di ebrei raccolti in preghiera, trovo un lento via vai di qualche donna dal capo coperto dal tichel e di alcuni haredi con i loro simanim, i lunghi riccioli che escono dal shtreimel, la loro variante del colbacco. Sono adirati per la decisione di cinque giorni fa della Corte Suprema che impone loro l’arruolamento. Eh già, meglio studiare la Torah e le mitzvot che rischiare la pelle.

Mi dirigo verso il quartiere cristiano. Là dove moltissimi pellegrini percorrevano la Via Crucis, non trovo nessuno. Fa impressione. Solo il ticchettio dei miei tacchi sulla Via Dolorosa. Seguo i passi di Gesù fino al tesoro del quartiere cristiano, la Basilica del Santo Sepolcro. Qui i negozi di souvenir con kippah, menorah, lampade a olio, cosmetici del Mar Morto lasciavano il posto a rosari, croci, santini, tabernacoli di legno, quadri di madonne, statue di santi e persino acqua santa. Un paradiso prêt à porter. Ma il paradiso è il giardino della pace, qui c’è la guerra: il marketing del devozionale non può dare ispirazione e guida spirituale ai cari dei turisti rimasti a casa. Nessuno neppure nella piazza del Santo Sepolcro, solo due poliziotti annoiati, ma ben armati di mitra, a sedere sui grandini in un angolo. Entro. Ho la sensazione di aver sbagliato luogo, controllo, è proprio il Santo Sepolcro. Non sembra lui: prima non si riusciva entrare tanto era numerosa la folla, adesso non c’è nessuno. L’odore dell’incenso si mescolava ai canti liturgici, ai sussurri e alle preghiere delle migliaia di fedeli che ogni giorno visitavano questo santuario, custodito da sei diverse comunità cristiane –greci, armeni, etiopi, siriani, copti e francescani – non sempre pacificamente. Ricordate la rissa nel novembre del 2008 che è finita con feriti e arrestati?

Il mix di vestiti, cerimonie sacre e canti di ogni gruppo rendeva il Santo Sepolcro un luogo molto speciale per tutti i visitatori, anche per un’atea come me, che assisteva divertita e con scettica ironia ai vari rituali. All’ingresso principale della basilica la Pietra dell’Unzione mi aspetta lì, sola, senza nessuno intorno. Prima ogni giorno centinaia di fedeli da tutto il mondo si affollavano intorno a lei aspettando il proprio turno per inginocchiarsi e baciare questa reliquia, in barba all’igiene. Ora quasi mi commuove, pare abbandonata e le faccio una carezza. A destra salgo le ripide scale di pietra che conducono al Monte Calvario. Ti aspetti una montagna erta e brulla e invece è una stanza rialzata a rappresenta il Monte Golgota dove Gesù fu crocifisso. La grande roccia dove tutto è accaduto è protetta dall’invadente venerazione dei cristiani da un cristallo. Adesso mi rifletto in quel cristallo, lo tocco, ci sono solo io. Scendo e mi dirigo all’Edicola: la tomba di Gesù. Il grande mausoleo in marmo che corona la navata circolare della basilica è l’attrazione principale del Santo Sepolcro. Al posto delle code infinite per entrare in questa piccola cappella (le guide consigliamo di arrivare di prima mattina perché l’attesa in genere è di almeno un paio d’ore) non vedo nessuno se non un sacerdote greco ortodosso, che indossa l’abito talare e la skufia neri. Sorride sotto la folta barba bianca. Gli chiedo se posso entrare nell’Edicola. Non c’è nessuno e quindi penso che sia chiusa al pubblico, che non sia orario di visite. Sorride e mi dice di entrare, da mesi e così: nessun visitatore, mi spiega. Anche la pietra della tomba di Gesù è triste e sola. Accarezzo anche lei, più per farle compagnia che per devozione. L’atmosfera è surreale. Per fortuna entra una donna con il foulard sulla testa, si precipita sul venerato letto di morte e vi poggia la testa. Esco per non disturbare e continuo il mio giro nella chiesa. Ogni tanto incrocio di nuovo il sacerdote ortodosso e ci salutiamo ogni volta con un sorriso e un cenno della mano. Mi spira simpatia, chissà cosa pensa del Santo Sepolcro deserto. Ma d’altra parte quello dovrebbe essere un luogo di pace, ma siamo in guerra. Dentro la chiesa non c’è davvero nessuno, si fa sera e ho paura che mi chiudano lì dentro che il buon ortodosso si dimentichi che c’è una turista, una sola, a visitarlo. Mi chiedo che effetto mi farebbe passare la notte lì. Mi viene un brivido ed esco. Ho bisogno di gente (in tutto il pomeriggio ho incontrato solo una turista), di vedere qualcuno, di mangiare qualcosa. Mi dirigo verso la porta di Giaffa, fatta costruire da Solimano il Magnifico proprio di fronte alla Torre di David. Qui finalmente il ticchettio si mescola al suono di altri passi. Radi uomini passano di qui, so che sono di due fedi diverse, di due popoli in guerra che abitano lo stesso territorio, però ai mei occhi hanno lo stesso volto. Se non indossano la kippah non so distinguere un ebreo da un palestinese. Vorrei salutarli ma non so se dire loro in ebraico shalòm שלום o in arabo salàm سلام, e allora semplicemente sorrido: sorrido per salutarli, ma soprattutto sorrido perché in entrambe le lingue il loro saluto vuol dire pace. Quella pace che qui non si riesce a costruire.