Si conclude il tour estivo di Capossela. Tra antichi e nuovi crolli, il De reditu tiene banco a Ostia
Il Colosseo è distante, ma l’abbrivio non poteva essere che lì. Si sconquassi al Colosseo eccetera, con tube e tamburi a dare il segno del fato, possente, in questo luogo segnato dalla storia e dal tempo. Poi è il vialibera alle cantate note e meno, dalle ultime Canzoni urgenti ai classiconi strappabudella di Camere a sud, di cui ricorre il trentennale. È una seconda volta il concerto di Capossela al teatro romano di Ostia antica, più che un ritorno una vendetta. C’era stato qualche intoppo, nel 2006, anche se l’anno si era concluso alla stragrande, al Pincio. Complice un rosso potente e traditore, l’Anghelu ruju, che coi suoi 18 gradi è difficile da tenere a bada, soprattutto d’estate e a stomaco vuoto, e la propensione vampiresca per la buona cantina da parte di Vinicio, la serata aveva preso una piega da osteria. Stavolta no, è tutto andato liscio, giù come un buon bicchiere di vino a innaffiare il lauto pasto, per restare nella metafora vinesca.
A condurre per mano gli spettatori, assiepati sulle vecchie pietre del teatro romano, assieme a Vinicio un cantore d’eccellenza, anfitrione e testimone della Roma che fu. Rutilio Namaziano, altro esperto di ritorni. È il De reditu suo, il suo ritorno, a scandire i tempi nell’afa della serata estiva, a menare le danze tra antichi crolli e nuove macerie. Sono le parole della sua opera, perduta e ritrovata nel monastero di Bobbio al tempo in cui Colombo solcava il gran mare oceano, ad accompagnare piroette e maschere di Vinicio. A plasmare il parallelo tra la fine di quell’Occidente, di quel mondo e questo. Nel ritorno alla natìa Gallia, qualche anno dopo il gran sacco di Alarico, il nobile gallo romanizzato che aveva trovato in Roma più che una seconda patria un ideale di vita, si faceva cantore di un impero al tramonto. E, idealmente, di un impossibile ritorno ai fasti del passato, per una civiltà tracollata sotto ai colpi dei barbari, oltre che per le proprie contraddizioni.
Inevitabile il parallelo tra quel tempo e questo, andato come quello, ormai allo svuotamento dei posacenere più che alla frutta. La fine della civiltà occidentale, coi suoi furori e orrori, ma anche con le sue conquiste e bellezze, è sotto gli occhi di tutti, i barbari sono bel oltre le porte e tutto appare perduto, come al tempo di Namaziano, ma nessuno pare averne consapevolezza o volervi porre riparo, nel mondo nuovo delle verità a rovescio.
E allora che se ne canti, si canti il crollo con le magnifiche arti sceniche e sonore di Vinicio, il tasto batta dove lingua duole e parole cantino lo sfacelo coèvo, come parole cantarono la fine della Roma d’Occidente – ché quella d’Oriente ben oltre durò, anche in grazia d’aver assestato la mazzata finale alla primigenia – al volgere del suo destino. Grazie Vinicio, per ricordarci ancora quanto siamo folli e mortali, magnifici e ignobili. Il tuo ritorno, stavolta, ci è assai gradito. Ultima tappa del tour di Vinicio a Taormina, il 23 agosto, da un teatro romano all’altro greco, poi a fine novembre si fa vela per Londra e Barcellona. Info su viniciocapossela.it.